giovedì 30 marzo 2023

Caratteri e impronte: Moby Dick di Herman Melville

 Con il secondo appuntamento con la rubrica Caratteri e Impronte dedicata alla letteratura e agli animali - che ho avviato il attesa del mio secondo ebook - cambiamo decisamente scenario rispetto al primo contenuto: dallo studio di un avvocato, ci spostiamo nell'Oceano, terrificante e irresistibile allo stesso tempo, su una baleniera. Infatti, l'opera al centro di questo episodio è Moby Dick o La balena, un romanzo del 1851 scritto da Herman Melville

La storia racconta l'ultimo viaggio della Pequod, comandata dal capitano Achab, a caccia di balene e capodogli, e in particolare dell'enorme balena bianca che dà il titolo al libro, verso la quale Achab nutre una smisurata sete di vendetta.

La lotta epica tra il capitano e il capodoglio rappresenta per l'autore una sfida tra il bene e il male. Moby Dick riassume il male dell'universo e il demoniaco presente nell'animo umano. Achab ha l'idea fissa di vendicarsi della balena che lo ha mutilato e a ciò si unisce una furia autodistruttiva: «La Balena Bianca gli nuotava davanti come la monomaniaca incarnazione di tutte quelle forze malvagie da cui certi uomini profondi si sentono rodere nell'intimo» (traduzione di Cesare Pavese). Ma la balena rappresenta anche l'assoluto che l'uomo insegue e non può conoscere mai.

L'animale fa parte di una natura vista come un'entità tremenda e fascinosa, quasi un esempio di Sublime romantico: lo spruzzo intermittente della balena è come un soffio potente per cui i marinai «non avrebbero potuto rabbrividire di più, eppure non provavano terrore, ma piuttosto un piacere».

Tra gli altri temi affrontati, il dilemma dell'ignoto, la speranza, la possibilità di riscattarsi, in un'allegoria della condizione della natura umana e al contempo in una parabola avvincente dell'espansione della giovane repubblica americana.

Curiosità: lo scrittore, come potrete leggere fra poco, chiama la balena "pesce" (il capodoglio come gli altri cetacei è in realtà un mammifero). 

Immagine realizzata con Nightlife

Ecco la parte finale del libro. 

Le barche non s'erano allontanate di molto quando, a un segnale dalle teste d'albero - un braccio teso all'ingiù - Achab seppe che il pesce si era tuffato; ma volendogli essere accanto alla prossima emersione continuò a remare un po' di fianco al bastimento; l'equipaggio attonito manteneva il più profondo silenzio, e le onde di prua martellavano contro lo sperone che avanzava.

«Piantate i vostri chiodi, piantate pure, onde! Piantateli fino alle capocchie! Ma questo che picchiate non ha coperchio... e io non posso avere né cassa da morto né carro... e solo un cappio mi può uccidere! Ah! Ah!»

Di colpo l'acqua attorno si gonfiò lenta in ampi circoli; poi salì fulminea, come sfuggendo ai lati d'un monte di ghiaccio sommerso che s'alzi rapido a galla. Si udì un sordo rombo, un brontolio sotterraneo, e poi tutti tennero il fiato: in un groviglio di cavi penzolanti e ramponi e lance una forma immensa si rovesciò in alto e di sbieco dal mare. Avvolta da un velo lieve e crollante di nebbia, si librò un attimo nell'aria iridata, poi ricrollò sprofondando nell'abisso. Schizzate in aria per trenta piedi, le acque splendettero un istante come fasci di fontane, poi rompendosi scesero in un rovescio di faville, lasciando la superficie all'intorno schiumante come latte fresco attorno al tronco marmoreo della balena.

«Sotto!» urlò Achab ai rematori, e le barche scattarono avanti all'assalto. Ma esacerbato dai ramponi del giorno prima che gli rodevano le carni, Moby Dick pareva posseduto da tutti gli angeli precipitati dal cielo. I grossi fasci di tendini che gli si allargavano sulla gran fronte bianca, sotto la pelle trasparente, parevano annodati assieme mentre a capofitto, sferzando di coda, si buttava tra le barche, e ancora una volta le divideva facendo saltare lance e ramponi dai legni dei due ufficiali, e spaccando le assi più alte delle prue. Ma quella di Achab restò quasi intatta.

Mentre Daggoo e Queequeg si buttavano a turare le spaccature delle assi, e la balena allontanatasi faceva un voltafaccia e mostrava tutto un fianco tornando a passare vicina, in quel momento si udì un grido strozzato. Legato a più ritorte alla schiena del pesce, immobilizzato nei giri innumerevoli con cui durante la notte la balena si era passata attorno le lenze aggrovigliate, si vedeva il corpo semistraziato del Parsi, coi panni neri ridotti a brandelli, e gli occhi sbarrati fissi in pieno su Achab. Il rampone gli cadde di mano.

«Beffato!» E tirò un lungo respiro affannoso. «Ma sì, Parsi! Ti vedo di nuovo... Ma sì, te ne vai per primo; e questo, questo è allora il carro funebre che avevi detto. Ma devi mantenere il tuo impegno fino all'ultima lettera. Dov'è l'altro feretro? Tornate alla nave, ufficiali! Quelle barche sono inutili ormai; raddobbate in tempo, se potete, e tornate a darmi una mano; se no, Achab basta per la morte... Fermi voi! Il primo che fa solo il gesto di saltare da questa mia lancia, gli do un colpo di rampone. Non siete uomini ma le mie braccia e gambe, e perciò ubbidite... Dov'è la balena? Giù di nuovo?»

Ma guardava troppo vicino; perché, come deciso a fuggire col cadavere che portava, e come se il punto dell'ultimo scontro non fosse che una tappa del suo viaggio a sottovento, Moby Dick si era rimesso a nuotare energicamente, e aveva quasi oltrepassata la nave, che finora era andata nel senso contrario, e ora rollava ferma. La bestia pareva nuotare alla massima velocità, e preoccupandosi ormai solo di proseguire dritto per la sua rotta nel mare.

«Oh, Achab,» gridò Starbuck, «neanche adesso, il terzo giorno, è troppo tardi per rinunciare. Guarda! Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu che pazzamente lo insegui!»

Mettendo vela alla brezza che si levava, la barca solitaria fu spinta veloce a sottovento coi remi e con la tela. E quando scivolò lungo la nave, così vicino che si vedeva bene il viso di Starbuck chino sulla ringhiera, Achab gli gridò di virare e venirgli dietro, non troppo presto, a una giusta distanza. 

[...]

Fosse stremata da tre giorni di continua caccia e dalla resistenza delle pastoie che si tirava dietro, o fosse per una sua celata doppiezza e malizia, comunque sia ora la balena bianca cominciava a rallentare la corsa, come appariva dal rapido incalzate della lancia; benché a dire il vero l'ultimo distacco della balena non era stato lungo come prima. E sempre, mentre Achab filava sulle onde, quei pescicani spietati gli venivano dietro, e con tanta pertinacia si stringevano alla lancia e così spesso mordevano ai remi, che le pale si ridussero tutte rosicchiate e intaccate, e quasi a ogni tuffo perdevano piccole schegge nel mare.

«Non fateci caso! Quei denti non fanno che offrire nuovi scalmieri ai vostri remi. Arranca! È un appoggio migliore, la bocca del pesce invece dell'acqua che cede.»

«Ma signore, a ogni morso il piatto delle pale si fa più piccolo!»

«Dureranno abbastanza! Arranca!... Ma chi sa,» mormorò, «se questi pescicani nuotano per fare banchetto sulla balena o su Achab? Forza, forza! Così, in gamba ora... siamo vicini. Il timone! Prendi il timone; fatemi passare.» E mentre parlava, già due rematori lo spingevano verso la prua della barca in corsa.

Infine, mentre il legno, con una virata, filava parallelo al fianco chiaro della balena, questa parve stranamente disinteressarsi al suo arrivo, come fanno le balene talvolta, e Achab era ormai dentro alla fumosa nebbia alpina che emessa dallo sfiatatoio si avvolgeva intorno alla sua gobba, grande come il monte Monadnock. Tanto vicino le arrivò, e piegando indietro il corpo e alzando in aria le braccia distese per dare equilibrio, scagliò il rampone feroce e la sua più feroce maledizione dentro l'odiata balena. Mentre acciaio e maledizione affondavano fino al manico, come succhiati in un pantano, Moby Dick si contorse di fianco, rollò spasmodicamente contro la prua, e senza aprirvi falla inclinò così di colpo la lancia, che non fosse stato per l'orlo del capo di banda cui s'era aggrappato, Achab sarebbe finito in acqua un'altra volta. 

