giovedì 16 maggio 2024

Bianca Laura Saibante

 E' nata il 17 maggio 1723 a Rovereto la poetessa Bianca Laura Saibante, cofondatrice dell’Accademia Roveretana degli Agiati, di cui la scrittrice disegnò il simbolo. Il nome indicava come gli studiosi e le studiose si dedicassero alla letteratura comodamente e senza fretta. L'accademia esiste tuttora: è un’importante associazione culturale che ospita convegni, conferenze, progetti di ricerca, collezioni e mostre.

Dopo essersi dedicata alla poesia petrarchesca - un esempio è quello che vedete nella foto - e alla novella giocosa passò ai più seri ragionamenti in prosa, dove parla anche della condizione femminile dell'epoca. 

La poetessa era convinta che tra donne e uomini vi fosse una perfetta eguaglianza dello spirito. Attaccò anche la consuetudine di dare la precedenza alle donne: "Come le agevolezze, che s’usano verso gli infermi, così le cortesie verso le donne, non significano riverenza, ma compassione", afferma nei Discorsi e lettere, p. 51. Mise dunque in guardia le donne dall’accettare alcuni gesti degli uomini: assecondarli non faceva altro che confermare il pensiero che la donna non fosse in grado di fare da sé.

Non hommi bianco il volto e l’alma nera,

Lettor gentil, nè sotto vario aspetto
So pinger ciò che nutro o celo in petto,
Nè villana già sono o menzognera.

Ciò che fuggo il mattin spregio la sera;
D’ombre vane non pasco l’intelletto;
Son nemica mortal di rio sospetto;
Ed ho candido il cor, la fè sincera.

Il conversar mi piace, il giuoco, il riso;
Non son soverchio allegra, non ritrosa;
     E al retto e saggio oprar ho il cor sol fiso.

Or venga, chiunque vuol, il mio ritratto
A riguardar, ch'è pur mirabil cosa,
Com’esso mi assomiglia affatto affatto.

martedì 14 maggio 2024

Versi e Petali, le poesie dedicate ai fiori

I fiori con la loro bellezza, la loro eleganza e il loro profumo sono da sempre protagonisti di pagine di letteratura e poesia memorabili. Con l'inizio di marzo e la primavera alle porte, da oggi a cadenza settimanale fino all'inizio dell'estate vi proporrò una nuova rubrica, Versi e Petali, dove pubblicherò poesie del passato in cui i fiori sono protagonisti.

Foto di Annie Spratt su Unsplash

Cominciamo con un sonetto di Lorenzo il Magnifico incentrato sulle viole, un componimento che si inserisce perfettamente nel petrarchismo quattrocentesco sia per stile sia per tematica:

Belle, fresche e purpuree viole

Che quella candidissima man colse,

Qual pioggia o qual puro aer produr volse

Tanto più vaghi fior che far non suole?

Qual rugiada, qual terra, ovver qual sole

Tante vaghe bellezze in vol raccolse?

Onde il soave odor natura tolse

O il ciel ch’a tanto ben degnar ne vuole?

Care mie violette, quella mano

Che v’elesse tra l’altre, ov’eri, in sorte,

V’ha di tante eccellenze e pregio ornate;

Quella che il cor mi tolse, e di villano

Lo fe gentile, a cui siate consorte;

Quella adunque, e non altre, ringraziate.

La seconda poesia che vi propongo è Il biancospino di Umberto Saba, che con versi cristallini descrive la fioritura di questo magnifico fiore:

Di marzo per la via

della fontana

la siepe s’è svegliata

tutta bianca,

ma non è neve,

quella: è biancospino

tremulo ai primi

soffi del mattino.

Terzo appuntamento con un classico della poesia italiana, Il gelsomino notturno di Giovanni Pascoli.

Il gelsomino notturno

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.
Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento…
è l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

In questa rassegna non poteva mancare una filastrocca. Ecco una famosa poesia di Gianni Rodari, Teste Fiorite.

