giovedì 13 aprile 2023

Caratteri e impronte: Don Chisciotte e Ronzinante

 Dopo i bellissimi versi di Cavalli e Cavalieri, la rubrica dedicata a letteratura e animali, Caratteri e impronte - nata in attesa del mio secondo libro - continua a trattare la cavalleria, ma un altro punto di vista.  

Tutti conoscono almeno qualche episodio delle vicende narrate da Miguel de Cervantes di Alonso Quijana, le cui intenzioni erano di cercare di aiutare i poveri le persone in difficoltà e ottenere l'amore dell'amata. Il bizzarro personaggio vive in un mondo fantastico tutto suo. Appassionato di lettura cavalleresca, decide di farsi cavaliere errante, rivivendo un'epoca ormai tramontata, e di andarsene in giro per il mondo, facendo piazza pulita di tutte le ingiustizie, le prepotenze e i soprusi. 

Alonso, nobil uomo di campagna, decide così di darsi un nome degno di un cavaliere e dopo aver meditato per otto giorni, sceglie Don Chisciotte della Mancia. Ma non poteva essere un cavaliere senza un cavallo: ad accompagnarlo nei suoi viaggi e nelle sue imprese, oltre allo scudiero Sancho Panza, il suo "destriero". Per dargli un nome aveva riflettuto per altri quattro giorni, puntando su un appellativo che gli sembrava “maestoso” e “sonoro”, Ronzinante. Si trattava di un cavallo magrissimo che Don Chisciotte, stravolgendo i fatti, considerava alla pari dei più grandi cavalli della letteratura e della storia, come la Babieca di El Cid o Bucefalo di Alessandro Magno. Invece Ronzinante è poco più di un fantasma e Don Chisciotte è la continuazione del fantasma del cavallo: alto, magro, e sempre vestito con l’armatura fuori del tempo che aveva rispolverato e riassestato tra le cose lasciategli dai suoi antenati.


Opera di Di Honoré Daumier

Ecco un brano dell'inizio dell'opera

In un paese della Mancia, di cui non voglio fare il nome, viveva or non è molto uno di quei cavalieri che tengono la lancia nella rastrelliera, un vecchio scudo, un ossuto ronzino e il levriero da caccia. Tre quarti della sua rendita se ne andavano in un piatto più di vacca che di castrato, carne fredda per cena quasi ogni sera, uova e prosciutto il sabato, lenticchie il venerdì e qualche piccioncino di rinforzo alla domenica. A quello che restava davano fondo il tabarro di pettinato e i calzoni di velluto per i dì di festa, con soprascarpe dello stesso velluto, mentre negli altri giorni della settimana provvedeva al suo decoro con lana grezza della migliore. Aveva in casa una governante che passava i quarant'anni e una nipote che non arrivava ai venti, più un garzone per lavorare i campi e far la spesa, che gli sellava il ronzino e maneggiava il potatoio. L'età del nostro cavaliere sfiorava i cinquant'anni; era di corporatura vigorosa, secco, col viso asciutto, amante d'alzarsi presto al mattino e appassionato alla caccia.

Bisogna dunque sapere che il detto gentiluomo, nei momenti che stava senza far nulla (che erano i più dell'anno), si dedicava a leggere i libri di cavalleria con tanta passione, con tanto gusto, che arrivò quasi a trascurare l'esercizio della caccia, nonché l'amministrazione della sua proprietà; e arrivò a tanto quella sua folle mania che vendette diverse staia di terra da semina per comprare romanzi cavallereschi da leggere, e in tal modo se ne portò in casa quanti più riuscì a procurarsene.