[...]

Quasi nello stesso punto, con un poderoso, fulmineo colpo di testa, la balena bianca balzò nel mare ribollente. Ma quando Achab urlò al timoniere di dare altre volte alla lenza e bloccarla, e comandò all'equipaggio di voltarsi sui banchi e alare la barca fino alla preda, appena il cavo traditore subì il doppio sforzo e lo strappo, saltò secco nell'aria.

«Cos'è che mi si spezza dentro? Qualche nervo cede!... no, tutto è di nuovo a posto: remi! remi! Saltatele addosso!»

Udendo il tremendo impeto della lancia che sfondava il mare, la balena si girò per presentare a difesa la vuota fronte, e in quel girare scorse lo scafo nero della nave che s'avvicinava; e forse vedendo in quello la fonte di tutte le sue persecuzioni, credendolo, può darsi, un nemico più grande e più nobile, di colpo partì contro quella prua che avanzava, sbattendo le mascelle tra irruenti rovesci di schiuma.

Achab vacillò; si batté la mano in fronte. «Divento cieco. Mani, stendetevi qui, davanti, che possa ancora trovarmi strada a tastoni. È notte?»

«La balena! La nave!» gridarono i rematori allibiti.

«Ai remi, ai re mi! Sprofòndati verso i tuoi abissi, mare, ché prima che sia troppo tardi Achab possa slittare quest'ultima volta, quest'ultima volta contro il suo bersaglio! Ora vedo: la nave! La nave! Scattate, ragazzi! Non volete salvare la mia nave?»

Ma mentre i rematori schiacciavano freneticamente la barca contro i colpi di maglio del mare, le teste prodiere di due assi colpite dalla balena saltarono, e quasi in un attimo il legno immobilizzato si trovò a pelo d'acqua, con l'equipaggio semisommerso e sguazzante, che cercava disperato di turare la falla e aggottare l'acqua che irrompeva.

Intanto, nell'attimo in cui guardò, il martello di Tashtego sull'albero gli restò in mano levato, e la bandiera rossa avvolgendolo come un manto gli svolazzò di dosso come fosse il cuore che lo lasciava; e Starbuck e Stubb, che stavano sotto, al bompresso, videro nello stesso momento il mostro che piombava loro addosso.

«La balena! La balena! Poggia tutto! Poggia! O voi potenze buone dell'aria, tenetemi stretto! Non fate morire Starbuck, se deve morire, in un deliquio da femmina! Poggia tutto, dico!... voi deficienti, quelle fauci! quelle fauci! È questa la fine di tutte le mie preghiere ardenti? Di tutta una vita di fede? O Achab, Achab, guarda cosa hai fatto. Alla via, timoniere, alla via! No, no, poggia di nuovo! Si volta per assalirci! Oh, la sua fronte implacabile si getta su un uomo a cui il dovere dice che non può fuggire. Signore, stammi accanto!»

[...]

Ormai quasi tutti gli uomini ciondolavano inerti sulla prua della nave: martelli, pezzi di tavole, lance e ramponi stretti macchinalmente in mano, così come erano accorsi dalle loro occupazioni, e tutti gli occhi incantati fissi sulla balena che vibrando stranamente da parte a parte la sua testa predestinata, si gettava davanti, nella corsa, un gran semicerchio rollante di schiuma. Giustizia, pronta vendetta e malvagità eterna erano in tutto il suo aspetto, e a onta di tutto ciò che l'uomo potesse fare, il bianco sperone massiccio della sua fronte colpì di tribordo la prua della nave, squassando uomini e assi. Qualcuno cadde lungo sulla faccia. Come pomi d'albero schiantati, le teste dei ramponieri arriva traballarono su quei colli taurini. Attraverso lo squarcio udirono le acque rovesciarsi come torrenti alpini in una gola.

«La nave! Il carro funebre!... il secondo carro!» urlò Achab dalla barca. «Quel legno non poteva essere che americano!»

Tuffandosi sotto la nave che si abbassava, la balena corse fremente lungo la chiglia, ma virando nell'acqua tornò in un attimo a emergere lontana a babordo di prua, e a poche jarde dalla barca di Achab. Per il momento, era immobile.

«Volto la schiena al sole. Olà, Tashtego! fammi sentire il tuo martello. O mie tre guglie indomabili, chiglia intatta, e tu, scafo che solo Dio può forzare, tu ponte saldo e barra superba, e prua puntata sul Polo... nave gloriosa di morte! Dunque devi morire, e senza di me? Anche l'ultima ambizione dei più mediocri capitani mi deve essere tolta? O morte solitaria dopo una vita solitaria! Ora sento che la mia massima grandezza sta nel maggior dolore. Ahimè! Riversatevi qui dai vostri punti lontani, onde coraggiose di tutta la mia vita, su in cima al mucchio di questo gran maroso di morte! Verso te avanzo, balena che distruggi e non vinci, fino all'ultimo ti combatto, dal cuore dell'inferno ti pugnalo, e in nome dell'odio ti sputo addosso il mio ultimo respiro. Affondi ogni bara e ogni carro in un solo vortice! E visto che non sono per me, che io venga trascinato a pezzi mentre ancora ti caccio, benché sia legato a te, balena maledetta! Così getto la lancia!»

Il rampone fu scagliato; la balena ferita balzò avanti; la lenza corse bruciante nella scanalatura: s'imbrogliò. Quello si chinò a districarla, ci riuscì, ma il cappio volante lo prese al collo, e senza gridare, come la vittima strangolata dai muti schiavi dei Turchi, Achab saltò dalla barca prima che gli altri vedessero che era sparito. L'attimo dopo, la pesante gassa impiombata in cima al cavo volò via dalla tinozza vuota, abbatté un rematore e frustando il mare sparì nei gorghi.

Un momento, l'equipaggio della lancia rimase impietrito. Poi si voltarono. «La nave, gran Dio, dov'è la nave?»

Presto, attraverso veli d'acqua foschi e confusi, ne videro il fantasma obliquo che svaniva, come tra i vapori della Fata Morgana, solo le vette degli alberi fuori dell'acqua; e inchiodati ai posatoi un tempo così alti, per pazzia, fedeltà o destino, i ramponieri pagani affondavano sempre scrutando sul mare. E ora cerchi concentrici afferrarono anche la lancia solitaria, e tutti quegli uomini, e ogni remo galleggiante, e ogni palo di lancia, e torcendo in giro in un solo vortice ogni cosa viva o senz'anima, trascinarono a fondo anche il più piccolo avanzo del Pequod.

Ma mentre le ultime ondate si rovesciavano fitte sulla testa sommersa dell'indiano all'albero maestro, lasciando ancora visibili pochi pollici della cima e lunghe jarde fluttuanti della bandiera che sventolava quieta, con ironica armonia, sui cumuli d'acqua distruggitori che ormai quasi sfiorava; in quel momento un braccio rossiccio e un martello si alzarono nell'aria, piegati all'indietro nell'atto di inchiodare sempre più salda la bandiera all'albero che sprofondava.

Un falco, che aveva beffardamente seguito il pomo di maestra giù dalla sua naturale dimora tra le stelle, beccando all'insegna e molestando Tashtego, cacciò per caso la larga ala palpitante tra il martello e il legno; e in un baleno avvertendo quel sussulto etereo, il selvaggio affondato lì sotto, nel suo rantolo di morte, tenne inchiodato il martello. E così l'uccello del cielo, con strida d'arcangelo, rizzando in alto il rostro imperiale, e tutto il corpo imprigionato avvolto nella bandiera di Achab, andò a fondo con la sua nave, che come Satana non volle calare all'inferno finché non ebbe trascinata con sé, come elmo, una viva parte del cielo.

Ora piccoli uccelli volarono stridendo sul vortice ancora aperto. Un tetro frangente biancastro urtò contro i suoi bordi ripidi. Poi tutto crollò, e il gran sudario d'acqua tornò a mareggiare come aveva fatto cinquemila anni fa. 


giovedì 23 marzo 2023

Caratteri e impronte: La carriola di Luigi Pirandello

 Per il primo appuntamento della rubrica Caratteri e impronte non ho scelto un'opera nota ai più ma uno scritto forse meno scontato, dove l'animale "co-protagonista" rappresenta la coscienza del padrone.  