Se invece dei capelli sulla testa
ci spuntassero i fiori, sai che festa?
Si potrebbe capire a prima vista
chi ha il cuore buono, chi la menta trista.
Il tale ha in fronte un bel ciuffo di rose:
non può certo pensare a brutte cose.
Quest’altro, poveraccio, è d’umor nero:
gli crescono le viole del pensiero.
E quello con le ortiche spettinate?
Deve avere le idee disordinate,
e invano ogni mattina
spreca un vasetto o due di brillantina.

Mario Luzi ha dedicato una poesia al giacinto.

Vibra il cielo, il giacinto effuso cade
fra le brune pareti, l'aria spira
nelle vesti, una nube mi pervade,
quale insidiosa presenza respira?

Una rara vertigine è passata
sulla fronte, ecco, un fuoco vivo piove
fuso con l'ombra quieta e animata,
un'essenza invisibile si muove.

Ah sei tu che hai sfiorato lesta il cielo
della sera. Così se una figura
sparisce in una porta, spazia un gelo
di morte ed una lucida paura.

Sei passata di là dove la rondine
s'awenta nella via, un piede romito
rompe il velo di luce sopra il lastrico,
chiama il buio, dilegua nell'udito.

Torno con Giovanni Pascoli, che ha scritto numerose poesie dedicate ai fiori. Ecco la coloratissima Pervinca

So perchè sempre ad un pensier di cielo
misterïoso il tuo pensier s’avvinca,
sì come stelo tu confondi a stelo,
vinca pervinca:

io ti coglieva sotto i vecchi tronchi
nella foresta d’un convento oscura,
o presso l’arche, tra vilucchi e bronchi,
lungo la mura.

Solo tra l’arche errava un cappuccino;
pareva spettro da quell’arche uscito,
bianco la barba e gli occhi d’un turchino
vuoto, infinito;

come il tuo fiore: e io credea vedere
occhi di cielo, dallo sguardo fiso,
d’anacoreti, allo svoltar, tra nere
ombre, improvviso;

e il bosco alzava, al palpito del vento,
una confusa e morta salmodia,
mentre squillava, grave, dal convento
l’avemaria.

Una delle poesie più famose della letteratura italiana. Non poteva mancare in questa rassegna La ginestra di Giacomo Leopardi, di cui riporto la prima parte.

Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’ mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
E’ il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.

Un'altra filastrocca, questa volta di Trilussa, con la margherita:

Una bella margherita
Che fioriva in mezzo a un prato
Fu acciaccata da un serpente
Da un serpente avvelenato.
“Si sapessi – disse er fiore –
Tutto er male che fai!
E er dolore che me dai
Quanta gente lo risente!
Certamente nu’ lo sai!
Ogni donna innammorata
Che vò legge’ la furtuna,
Ner vedemme m’ariccoje
Pe’ decide da le foje,
Che me strappa una a una
S’è infelice o affurtunata:
E vò vedè se l’amore
Se conserva sempre eguale
E me chiede se l’amante
Je vò bene o je vò male…
Io, pe’ falla più felice,
Pe’ levalla da le pene,
Fò der tutto che la foja
Che je dice. Me vò bene
Sai quell’urtima che sfoja.
Dove c’è la margherita
C’è er bòn core e la speranza,
C’è la fede, c’è l’amore
Ch’è er più bello de la vita…”
Ogni fiore a ‘ste parole
Rispettoso la guardò,
E perfino er girasole
Piantò er sole e s’inchinò.

Con l'inizio di maggio, mese delle rose, vi propongo una serie di poesie su questo bellissimo fiore. Partiamo con un sonetto di Francesco Petrarca, in cui un vecchio saggio regala a Laura e al poeta due rose, definendoli una coppia superba. Nell'animo del poeta, rimane un nonsochè di inquietudine e ansia...

Due rose fresche, et colte in paradiso
l’altrier, nascendo il dí primo di maggio,
bel dono, et d’un amante antiquo et saggio,
tra duo minori egualmente diviso

con sí dolce parlar et con un riso
da far innamorare un huom selvaggio,
di sfavillante et amoroso raggio
et l’un et l’altro fe’ cangiare il viso.

- Non vede un simil par d’amanti il sole -
dicea, ridendo et sospirando inseme;
et stringendo ambedue, volgeasi a torno.

Cosí partia le rose et le parole,
onde ’l cor lasso anchor s’allegra et teme:
o felice eloquentia, o lieto giorno!