Insomma, tanto s'immerse nelle sue letture, che passava le nottate a leggere da un crepuscolo all'altro, e le giornate dalla prima all'ultima luce; e così, dal poco dormire e il molto leggere gli s'inaridì il cervello in maniera che perdette il giudizio. La fantasia gli si empì di tutto quello che leggeva nei libri, sia d'incantamenti che di contese, battaglie, sfide, ferite, dichiarazioni, amori, tempeste e altre impossibili assurdità; e gli si ficcò in testa a tal punto che tutta quella macchina d'immaginarie invenzioni che leggeva, fossero verità, che per lui non c'era al mondo altra storia più certa.

Così, con il cervello ormai frastornato, finì col venirgli la più stravagante idea che abbia avuto mai pazzo al mondo, e cioè che per accrescere il proprio nome, e servire la patria, gli parve conveniente e necessario farsi cavaliere errante, e andarsene per il mondo con le sue armi e cavallo, a cercare avventure e a cimentarsi in tutto ciò che aveva letto che i cavalieri erranti si cimentavano, disfacendo ogni specie di torti e esponendosi a situazioni e pericoli da cui, superatili, potesse acquistare onore e fama eterna. E la prima cosa che fece fu ripulire certe armi che erano state dei suoi bisavoli che, prese dalla ruggine e coperte di muffa, stavano da lunghi secoli accantonate e dimenticate in un angolo. Le ripulì e le rassettò come meglio poté.

Andò poi a guardare il suo ronzino, e benché avesse più crepature agli zoccoli e più acciacchi del cavallo del Gonnella, che tantum pellis et ossa fuit, gli parve che non gli si potesse comparare neanche il Bucefalo di Alessandro o il Babieca del Cid. Passò quattro giorni ad almanaccare che nome dovesse dargli; perché (come egli diceva a se stesso) non era giusto che il cavallo d'un cavaliere così illustre, ed esso stesso così dotato di intrinseco valore, non avesse un nome famoso; perciò, ne cercava uno che lasciasse intendere ciò che era stato prima di appartenere a cavaliere errante, e quello che era adesso; ed era logico, del resto, che mutando di condizione il padrone, mutasse il nome anche lui, e ne acquistasse uno famoso e sonante, più consono al nuovo ordine e al nuovo esercizio che ormai professava; così, dopo infiniti nomi che formò, cancellò e tolse, aggiunse, disfece e tornò a rifare nella sua mente e nella sua immaginazione, finì col chiamarlo Ronzinante, nome, a parer suo, alto, sonoro e significativo di ciò che era stato ante quando era ronzino, e quello che era ora, primo ed innante a ogni ronzino al mondo.

Avendo messo il nome, con tanta soddisfazione, al suo cavallo, volle ora trovarsene uno per sé, e in questo pensiero passò altri otto giorni, finché si risolse a chiamarsi don Chisciotte.

Ma, da buon cavaliere, volle egli aggiungere al suo il nome della sua patria e chiamarsi don Chisciotte della Mancia, e così a parer suo egli veniva a dichiarare apertamente il suo lignaggio e la sua patria, e la onorava, assumendone il soprannome.

Ripulite dunque le armi, battezzato il ronzino e data a se stesso la cresima, si convinse che non gli mancava ormai nient'altro se non cercare una dama di cui innamorarsi: perché un cavaliere errante senza amore è come un albero senza né foglie né frutti o come un corpo senz'anima. Oh, come si rallegrò il nostro buon cavaliere quand'ebbe trovato colei a cui dar nome di sua dama! Ed è che, a quanto si crede, in un paesetto vicino al suo c'era una giovane contadina di aspetto avvenente, di cui un tempo egli era stato innamorato, benché, a quanto è dato di credere, essa non ne seppe mai nulla e non se ne accorse nemmeno. Si chiamava Aldonza Lorenzo: ed è a costei che gli parve bene dare il titolo di signora dei suoi pensieri; e cercandole un nome che non disdicesse molto dal suo, e che si incamminasse a esser quello di una principessa e gran dama, la chiamò Dulcinea del Toboso, perché era nativa del Toboso: nome che gli parve musicale, prezioso e significativo, come tutti gli altri che aveva imposto a se stesso e alle proprie cose.


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