Si tratta di La carriola di Luigi Pirandello. Questa novella viene  pubblicata nel 1917 nella raccolta "E domani, lunedì..." e successivamente nel volume "Candelora" del 1928. Il protagonista è un avvocato che narra in prima persona della sua condizione esistenziale facendo cenno, nelle prime righe del racconto, a una sua "vittima", che lo guarda insistentemente, e a un misterioso “atto terribile” che egli compie con lei, segno della sua “cosciente follia”. Chi è questa misteriosa creatura femminile sarà svelato soltanto alla fine. 

Al centro dell'opera il concetto pirandelliano dell'imposizione sociale della maschera e la repressione di ogni suo tentativo di evaderne. Una repressione che può essere aggirata solo con la devianza dalla norma, dalla follia, rappresentata dal gesto che l'uomo compie con la sua cagnolina: un atto in realtà inoquo che fa sorridere il lettore ma che per il protagonista rappresenta un segno di pazzia. Lo sguardo atterrito dell'animale rappresenta quello della società ma anche e soprattutto la coscienza del personaggio cristallizzata nel ruolo da cui non è possibile distaccarsi. 

Riporto qui sotto parte del testo. Buona lettura!


Immagine realizzata con Dall-e

Luigi Pirandello, La carriola

Quand’ho qualcuno attorno, non la guardo mai; ma sento che mi guarda lei, mi guarda, mi guarda senza staccarmi un momento gli occhi d’addosso. Vorrei farle intendere, a quattr’occhi, che non è nulla; che stia tranquilla; che non potevo permettermi con altri questo breve atto, che per lei non ha alcuna importanza e per me è tutto. Lo compio ogni giorno al momento opportuno, nel massimo segreto, con spaventosa gioia, perché vi assaporo, tremando, la voluttà d’una divina, cosciente follia, che per un attimo mi libera e mi vendica di tutto. 

Dovevo essere sicuro (e la sicurezza mi parve di poterla avere solamente con lei) che questo mio atto non fosse scoperto. Giacché, se scoperto, il danno che ne verrebbe, e non soltanto a me, sarebbe incalcolabile. Sarei un uomo finito. Forse m’acchiapperebbero, mi legherebbero e mi trascinerebbero, atterriti, in un ospizio di matti. Il terrore da cui tutti sarebbero presi, se questo mio atto fosse scoperto, ecco, lo leggo ora negli occhi della mia vittima.

Sono affidati a me la vita, l’onore, la libertà, gli averi di gente innumerevole che m’assedia dalla mattina alla sera per avere la mia opera, il mio consiglio, la mia assistenza; d’altri doveri altissimi sono gravato, pubblici e privati: ho moglie e figli, che spesso non sanno essere come dovrebbero, e che perciò hanno bisogno d’esser tenuti a freno di continuo dalla mia autorità severa, dall’esempio costante della mia obbedienza inflessibile e inappuntabile a tutti i miei obblighi, uno più serio dell’altro, di marito, di padre, di cittadino, di professore di diritto, d’avvocato. Guai, dunque, se il mio segreto si scoprisse!

La mia vittima non può parlare, è vero. Tuttavia, da qualche giorno, non mi sento più sicuro. Sono costernato e inquieto. Perché, se è vero che non può parlare, mi guarda, mi guarda con tali occhi e in questi occhi è così chiaro il terrore, che temo qualcuno possa da un momento all’altro accorgersene, essere indotto a cercarne la ragione.

Sarei, ripeto, un uomo finito. Il valore dell’atto ch’io compio può essere stimato e apprezzato solamente da quei pochissimi, a cui la vita si sia rivelata come d’un tratto s’è rivelata a me. Dirlo e farlo intendere, non è facile. Mi proverò.

[...]

Ebbene, fu nella sala della mia casa; fu sul pianerottolo innanzi alla mia porta. Io vidi a un tratto, innanzi a quella porta scura, color di bronzo, con la targa ovale, d’ottone, su cui è inciso il mio nome, preceduto dai miei titoli e seguito da’ miei attributi scientifici e professionali, vidi a un tratto, come da fuori, me stesso e la mia vita, ma per non riconoscermi e per non riconoscerla come mia.

Spaventosamente d’un tratto mi s’impose la certezza, che l’uomo che stava davanti a quella porta, con la busta di cuoio sotto il braccio, l’uomo che abitava là in quella casa, non ero io, non ero stato mai io. Conobbi d’un tratto d’essere stato sempre come assente da quella casa, dalla vita di quell’uomo, non solo, ma veramente e propriamente da ogni vita. Io non avevo mai vissuto; non ero mai stato nella vita; in una vita, intendo, che potessi riconoscer mia, da me voluta e sentita come mia. Anche il mio stesso corpo, la mia figura, quale adesso improvvisamente m’appariva, così vestita, così messa su, mi parve estranea a me; come se altri me l’avesse imposta e combinata, quella figura, per farmi muovere in una vita non mia, per farmi compiere in quella vita, da cui ero stato sempre assente, atti di presenza, nei quali ora, improvvisamente, il mio spirito s’accorgeva di non essersi mai trovato, mai, mai! 

[...]

Ed erano lì, dietro quella porta che recava su la targa ovale d’ottone il mio nome, erano lì una donna e quattro ragazzi, che vedevano tutti i giorni con un fastidio ch’era il mio stesso, ma che in loro non potevo tollerare, quell’uomo insoffribile che dovevo esser io, e nel quale io ora vedevo un estraneo a me, un nemico. Mia moglie? i miei figli? Ma se non ero stato mai io, veramente, se veramente non ero io (e lo sentivo con spaventosa certezza) quell’uomo insoffribile che stava davanti alla porta; di chi era moglie quella donna, di chi erano figli quei quattro ragazzi? Miei, no! Di quell’uomo, di quell’uomo che il mio spirito, in quel momento, se avesse avuto un corpo, il suo vero corpo, la sua vera figura, avrebbe preso a calci o afferrato, dilacerato, distrutto, insieme con tutte quelle brighe, con tutti quei doveri e gli onori e il rispetto e la ricchezza, e anche la moglie, sì, fors’anche la moglie... Ma i ragazzi?

Mi portai le mani alle tempie e me le strinsi forte. No. Non li sentii miei. Ma attraverso un sentimento strano, penoso, angoscioso, di loro, quali essi erano fuori di me, quali me li vedevo ogni giorno davanti, che avevano bisogno di me, delle mie cure, del mio consiglio, del mio lavoro; attraverso questo sentimento e col senso d’atroce afa col quale m’ero destato in treno, mi sentii rientrare in quell’uomo insoffribile che stava davanti alla porta. 

Trassi di tasca il chiavino; aprii quella porta e rientrai anche in quella casa e nella vita di prima.

Ora la mia tragedia è questa. Dico mia, ma chissà di quanti! Chi vive, quando vive, non si vede: vive... Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Perché ogni forma è una morte.

Pochissimi lo sanno; i più, quasi tutti, lottano, s’affannano per farsi, come dicono, uno stato, per raggiungere una forma; raggiuntala, credono d’aver conquistato la loro vita, e cominciano invece a morire. Non lo sanno, perché non si vedono; perché non riescono a staccarsi più da quella forma moribonda che hanno raggiunta; non si conoscono per morti e credono d’esser vivi. Solo si conosce chi riesca a veder la forma che si è data o che gli altri gli hanno data, la fortuna, i casi, le condizioni in cui ciascuno è nato. Ma se possiamo vederla, questa forma, è segno che la nostra vita non è più in essa: perché se fosse, noi non la vedremmo: la vivremmo, questa forma, senza vederla, e morremmo ogni giorno di più in essa, che è già per sé una morte, senza conoscerla. Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi è morire.

Il mio caso è anche peggiore. Io vedo non ciò che di me è morto; vedo che non sono mai stato vivo, vedo la forma che gli altri, non io, mi hanno data, e sento che in questa forma la mia vita, una mia vera vita, non c’è stata mai. Mi hanno preso come una materia qualunque, hanno preso un cervello, un’anima, muscoli, nervi, carne, e li hanno impastati e foggiati a piacer loro, perché compissero un lavoro, facessero atti, obbedissero a obblighi, in cui io mi cerco e non mi trovo. E grido, l’anima mia grida dentro questa forma morta che mai non è stata mia : 

- Ma come? io , questo? io, così? ma quando mai? 