Ecco i versi seicenteschi e classici di Riso di bella donna di Gabriello Chiabrera, in cui i fiori vengono paragonati al sorriso dell'amata.

Belle rose porporine,
Che tra spine
Sull’Aurora non aprite;
Ma ministre degli Amori
Bei tesori
Di bei denti custodite:
Dite, rose prezïose,
Amorose;
Dite, ond’è, che s’io m’affiso
Nel bel guardo vivo ardente,
Voi repente
Disciogliete un bel sorriso?
È ciò forse per aita
Di mia vita,
Che non regge alle vostr’ire?
O pur è, perchè voi siete
Tutte liete,
Me mirando in sul morire?
Belle rose, o feritate,
O pietate
Del sì far la cagion sia,
Io vo’ dire in nuovi modi
Vostre lodi,
Ma ridete tuttavia.
Se bel rio, se bell’auretta
Tra l’erbetta
Sul mattin mormorando erra;
Se di fiori un praticello
Si fa bello,
Noi diciam: ride la terra.
Quando avvien che un zefiretto
Per diletto
Bagni il piè nell’onde chiare,
Sicchè l’acqua in sull’arena
Scherzi appena,
Noi diciam che ride il mare.
Se giammai tra fior vermigli,
Se tra gigli
Veste l’Alba un aureo velo;
E su rote di zaffiro
Move in giro,
Noi diciam che ride il cielo.
Ben è ver quando è giocondo
Ride il mondo,
Ride il ciel quando è giojoso,
Ben è ver; ma non san poi
Come voi
Fare un riso grazïoso.

Torniamo all'Umanesimo, con questa famosa poesia di Angelo Poliziano. Nella ballata, una fanciulla raccoglie in un giardino diversi fiori, tra cui le rose, simbolo d'amore. Tra le tematiche della poesia, quello di cogliere l'attimo, uno dei principali del secondo umanesimo.

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino.

Eran d'intorno violette e gigli
fra l'erba verde, e vaghi fior novelli
azzurri gialli candidi e vermigli:
ond'io porsi la mano a côr di quelli
per adornar e' mie' biondi capelli
e cinger di grillanda el vago crino.

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino.

Ma poi ch'i' ebbi pien di fiori un lembo,
vidi le rose e non pur d'un colore:
io colsi allor per empir tutto el grembo,
perch'era sì soave il loro odore
che tutto mi senti' destar el core
di dolce voglia e d'un piacer divino.

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino.

I' posi mente: quelle rose allora
mai non vi potre' dir quant'eran belle;
quale scoppiava della boccia ancora;
qual'eron un po' passe e qual novelle.
Amor mi disse allor: «Va', co' di quelle
che più vedi fiorite in sullo spino».

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino.

Quando la rosa ogni suo' foglia spande,
quando è più bella, quando è più gradita,
allora è buona a metter in ghirlande,
prima che sua bellezza sia fuggita:
sicché fanciulle, mentre è più fiorita,
cogliàn la bella rosa del giardino.

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino.



sabato 11 maggio 2024

Poesie per la Festa della Mamma

 Si avvicina la festa della mamma 2023, che quest'anno si festeggia domenica 14 maggio. Un modo originale per fare gli auguri a una delle persone più importanti della propria vita è dedicarle una poesia. Eccone una lista per grandi e piccini!


"Per la mamma" di Gianni Rodari

 Filastrocca delle parole:

si faccia avanti chi ne vuole.

Di parole ho la testa piena,

come dentro ‘la luna’ e ‘la balena’.

Ma le più belle che ho nel cuore,

le sento battere: ‘mamma’, ‘amore’.

"La parola più bella" di Marino Moretti

 Mamma. Nessuna parola è più bella.

La prima che si impara,

la prima che si capisce e che s’ama.

La prima di una lunga serie di parole

con cui s’è risposto alle infinite,

alle amorose, timorose domande

della maternità.

E anche se diventassimo vecchi,

come chiameremmo la mamma

più vecchia di noi?

Mamma.

Non c’è un altro nome.

"La madre" di Edmondo De Amicis

 Vi è un nome soave in tutte le

o lingue, venerato fra tutte le genti.