E ho nausea, orrore, odio di questo che non sono io, che non sono stato mai io; di questa forma morta, in cui sono prigioniero, e da cui non mi posso liberare.

Forma gravata di doveri, che non sento miei, oppressa da brighe di cui non m’importa nulla, fatta segno di una considerazione di cui non so che farmi; forma che è questi doveri, queste brighe, questa considerazione, fuori di me, sopra di me ; cose vuote, cose morte che mi pesano addosso, mi soffocano, mi schiacciano e non mi fanno più respirare.

Liberarmi? Ma nessuno può fare che il fatto sia come non fatto, e che la morte non sia, quando ci ha preso e ci tiene.

Ci sono i fatti. Quando tu, comunque, hai agito, anche senza che ti sentissi e ti ritrovassi, dopo, negli atti compiuti ; quello che hai fatto resta, come una prigione per te. E come spire e tentacoli t’avviluppano le conseguenze delle tue azioni. E ti grava attorno come un’aria densa, irrespirabile la responsabilità, che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non prevedute, ti sei assunta. 

E come puoi più liberarti? Come potrei io nella prigione di questa forma non mia, ma che rappresenta me quale sono per tutti, quale tutti mi conoscono e mi vogliono e mi rispettano, accogliere e muovere una vita diversa, una mia vera vita? una vita in una forma che sento morta, ma che deve sussistere per gli altri, per tutti quelli che l’hanno messa su e la vogliono così e non altrimenti?

Dev’essere questa, per forza. Serve così, a mia moglie, ai miei figli, alla società, cioè ai signori studenti universitarii della facoltà di legge, ai signori clienti che mi hanno affidato la vita, l’onore, la libertà, gli averi. Serve così, e non posso mutarla, non posso prenderla a calci e levarmela dai piedi ; ribellarmi, vendicarmi, se non per un attimo solo, ogni giorno, con l’atto che compio nel massimo segreto, cogliendo con trepidazione e circospezione infinita il momento opportuno, che nessuno mi veda.

Ecco. Ho una vecchia cagna lupetta, da undici anni per casa, bianca e nera, grassa, bassa e pelosa, con gli occhi già appannati dalla vecchiaia. Tra me e lei non c’erano mai stati buoni rapporti. Forse, prima, essa non approvava la mia professione, che non permetteva si facessero rumori per casa; s’era messa però ad approvarla a poco a poco, con la vecchiaia; tanto che, per sfuggire alla tirannia capricciosa dei ragazzi, che vorrebbero ancora ruzzare con lei giù in giardino, aveva preso da un pezzo il partito di rifugiarsi qua nel mio studio da mane a sera, a dormire sul tappeto col musetto aguzzo tra le zampe.

Tra tante carte e tanti libri, qua, si sentiva protetta e sicura. Di tanto in tanto schiudeva un occhio a guardarmi, come per dire:

- Bravo, sì, caro: lavora; non ti muovere di lì, perché è sicuro che, finché stai lì a lavorare, nessuno entrerà qui a disturbare il mio sonno.

Così pensava certamente la povera bestia. La tentazione di compiere su lei la mia vendetta mi sorse, quindici giorni or sono, all’improvviso, nel vedermi guardato così.

Non le faccio male; non le faccio nulla. Appena posso, appena qualche cliente mi lascia libero un momento, mi alzo cauto, pian piano, dal mio seggiolone, perché nessuno s’accorga che la mia sapienza temuta e ambita, la mia sapienza formidabile di professore di diritto e d’avvocato, la mia austera dignità di marito, di padre, si siano per poco staccate dal trono di questo seggiolone; e in punta di piedi mi reco all’uscio a spiare nel corridoio, se qualcuno non sopravvenga; chiudo l’uscio a chiave, per un momentino solo; gli occhi mi sfavillano di gioia, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d’esser pazzo, d’esser pazzo per un attimo solo, d’uscire per un attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di distruggere, d’annientare per un attimo solo, beffardamente, questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia; corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto; piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non più, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro.

Questo è tutto. Non faccio altro. Corro a riaprire l’uscio adagio adagio, senza il minimo cricchio, e mi rimetto in trono, sul seggiolone, pronto a ricevere un nuovo cliente, con l’austera dignità di prima, carico come un cannone di tutta la mia sapienza formidabile.

Ma, ecco, la bestia, da quindici giorni, rimane come basita a mirarmi, con quegli occhi appannati, sbarrati dal terrore. Vorrei farle intendere - ripeto - che non è nulla; che stia tranquilla, che non mi guardi così. Comprende la bestia, la terribilità dell’atto che compio.

Non sarebbe nulla, se per ischerzo glielo facesse uno dei miei ragazzi. Ma sa ch’io non posso scherzare; non le è possibile ammettere che io scherzi, per un momento solo; e sèguita maledettamente a guardarmi, atterrita.


Al via la rubrica Caratteri e impronte: al centro la letteratura e gli animali

 Come vi ho già anticipato con un post su Instagram, il mio secondo libro vedrà tra i protagonisti la figura di un cane appartenuto a un importante condottiero dell'antichità (qui un altro indizio), esempio di un legame di amore e devozione. Ho deciso così, in attesa dell'uscita del volume, senza la pretesa di essere esaustiva, di ricordare in una rubrica che sarà pubblicata ogni settimana, alcuni degli animali più famosi della letteratura, le loro caratteristiche e simbologie, il loro rappresentare difetti e pregi dell'uomo e soprattutto il rapporto di affetto e fedeltà che si è creato con le persone. 

Ecco i post finora pubblicati:

Luigi Pirandello, La carriola;

Herman Melville, Moby Dick;

Ariosto, Pulci e Boiardo, cavalli e cavalieri 

Miguel de Cervantes, Don Chisciotte

Herman Hesse, Il lupo della steppa

Michail Bulgàkov, Cuore di cane

Luciano di Samosata, Il gallo

Luciano di Samosata, L'elogio della mosca

Lucio Apuleio, L'asino d'oro

Thomas Mann, Cane e padrone

Giovanni Pascoli, L'assiuolo

Luigi Pulci, Il Morgante

Umberto Saba, La capra

Esopo, La volpe e il corvo


Foto di Tonia Kraakman su Unsplash

mercoledì 22 marzo 2023

Lo specchio di Giano, la strega dai capelli di serpente

 ' “La vocazione delle Arath è quella di rispettare e difendere la vita e le leggi che la governano. La vita è il momento in cui il sangue scorre nelle nostre vene e scalda la nostra carne, le labbra si addolciscono per i baci o i teneri frutti della terra, le mani delle madri accarezzano il volto dei figli, il sole ci illumina e l'acqua ci rinfresca, gli uomini costruiscono e realizzano cose mirabili con la loro laboriosità e la loro passione. Dopo questo ci attende la calma di Tufulta, in cui non ci sono madri e figli e mogli e mariti ma siamo tutti uguali. Questo è stato deciso dagli dei. Né i viaggiatori del tempo né i passeggeri del mondo osino ribellarsi a questo stato!”: la voce della madre, le parole che le ripeteva da piccola, tornarono a risuonare nella mente di Picatrix nel momento in cui la mente le venne a mancare. Dopo qualche secondo i suoi occhi e il suo capo tornarono a muoversi, le palpebre a riaprirsi e i suoi arti ad agitarsi. Sentiva una mano leggera e fresca sul suo viso e riuscì a rianimarsi: Thanaquil era vicino a lei e la osservava preoccupata toccandola sul volto per farla riavere. L'aspetto aggraziato della sacerdotessa la fece sentire serena mentre i moniti della madre le rimbombavano ancora nella mente. La sua vita con il Figli dell'Insidia le sembrò improvvisamente uno sbaglio, che aveva fatto per rabbia e vendetta e a cui ora voleva rimediare per tornare sulla strada che sua madre le aveva tracciato'.

E' questo il "credo" delle streghe di terra, "Arath", rappresentate nel romanzo fantasy ispirato agli Etruschi, "Lo Specchio di Giano" (disponibile su Amazon e su altre piattaforme), che viene esposto da Picatrix, il cui nome deriva dal titolo di un'antica opera dedicata all'occultismo. Tra le Arath, nel testo, spiccano la protagonista Steleth e Picatrix, allieva di Ataris e amica di Erichto, che stringerà un forte legame con Thanaquil, anche grazie alla sorprendente somiglianza con Steleth. 