Il primo a che suona sul labbro

del bambino con lo svegliarsi

della coscienza. L’ultimo che mormora

il giovinetto in faccia alla morte;

un nome che l’uomo maturo e il vecchio

invocano ancora, con tenerezza

di fanciulli, nelle ore solenni della vita,

anche molti anni dopo che non è più

sulla terra chi lo portava; un nome

che pare abbia in sé una virtù misteriosa

di ricondurre al bene. Di consolare e

di proteggere. Un nome con cui si dice

quanto c’è di più dolce. Di più forte.

Di più sacro all’anima umana.

La madre.

"A mia madre" di Eugenio Montale

Ora che il coro delle coturnici

ti blandisce nel sonno eterno, rotta

felice schiera in fuga verso i clivi

vendemmiati del Mesco, or che la lotta

dei viventi più infuria, se tu cedi

come un’ombra la spoglia

(e non è un’ombra,

o gentile, non è ciò che tu credi)

chi ti proteggerà? La strada sgombra

non è una via, solo due mani, un volto,

quelle mani, quel volto, il gesto d’una

vita che non è un’altra ma se stessa,

solo questo ti pone nell’eliso

folto d’anime e voci in cui tu vivi;

e la domanda che tu lasci è anch’essa

un gesto tuo, all’ombra delle croci.

"La madre" di Victor Hugo

La madre è un angelo

che ci guarda che ci insegna ad amare!

Ella riscalda le nostre dita,

il nostro capo fra le sue ginocchia,

la nostra anima nel suo cuore:

ci dà il suo latte quando siamo piccini,

il suo pane quando siamo grandi

e la sua vita sempre.

mercoledì 8 maggio 2024

Lemuria o Lemuralia

 Il 9 maggio nell'antica Roma iniziavano le celebrazioni dei Lemuralia o Lemuria, che si prolungavano fino al 13 del mese. Si tratta di una festa nata per esorcizzare i  lemuri, ossia spiriti dei morti che non riuscivano a trovare pace poiché deceduti a causa di una morte violenta. Secondo la tradizione, a istituire queste celebrazioni fu il primo re di Roma, Romolo, per placare lo spirito di Remo, il fratello morto per mano sua. In questi giorno, il pater familias gettava alle sue spalle alcune fave nere per il numero simbolico di nove volte, recitando formule propiziatorie. Durante queste festività era proibito sposarsi.

Come tante altre tradizioni antiche, anche per quanto riguarda i Lemuralia qualcosa è sopravvissuto fino a noi. Nel 609 papa Bonifacio IV sostituì questa festa con il giorno di Ognissanti, che fu celebrato il 13 maggio fino al 732, anno in cui papa Gregorio III ne trasferì la celebrazione al 1 novembre. Bonifacio IV consacrò il Pantheon a Roma per la Beata Vergine e gli altri martiri. 

Il passaggio dal Paganesimo al Cristianesimo mi ha sempre affascinato soprattutto per quanto riguarda quello che degli antichi rituali e credenze è rimasto nelle epoche successive. Attualmente sono impegnata in un lavoro sul tema. Spero di aggiornarvi presto!




lunedì 6 maggio 2024

Lo specchio di Giano e gli oggetti magici: dal lituo alla trottola di Ecate

 Credo che non ci siano romanzi fantasy in cui non compaiano oggetti magici di diversi tipi e con diverse funzioni, dai libri, agli amuleti, alle spade alle pietre.

Non è da meno lo Specchio di Giano. Nell'ebook ispirato agli Etruschi ci sono diversi strumenti in grado di compiere cose prodigiose, prime tra tutti le bacchette magiche dei diversi personaggi, tra chi possiamo considerare anche il lituo del sacerdote Tarchun

Il lituo, in latino Lituus, da litāre, ossia offrire sacrifici agli dei per ottenere auspici favorevoli, era uno strumento di culto nell'antica Roma, già in uso presso gli Etruschi e i Latini, simile anche al bastone dei Faraoni. Era costituito da un bastone ricurvo in cima. Successivamente l'estremità arcuata assunse una forma a spirale, che si ritrova ancora oggi nel pastorale vescovile. Si tratta quindi, tradizionalmente, di uno degli oggetti magici per eccellenza.