Foto realizzata con Deep Dream

Accolta da bambina dal mago nel covo dei Figli dell'Insidia, seguaci di Laverna, al contrario della lamia, non si è mai rassegnata all'abbandono della sua essenza, nonostante la maledizione lanciatale dal padre, che l'aveva resa simile a una Gorgone, con i serpenti in luogo dei capelli. E questo la porterà ad abbandonare la guerra voluta dal maestro e schierarsi contro di lui. Si riappacificherà con l'amica soltanto quando per loro arriverà la morte: 

Uno stuolo di pipistrelli arrivò dal bosco e rosicchiò i rami in modo da distruggerli e liberarla. Voleva attaccare con un'altra sfera infuocata ma non si era accorta di aver perso la bacchetta. Presa dal panico, respirando ancora a fatica, con gli occhi sbarrati, vide che Picatrix stava per sferrarle un altro colpo. Agì allora solo con la forza delle mani, sollevando con la magia sassi e sabbia che erano a terra e scagliandoglieli contro. La rivale fu investita da un'ondata di materiale che la colpì in ogni parte del corpo e alla testa, tanto che due dei serpenti che aveva sul capo furono tranciati via e la strega cadde rovinosamente, ribaltandosi su sé stessa.

La lamia priva di forza dopo l'ultimo contrasto, crollò a carponi, e si trascinò, furtivamente, come fosse un gatto, vicino all'Arath che, ferita, si lamentava. Sentendola arrivare e, pur con la vista annebbiata, Picatrix, sofferente, cercò di risollevarsi e, con la bacchetta ancora in pugno, scagliò all'avversaria una sfera infuocata. Erichto la scansò e le balzò addosso, mordendola al braccio e iniettandole il suo veleno. L'avversaria, con un ultimo impeto di rabbia, capendo che ormai la sua fine era vicina e la rivale stava avendo la meglio, nonostante l'ulteriore male dovuto al morso, scagliò i suoi serpenti contro la lamia. Gli animali la morsero sul braccio e sulla spalla. Un urlo angosciante si alzò nell'aria, rimbombando in tutto il bosco. Stese a terra, esauste, stavano vicine l'una all'atra, quasi prive di sensi, aspettando che i sieri facessero effetto.

Erichto si voltò verso la sua nemica e la vide con gli occhi chiusi, mentre respirava a fatica, con i serpenti che stavano svanendo e stavano lasciando il posto a una chioma lunghissima e nera, lucida e mossa. Nel vederla morire, un grande affanno si impadronì di lei, le lacrime le salirono agli occhi e il fiato le si strinse in gola. Si ricordò della loro vita passata insieme, di come Picatrix fosse sempre stata il suo appoggio, la sua amica e confidente, l'unica persona di cui potersi fidare a Hiul, quasi una sorella. Allora la chiamò, cercando di farla riavere: “Picatrix, svegliati! Picatrix”.

Strisciò vicino a lei, fino a prenderle la mano. La sua pelle fredda fece salire anche a lei i brividi della morte. Al suo tocco, però, la strega si risvegliò e si voltò.

“Picatrix, sai che il veleno delle lamie consente alle sue vittime di vivere ancora, diventando lamie a loro volta. Basta che tu scelga di essere come me! Puoi ancora andare avanti e realizzare i tuoi sogni! E se lo farai, ricordati di me. Perdonami! Non avrei dovuto dimenticare quello che siamo state l'una per l'altra”.

“Non diventerò una lamia, Erichto. Sono stata una Arath trasformata in Gorgone dal mio stesso padre: gli uomini di me hanno avuto paura e ho vissuto nell'ombra e nell'odio fino a che non ho incontrato Thanaquil. Non voglio di nuovo essere condannata a nascondermi e ad accontentarmi di passare i miei giorni odiata e lontano da tutti – rispose l'amica con voce quasi impercettibile. -  Muoio felice di aver combattuto per il mondo che vorrei lasciare agli altri. Ma lo sono di più per averti ritrovato, anche se solo alla fine”.

Le lacrime scesero sul volto di Erichto, appannandole la vista. La lamia si stese vicino all'amica.

“Andremo insieme a Tufulta!”.

Si guardarono ancora una volta e si sorrisero, mentre il veleno bloccava a entrambe il respiro e impediva loro i movimenti. Si strinsero la mano e chiusero gli occhi, aspettando la fine.


martedì 21 marzo 2023

Milano, trovato un estratto inedito di Tolomeo

 Un estratto inedito di un'opera di Tolomeo è stato trovato all’interno di un'antica copia dell’enciclopedia "Etimologie", scritta dal vescovo Isidoro di Siviglia e custodita dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano. A fare la scoperta un team di ricercatori francesi del Centre Léon Robin de recherches sur la pensée antique.

Nel manoscritto latino era stato cancellato il testo originale in greco, che riporta un estratto inedito di un trattato astronomico di Tolomeo, vissuto nell'Egitto romano del II secolo, noto soprattutto per il suo geocentrismo. Si tratta di sei pagine dedicate al Meteoroscopio, strumento utilizzato per scopi astronomici. Quello ritrovato potrebbe essere il primo testo conosciuto interamente dedicato alla descrizione di questo strumento scientifico e al suo utilizzo. 


Il manoscritto era stato cancellato per essere riutilizzato e non per motivi di censura intorno all'VIII secolo nello scriptorium dell'abbazia di San Colombano a Bobbio. 

Il testo è stato svelato grazie all'impiego delle innovazioni nel campo dell'imaging multispettrale.

Fonte: Il Giorno 


lunedì 20 marzo 2023

Egitto, scoperto un antico papiro con incantesimi del Libro dei Morti

 Ancora un ritrovamento eccezionale a Saqquara in Egitto, dopo, tra le altre cose, il laboratorio di imbalsamazione e la mummia di circa 4.300 anni fa. Questa volta si tratta un papiro di 16 metri, con incantesimi del Libro dei Morti. 

Questo documento è il primo testo papiraceo completo ritrovato in oltre 100 anni, scoperto in uno dei 250 sarcofagi ritrovati nel sito. Il reperto è stato completamente tradotto e contiene parti di uno dei testi sacri più importanti dell’epoca dei Faraoni, con formule di rito e incantesimi per guidare il passaggio dei defunti verso la vita ultraterrena. 

Da una prima analisi, il papiro risalirebbe al 50 a.C., e data la lunghezza e complessità del testo, potrebbe fornire nuove conoscenze sulle credenze dell’Antico Egitto circa l’aldilà. Il papiro dopo un restauro sarà esposto al Grand Egyptian Museum del Cairo.


Foto di Nathan Dumlao su Unsplash

Perché vi parlo di questo? Lo scoprirete quando vi svelerò qualcosa di più sul mio secondo libro...

Fonte: Artribune 


domenica 19 marzo 2023

20 marzo del 43 a.C., nasce Ovidio

 Uno dei poeti più significativi e affascinanti della cultura latina è Publio Ovidio Nasone, di cui oggi ricorre l'anniversario della nascita. Nato il 20 marzo del 43 a.C., è stato autore di moltissime opere, molte delle quali andate perdute, in cui, solitamente, il corpus è diviso in tre sezioni: le opere elegiache a tema amoroso (Amores, Heroides e il ciclo delle elegie erotico-didascaliche); Metamorfosi e Fasti; elegie dell’invettiva e del rimpianto, ovvero Tristia, Epistulae ex Ponto e Ibis

Ovidio è stato famosissimo nel suo tempo e anche dopo la sua morte, tanto che ne riprendono i temi e imitano il suo stile moltissimi altri autori. L’opera Le Metamorfosi, in particolare, ha ispirato anche moltissimi scultori e pittori italiani ed europei, basti pensare alla celebre scultura di Bernini Apollo e Daphne. 

Ovidio chiude il ciclo della grande elegia romana e con la sua scrittura morbida ed elegante, dalla tecnica perfetta, ha cantato gli impulsi e le galanterie dell’epoca. 

Foto di Mateus Campos Felipe su Unsplash

Ecco il celebre passo delle Metamorfosi dove si parla di Amore e Daphne, di cui abbiamo accennato sopra.

Il primo amore di Febo fu Dafne, figlia di Peneo,

e non fu dovuto al caso, ma all’ira implacabile di Cupido.

Ancora insuperbito per aver vinto il serpente, il dio di Delo,

vedendolo che piegava l’arco per tendere la corda:

«Che vuoi fare, fanciullo arrogante, con armi così impegnative?»

gli disse. «Questo è peso che s’addice alle mie spalle,

a me che so assestare colpi infallibili alle fiere e ai nemici,

a me che con un nugolo di frecce ho appena abbattuto Pitone,

infossato col suo ventre gonfio e pestifero per tante miglia.

Tu accontèntati di fomentare con la tua fiaccola,

non so, qualche amore e non arrogarti le mie lodi».

E il figlio di Venere: «Il tuo arco, Febo, tutto trafiggerà,

ma il mio trafigge te, e quanto tutti i viventi a un dio

sono inferiori, tanto minore è la tua gloria alla mia».

Disse, e come un lampo solcò l’aria ad ali battenti,

fermandosi nell’ombra sulla cima del Parnaso,

e dalla faretra estrasse due frecce

d’opposto potere: l’una scaccia, l’altra suscita amore.

La seconda è dorata e la sua punta aguzza sfolgora,

la prima è spuntata e il suo stelo ha l’anima di piombo.

Con questa il dio trafisse la ninfa penea, con l’altra

colpì Apollo trapassandogli le ossa sino al midollo.

Subito lui s’innamora, mentre lei nemmeno il nome d’amore

vuol sentire e, come la vergine Diana, gode nella penombra

dei boschi per le spoglie della selvaggina catturata:

solo una benda raccoglie i suoi capelli scomposti.

Molti la chiedono, ma lei respinge i pretendenti

e, decisa a non subire un marito, vaga nel folto dei boschi

indifferente a cosa siano nozze, amore e amplessi.

Il padre le ripete: «Figliola, mi devi un genero»;

le ripete: «Bambina mia, mi devi dei nipoti»;

ma lei, odiando come una colpa la fiaccola nuziale,

il bel volto soffuso da un rossore di vergogna,

con tenerezza si aggrappa al collo del padre:

«Concedimi, genitore carissimo, ch’io goda», dice,

«di verginità perpetua: a Diana suo padre l’ha concesso».

E in verità lui acconsentirebbe; ma la tua bellezza vieta

che tu rimanga come vorresti, al voto s’oppone il tuo aspetto.

E Febo l’ama; ha visto Dafne e vuole unirsi a lei,

e in ciò che vuole spera, ma i suoi presagi l’ingannano.

Come, mietute le spighe, bruciano in un soffio le stoppie,

come s’incendiano le siepi se per ventura un viandante

accosta troppo una torcia o la getta quando si fa luce,

così il dio prende fuoco, così in tutto il petto

divampa, e con la speranza nutre un impossibile amore.

Contempla i capelli che le scendono scomposti sul collo,

pensa: ‘Se poi li pettinasse?’; guarda gli occhi che sfavillano

come stelle; guarda le labbra e mai si stanca

di guardarle; decanta le dita, le mani,

le braccia e la loro pelle in gran parte nuda;

e ciò che è nascosto, l’immagina migliore. Ma lei fugge

più rapida d’un alito di vento e non s’arresta al suo richiamo:

«Ninfa penea, férmati, ti prego: non t’insegue un nemico;

férmati! Così davanti al lupo l’agnella, al leone la cerva,

all’aquila le colombe fuggono in un turbinio d’ali,

così tutte davanti al nemico; ma io t’inseguo per amore!

Ahimè, che tu non cada distesa, che i rovi non ti graffino

le gambe indifese, ch’io non sia causa del tuo male!

Impervi sono i luoghi dove voli: corri più piano, ti prego,

rallenta la tua fuga e anch’io t’inseguirò più piano.

Ma sappi a chi piaci. Non sono un montanaro,

non sono un pastore, io; non faccio la guardia a mandrie e greggi

come uno zotico. Non sai, impudente, non sai

chi fuggi, e per questo fuggi. Io regno sulla terra di Delfi,

di Claro e Tènedo, sulla regale Pàtara.

Giove è mio padre. Io sono colui che rivela futuro, passato

e presente, colui che accorda il canto al suono della cetra.

Infallibile è la mia freccia, ma più infallibile della mia

è stata quella che m’ha ferito il cuore indifeso.

La medicina l’ho inventata io, e in tutto il mondo guaritore

mi chiamano, perché in mano mia è il potere delle erbe.

Ma, ahimè, non c’è erba che guarisca l’amore,

e l’arte che giova a tutti non giova al suo signore!».

Di più avrebbe detto, ma lei continuò a fuggire

impaurita, lasciandolo a metà del discorso.

E sempre bella era: il vento le scopriva il corpo,

spirandole contro gonfiava intorno la sua veste

e con la sua brezza sottile le scompigliava i capelli

rendendola in fuga più leggiadra. Ma il giovane divino

non ha più pazienza di perdersi in lusinghe e, come amore

lo sprona, l’incalza inseguendola di passo in passo.

Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto

una lepre, e scattano l’uno per ghermire, l’altra per salvarsi;

questo, sul punto d’afferrarla e ormai convinto

d’averla presa, che la stringe col muso proteso,

quella che, nell’incertezza d’essere presa, sfugge ai morsi

evitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla,

un fulmine lui per la voglia, lei per il timore.

Ma lui che l’insegue, con le ali d’amore in aiuto,

corre di più, non dà tregua e incombe alle spalle

della fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento.

Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa

allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e:

«Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere,

dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui».

Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra,

il petto morbido si fascia di fibre sottili,

i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami;

i piedi, così veloci un tempo, s’inchiodano in pigre radici,

il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva.

Anche così Febo l’ama e, poggiata la mano sul tronco,

sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia

e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo,

ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae.

E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia,

sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno,

o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra;

e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante

intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei.

Fedelissimo custode della porta d’Augusto,

starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo.

E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma intonsa,

anche tu porterai il vanto perpetuo delle fronde!».

Qui Febo tacque; e l’alloro annuì con i suoi rami

appena spuntati e agitò la cima, quasi assentisse col capo.

martedì 14 marzo 2023

Lo specchio di Giano, la lamia Erichto

"Abitava nelle tombe abbandonate ed occupava i sepolcri dopo averne cacciato le ombre, grazie ai favori accordatile dalle divinità infernali: né gli dèi superni né il fatto di esser viva le impedivano di percepire la turba dei trapassati silenziosi, di conoscere le sedi stigie e i segreti del sotterraneo Dite": questo scrive Lucano nella Pharsalia, Libro VI, dove parla di Erichto. Secondo il testo latino, Erichto era una famosa maga della Tessaglia, anziana e malvagia, specializzata nella necromanzia. A lei si rivolgevano coloro che volevano sapere il futuro, poiché essa, in cambio di enormi somme di denaro o di particolari sacrifici, poteva far rivivere i morti, i quali conoscevano il futuro. Predisse per esempio a Sesto Pompeo l'esito della battaglia di Farsalo, facendo rivivere un soldato appena caduto. 

Il suo nome è ripreso in uno dei personaggi di "Lo specchio di Giano", il mio romanzo fantasy ispirato agli etruschi. Bella, giovane e innamorata del suo maestro, Ataris: nell'ebook Erichto è una lamia, come venivano chiamate le vampire nell'antichità. Nella prima redazione dell'ebook, Erichto doveva mantenere l'aspetto del suo modello originale, poi ho preferito modificarla, renderla una lamia, e farla apparire molto più avvenente. 

Con lei e la sua amica e compagna, Picatrix, Ataris mostra nel libro il suo lato più umano: loro sono le sue allieve salvate da un destino tragico e accolte, grazie a lui, nelle terre di Hiul, dai figli dell'Insidia, seguaci della dea Laverna. Grazie ad Ataris le due ragazze sono diventate grandi streghe e sono pronte a seguirlo e sostenerlo nella realizzazione del suo progetto. In questo la lamia è spinta dall'amore per l'uomo che le aveva evitato la morte e dato la possibilità di vivere in un ambiente dove lei si era sentita a casa. Amore che sfocerà in gelosia verso la compagna, vista a torto come una rivale. Solo alla fine i destini di Erichto e Picatrix si ricongiungeranno nell'amicizia. 


Foto di Amir Esrafili su Unsplash

Ecco la scena di "Lo specchio di Giano", disponibile su Amazon e su altre piattaforme, in cui Erichto, spinta dalla dea della discordia, attacca Picatrix durante un banchetto. 