Denaro con rappresentato un lituo

Compare poi uno strumento meno comune nei testi e che ho conosciuto con le ricerche che ho compiuto nella redazione del libro. Si tratta della trottola di Ecate, in greco antico ίυγξ (iugx o strophalos) arnese magico sacrale, dedicato alla dea, con cui invocare la presenza della divinità nella celebrazione di un rito. Lo iugx è citato in età classica da Ovidio (I secolo a.C.): «Ella conosce le arti magiche (...) sa bene quale sia il potere (...) del filo messo in movimento dalla trottola che gira». 

La trottola magica veniva chiamata da Marino di Neapoli (V secolo d.C.) "ineffabile" e "divina" poiché permetteva di raggiungere l'unione con la divinità. In particolare i neoplatonici richiamavano la presenza della divinità oracolare Ecate facendo girare una trottola così descritta da Michele Psello: "La trottola d'Ecate è una sfera dorata costruita attorno a uno zaffiro e fatta girare tramite una cinghia di cuoio, con sopra dei caratteri incisi su ogni faccia: mentre gira si fanno le invocazioni".

La trottola veniva lanciata dal teurgo: se ruotava verso l'interno gli dei venivano sollecitati a partecipare al rito. Facendola girare verso l'esterno la divinità era libera di andarsene. La trottola girando produceva dei suoni che sembravano essere versi di animali, o lamenti o risa dalla cui interpretazione il teurgo poteva avere visioni profetiche anche assimilandole al suono delle sfere celesti. La rotazione della trottola influenzava infatti, il moto degli astri celesti che esercitavano il loro influsso sulla Terra.

Nel libro questo oggetto viene trovato da Steleth e Thanaquil nella biblioteca del tempio. La strega lo userà per mettersi in contatto con la dea Vesta e poi per comunicare con l'amica nei momenti di lontananza. 

C'è, poi, l'aula gemmata, custodita da Tarchun, in quanto massimo sacerdote. Si tratta di una specie di piccolo flauto o fischietto, che consente di richiamare i morti in vita. Questo oggetto è al centro di uno degli episodi più sanguinari del libro. 

Altro utensile che compare più volte è lo specchio, di cui vi ho già parlato qui. Ad avere una funzione magica ci sono poi altri oggetti, come il setaccio.

Ecco il passo di Lo specchio di Giano, disponibile su Amazon e su altre piattaforme, in cui viene introdotto Tarchun e in cui viene descritto il lituo: 

Poco dopo l'arrivo dei sacerdoti uscì dal tempio con andatura sicura e spedita, testa alta e sguardo altero, Tarchun, l'Aruth, guida dei Ministri del destino e Sians, padre di tutti gli uomini. Andò a fermarsi prima della scala di accesso al tempio, rimanendo nel porticato e ben visibile da tutti. Il suo alto cappello conico in candida lana, con una grande falda, era poggiato su una chioma folta e raccolta in una treccia nera, in cui cominciavano a fare capolino alcuni fili bianchi. Un pesante mantello frangiato nei toni delle vinacce e foderato di marrone, era chiuso sotto il collo da una spilla in oro, perfettamente tonda, con un decoro a spirale in elettro, con sfumature che davano il risultato di profondità ed eleganza. Al di sotto, il capo lasciava soltanto intravedere il chitone bianco in un particolare tessuto lucente arrivato dalle regioni orientali orlato di porpora e oro che scendeva al di sotto del ginocchio. Ai piedi l'Aruth portava degli stivaletti in cuoio, alti fino alla caviglia e dalla caratteristica punta ricurva. In mano aveva il lituo, un bastone magico fatto di elettro, curvo da un'estremità e lungo quanto il suo braccio. Il suo sguardo severo andò a osservare il gruppo di persone che nel frattempo si era raccolto davanti a lui, probabilmente per verificare la presenza di tutti i convocati.