I danzatori volteggiavano nell'aria a ritmo di una musica assordante, il vino scorreva nei calici dopo un lungo e lussuoso banchetto e l'ebbrezza faceva girare la testa e dava allegria. Erichto guardava Ataris mentre conversava con alleati venuti da lontano, Khan Digo dal deserto freddo delle estreme terre dell'Oriente, Mas Marruc dai luoghi nordici delle tigri bianche, e il moro Matar Lumak, dalla remota isola di Madaia, dove la vegetazione è rigogliosa e dove abitano specie animali mirabili. Il mago l'aveva salvata dal rogo quando era solo una ragazzina. Lei, non riuscendo ancora a controllare il suo istinto di lamia, aveva ucciso il figlio del contadino che teneva la fattoria vicina a quella dei suoi genitori, vicino a Volsinii, succhiandogli il sangue. Da poco si era resa conto di essere un vampiro e non avendo accettato quel suo stato, aveva cercato di nasconderlo, ponendosi come una normale ragazza. Ma quando il giovane provò ad abusare di lei nella pianura, vicino al fiume, prima reagì paralizzandolo con il tocco della sua mano e poi gli tolse la vita, aspirando la sua linfa vitale con il suoi denti aguzzi. La sua fama di piccola strega malefica che sarebbe stata presto bruciata si diffuse lontano fino a raggiungere Hiul e Ataris, che, diventato la guida dei Figli dell'Insidia dopo la morte di Sidonia, la volle tra i suoi allievi. Le comparve mentre era in lacrime nella cella della prigione in attesa dell'esecuzione, nella sua veste bianca che faceva risaltare i colori del suo viso e dei suoi capelli.

“Buongiorno Erichto, perché questo per te può essere un buon giorno. Io sono Ataris di Hiul. Se mi seguirai, saprai governare i tuoi poteri e ne avrai di nuovi. Imparerai a essere spietata e tutti avranno paura di te. Se mi seguirai, insieme conquisteremo il mondo e lo piegheremo al nostro volere. Se deciderai di non venire con me, la tua prossima casa sarà Tufulta”.

Di fronte a quella scelta, Erichto decise di seguire quello che sarebbe stato il suo maestro nella terra di Laverna. Sapeva che non avrebbe più rivisto i suoi genitori, i suoi fratelli e i suoi animali e che avrebbe vissuto in un regno nascosto tra ladri e assassini, stregoni dediti alla magia proibita e reietti di ogni genere.  Ma la paura della morte fu più forte della paura di un futuro che la vedeva tra le file degli stregoni di un collegio sconosciuto, insieme a un uomo che le incuteva timore e ammirazione. Un uomo scontroso e impenetrabile, severo e intransigente, ma che sapeva guardare nel cuore dei suoi accoliti ed essere giusto e comprensivo al bisogno. Un uomo che le insegnò negli anni l'arte della magia in tutte le sue sfumature e che in poco tempo prese il suo cuore di ragazzina sola e senza punti di riferimento. Un sentimento che lei diverse volte aveva provato a esprimergli ma che lui aveva sempre respinto in modo rispettoso, rispondendo che aveva amato soltanto una donna.

La lamia osservava il suo maestro mentre sorrideva agli ospiti e li intratteneva, ebbro, con lazzi spesso arguti e buffoneschi a volte sardonici o volgari. Ad un tratto, il mago prese a scherzare con i serpenti di Picatrix, che poco lontano da lui, stava conversando con un guerriero originario delle ventose isole dell'Ovest. Ataris, in quelle giornate, spesso giocava con i capelli della strega, un po' perché era molto affezionato a lei un po' perché vedeva  l'addestramento degli animali da parte di Picatrix anche come merito suo. Il mago era stato un ottimo punto di riferimento per entrambe e loro, avendo passato insieme, sotto il suo scudo, la parte principale della loro giovinezza, si consideravano quasi sorelle. Erichto sorrise quando Ataris avvicinò il dito alla bocca di una delle vipere e quando prese Picatrix per la vita facendola roteare in un ballo vorticoso. Ma quando vide il mago che le sfiorò il volto con la mano, un impeto di gelosia si impadronì di lei:

“Ti ha sempre respinto e questo è il motivo: ha sempre preferito lei a te! Era più intrigante una relazione con Picatrix, la strega che ha ucciso suo padre da bambina, la strega maledetta e inavvicinabile, con serpi velenifere sibilanti sul suo capo, piuttosto che con Erichto, la lamia bella e seducente, capace di far girare la testa a tanti giovani apprendisti di Hiul. Hai visto come gli ha accarezzato il viso? Come la guarda? Non ti meritavi tu tutto questo, che più volte gli hai espresso i tuoi sentimenti e sei sempre stata rifiutata? E cosa dire di lei? Lei sa del tuo amore! Come ha potuto tradire la tua amicizia? Non lasciare che ti prendano in giro così! Fai vedere a tutti che nessuno può deridere Erichto!”.

Ate, invisibile, era arrivata alla lamia spinta dal suo lento andamento claudicante, dopo essere riuscita a evitare gli schermi magici che proteggevano Alos. Le sussurrò queste parole, insinuando in lei acredine e rabbia nei confronti dell'amica e del maestro. Il viso di Erichto si dipinse di un insolito colore rosato, che le donava un fascino ancora maggiore, le sue sopracciglia si corrucciarono, le labbra si storsero e i pugni si strinsero, spingendo verso il basso. Si diresse dove si trovavano i due, intenti a ridere dei volteggi che avevano fatto, ed estrasse la sua bacchetta di legno di mirto dorato. La puntò verso Picatrix, urlando: “Che il fuoco ti bruci e lasci di te solo cenere!”.

Una piccola sfera lucente si scagliò dalla punta della bacchetta verso la Arath, che vedendo l'amica nell'atto di lanciarle una magia, fece in tempo a scansarsi ed evitare il fuoco, che si appiccò su una panca che stava dietro di lei. Non essendo riuscita nel suo intento, Erichto riprovò ancora ma Picatrix riuscì a scansarsi nuovamente.

Ataris, vedendo l'allieva infuriata, con un solo movimento delle mani, tolse la bacchetta alla maga, prendendola egli stesso. Lei, sapendo di non poter competere in nessun modo con lui, si scagliò contro Picatrix provando a morderla. Questa si divincolò e fuggì. Il suo sguardo incredulo e spaventato la colpì tanto che la sua ira si smorzò e rimase immobile in mezzo alla sala del castello in cui tutti la stavano guardando. Quando i suoi occhi incrociarono quelli del maestro, si rese conto di non riuscire a sostenere il suo sguardo, pieno di risentimento, e scappò anch'essa, scomparendo.


mercoledì 8 marzo 2023

Lo specchio di Giano. Thanaquil e le Veggenti di Farthan

 Torno a parlarvi di "Lo specchio di Giano", il mio romanzo fantasy ispirato agli Etruschi, presentandovi uno dei personaggi principali, la sacerdotessa Thanaquil, amica di Steleth

Si tratta di una donna bellissima, forte, guerriera, caparbia ma che mostrerà il suo lato fragile e si lascerà vincere dall'amore quando incontrerà Turno, mettendo tutte le sue certezze in discussione. Ma poi prevarrà l'amore per la sua gente, con cui è cresciuta e che ha sempre protetto. Thanaquil è la guida delle Veggenti di Farthan, ordine sacro alla dea dell'amore e della guerra, per cui le sacerdotesse sono sia abili guerriere sia prostitute sacre.

Il nome è ripreso da una delle figure femminili etrusche secondo me più affascinanti: Thanaquil era infatti la moglie di Lauchume Tarkun, un lucumone etrusco che sarà chiamato a Roma Tarquinio Prisco.

Si narra che un giorno, lei e il marito passeggiassero nei pressi di Tarquinia, quando una maestosa aquila si posò sul capo dell'uomo portandogli via il copricapo. Dopo un rapido e ampio volo nel cielo, l'uccello ripose il copricapo sulla testa di Tarquinio.

La donna, esperta di prodigi, spiegò allo sposo che l’aquila, regina dei cieli, uccello sacro di Tina, re di tutti gli dèi, con quel gesto aveva predetto che egli sarebbe stato destinato alla gloria di un grande regno.

Tarquinio e Thanaquil esporteranno a Roma la cultura etrusca. Lei era na sorta di sibilla in grado di leggere il senso più profondo delle cose e cogliere i messaggi degli dei.


Foto di Matthias Cooper su Unsplash

Qui il passo dell'ebook  disponibile su Amazon e su altre piattaforme in cui si parla dell'amicizia tra Steleth e Thanaquil:

Le due donne erano amiche da tanto tempo. Erano cresciute insieme nella scuola del tempio di Turan, dove le Veggenti istruivano le bambine ai primi rudimenti delle diverse discipline, dalla lettura alla matematica, dalla geometria allo studio della natura, dalla tessitura alla medicina, dalla pesca e alla caccia a piccoli insegnamenti di arti magiche.

Thanaquil proseguì il suo percorso di vita nel tempio, tra ars amatoria e uso delle armi. Lei non aveva potuto scegliere la sua strada: essendo figlia di una Veggente di Farthan era stata predestinata fin dalla nascita a diventare una sacerdotessa della Dea dell'Amore e della Guerra, ricoprendo i ruoli di prostituta sacra e di  guerriera. La sua bravura l'aveva portata a diventare la guida dell'ordine, che era chiamato a proteggere i misteri divini, leggere le indicazioni che Maris impartiva tramite i fulmini, a difendere il regno e a celebrare la fertilità e la vitalità della natura, prestando il proprio corpo agli uomini che si recavano al tempio a farne richiesta. I figli che nascevano dai loro rapporti venivano destinati all'ordine se femmine, a diventare soldati o Ministri del Destino se maschi.


lunedì 6 marzo 2023

8 marzo: le acconciature delle donne etrusche protagoniste a Roma

 Il Museo ETRU di Villa Giulia a Roma festeggia l'8 marzo con un taglio singolare e curioso per gli appassionati degli Etruschi e delle culture antiche: Nella giornata della Festa della Donna, alle 11 si terrà "Questione di stile. Acconciature antiche al Museo ETRU", per svelare un aspetto poco conosciuto delle abitudini e delle tendenze in fatto di moda, in voga al tempo degli Etruschi. 

L'evento consiste in una visita guidata tematica a più voci, introdotta dal direttore Valentino Nizzo e condotta dall'archeologa Romina Laurito e dall'hair stylist Paolo Fasulo. Un itinerario attraverso le opere che, con le loro acconciature, hanno molto da raccontare del mondo antico e svelano tutta la loro modernità in fatto di stile.

Al termine della visita, l'emiciclo si animerà di una performance live di acconciature antiche a cura dell'hair stylist Paolo Fasulo e della makeup artist Rossella Zeppetella.

Visita per un massimo di 30 persone.

Prenotazione richiesta all'indirizzo mn-etru.comunicazione@cultura.gov.it


Purtroppo vivendo vicino a Milano non riuscirò a partecipare. Come sapete ho un grande interesse verso gli Etruschi e l'antichità tanto da essermi ispirata a loro per il mio romanzo fantasy Lo specchio di Giano. L'ebook è disponibile su Amazon e su altre piattaforme.


giovedì 2 marzo 2023

Archeologia: scoperto un nuovo corridoio nella piramide di Cheope. Potrebbe portare alla tomba del faraone

Un nuovo corridoio, un tunnel di 9 metri di lunghezza e 2 di larghezza, è stato ritrovato all’interno della piramide di Cheope in Egitto. Questa scoperta secondo l'archeologo Zahi Hawass potrebbe essere la più importante del secolo: questo passaggio, situato dietro l'entrata principale, potrebbe portare, per Hawass, alla tomba del faraone. 

Il sarcofago del faraone Cheope non è infatti stato ancora trovato e gli archeologi ritengono che potrebbe trovarsi in una stanza sotterranea ancora non scoperta. 

Lo scavo fa parte del progetto di ricerca Scanpyramid in corso dal 2015 e sul sito è disponibile un video che illustra il lavoro dei ricercatori con immagini tridimensionali e illustrazioni che permettono di capire la struttura interna della piramide.

Perché vi parlo di questo? Lo scoprirete quando vi svelerò qualcosa di più sul mio secondo libro...

Foto di Dmitrii Zhodzishskii su Unsplash

Fonte: SkyTg24 


Lo specchio di Giano, il guerriero Turno e... Solimano

Turno: il nome sarà certamente noto ai cultori della letteratura latina. Si tratta, infatti, di un personaggio dell'Eneide, più precisamente dell'antagonista di Enea. Turno è il re dei Rutuli, a cui era stata promessa in sposa Lavinia, figlia di Latino, che sposerà poi l'eroe troiano. 

Giovane e bellissimo, è anche semidio, essendo figlio di Dauno e della ninfa Venilia, andando a ricordare sia un questo particolare sia nel carattere l'Achille dell'Iliade. Il nome mitologico di Turno viene fatto derivare dal greco antico Touros, che ha significato di animo impetuoso; secondo talune fonti potrebbe invece intendersi come Turrenos. È un sovrano molto amato dai suoi guerrieri e anche dagli alleati. Nella guerra contro i Troiano, il guerriero si batte con passione e ardore, cedendo occasionalmente alla ferocia.

Devo dire che leggendo il poema virgiliano ho sempre avuto una grande simpatia per questo personaggio, parteggiando per lui, nonostante l'avvicinarsi, verso per verso, di un finale già conosciuto.

Simpatia che ho avuto anche per un altro personaggio dalla tragica fine e che ricalca in un certo qual modo il guerriero italico: Solimano della Gerusalemme Liberata, uno dei personaggi più affascinanti e moderni di tutto il poema. Si tratta del sultano di Nicea, che, dopo aver perso la sua terra, combatte valorosamente contro l'esercito cristiano, in molti e vittoriosi scontri, finché cade per mano di Rinaldo.

Il condottiero incarna il male in una grandezza straordinaria. Indossa un elmo spaventoso dove è raffigurato un serpente che nella battaglia sembra prendere vita.

Ecco che il Turno del mio romanzo fantasy Lo Specchio di Giano guarda al sovrano di Nicea tanto che inizialmente doveva riprendere il suo nome. Ho preferito poi dare a questo personaggio un nome di ascendenza latina e quale appellativo meglio di Turno veniva incontro a questo carattere? Il Turno dell'ebook è sì crudele ma ha un barlume di umanità che lo porta a salvare Vafrino e lo trascina nella storia d'amore con Thanaquil. 

Il guerriero, nel libro, è arrivato ormai all'età matura ma non rinuncia al suo desiderio di riavere la sua terra. E' amato dai suoi soldati e dal suo servo Vafrino. Gli incontri e le vicissitudini che dovrà affrontare durante il conflitto lo porteranno, però, a un cambio di prospettiva e a un mutamento delle sue aspirazioni. 

Nota (spoiler) sul finale: il Turno virgiliano e il Solimano tassiano, con cui sono entrata in grande empatia durante la lettura delle rispettive opere facendomi disperare per la loro sorte, hanno avuto una fine tragica che non ho voluto riproporre in Lo specchio di Giano.

Foto di Octavian Dan su Unsplash

Ecco un brano dell'ebook disponibile su Amazon e su altre piattaforme che parla di Turno:

Turno era determinato a vincere la sua guerra e a radere al suolo i templi di Vestres e la città, contribuendo ad annullare il potere degli dei reggenti. Rivoleva la sua terra e voleva viverla, una volta aiutato Ataris a realizzare il suo piano. Stava per affrontare la battaglia della sua vita, l'ultima a cui non ne sarebbero seguite altre, in qualsiasi modo fosse finita. La sua grinta e la sua ferocia, compagne di tante lotte, stavano salendo, la sua fronte si stava aggrottando, bagnata da un sudore freddo, dalle narici usciva aria soffiata fuori come se fosse fuoco.

Stava arrivando anche la resa dei conti nei confronti di Thanaquil. Sapeva che sarebbe stata là a difendere il suo amato Paese e forse se la sarebbe trovata davanti, splendente, vestita dalla sua armatura da guerriera, che voleva affrontarlo. Non avrebbe avuto pietà di chi aveva tradito la sua fiducia ed era fuggita senza che lui sapesse nulla. Se fosse rimasta con lui, Turno avrebbe potuto difenderla, pensava. Ma lei aveva scelto il passato e non il suo amore. E quello che sembrava il suo fedele servitore, un ragazzo che lo adorava ed eseguiva ogni suo ordine scrupolosamente, era andato via con lei.

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