Steleth lo guardava con ammirazione anche se dall'ultima volta lo trovava invecchiato e deperito, con gli occhi azzurri un poco incavati e il fisico, già magro, ancora più smunto. Inoltre, il suo viso, dai tratti delicati e quasi privo di barba, stava cominciando a cadere e venarsi di piccole rughe. Non aveva avuto spesso a che fare con quell'uomo e personalmente aveva avuto poche occasioni di parlargli ma gli era sempre sembrato un Sians ineccepibile e depositario di grande saggezza e sapere. Altri membri della sua famiglia ricordavano con maggior affetto alcuni degli Aruth precedenti mentre Velthur non sopportava nessun religioso e metteva sempre in discussione la dottrina predicata dai diversi ordini.

mercoledì 1 maggio 2024

La festa dei serpari e il culto di Angizia

Il 1 maggio di ogni anno a Cocullo, un borgo in provincia dell’Aquila, si tiene uno degli eventi folcloristici più famosi d’Abruzzo. Si tratta della “festa dei serpari”, dedicata a San Domenico ma con origini ben più antiche, in particolare, dal culto della dea italica Angizia, secondo alcuni studiosi. 

Il culto di Angizia

Angizia, il cui nome deriva da anguis, serpente, era una divinità italica adorata principalmente da Marsi, Peligni e da altri popoli di origine osco-umbra ed era associata soprattutto al culto dei serpenti e alla fecondità. Un attributo, quello delle serpi, che richiama chiaramente alla figura di una Dea Madre, alla Terra, e più in generale alla Natura. Angizia, come molte delle antiche Dee Madri era anche una maga, capace quindi di compiere guarigioni miracolose. I Marsi le attribuivano una conoscenza superiore dell’uso delle erbe salvifiche, in particolare quelle contro i morsi di serpente. Tra i suoi vari poteri, aveva quello di uccidere i rettili col suo solo tocco. Così scrive Silio Italico (Punicae libro VIII, 495-501) “Angitia, figlia di Eeta, per prima scoprì le male erbe, così dicono, e maneggiava da padrona i veleni e traeva giù la luna dal cielo; con le grida i fiumi tratteneva e, chiamandole, spogliava i monti delle selve“. Sembra che le sacerdotesse dedite al culto di Angizia sapessero preparare antidoti contro i veleni di serpenti.

Ci sono altre tradizioni che richiamano l'antico culto di Angizia, oltre a quella di Cocullo. Tra queste, la cerimonia che si svolge a Luco dei Marsi il giorno di Pentecoste che prevede la presenza degli zampognari con sosta presso i ruderi del tempio di Angizia.

Angizia è uno dei personaggi chiave dell'ebook ispirato ai popoli antichi e agli Etruschi Lo specchio di Giano. Ecco il brano dell'incontro tra la protagonista Steleth e la dea

Da punto dove si trovava in quel momento, si intravedeva l'ingresso della Rocca della Pietra. Uno stretto sentiero ripido la portò sotto la grossa porta di ferro, con borchie dorate. Tra lei e l'entrata però c'era un salto di almeno quattro metri: la scala per entrare, molto probabilmente doveva essere calata dall'interno del castello o forse c'era qualche struttura invisibile anche in quel caso? Cercando ancora a tastoni, la strega non trovava nulla e stava per risolversi a costruire una piccola scala a pioli aiutandosi con la magia, quando la porta si aprì e apparve sulla soglia, in alto, una Arath, bellissima, dall'espressione triste e con un occhio dalla pupilla bianca. I capelli corvini e mossi le scendevano sulle spalle e ondeggiavano alla brezza fino alle ginocchia, contrastando con la sua pelle chiarissima. Le sopracciglia erano folte e ben distanziate. La bocca era carnosa e scura, sormontata da un naso fine e regolare, incastonati in un volto ovale. Il suo peplo senza maniche in lino del colore della nocciola accompagnava leggero le sue forme slanciate ed era fermato in vita da una cintura dorata. A coprirla un insolito mantello, sempre nocciola, maculato di marrone scuro, a riprodurre la pelle di un serpente. E una serpe vera che stava appoggiata sopra le sue spalle, bianca con macchie ocra, ogni tanto muoveva la testa nell'atto di osservarsi intorno. La portava come se fosse un gioiello mentre i suoi monili erano composti di bronzo, pietre dure e pasta vitrea nei toni neutri del grigio e della terra.

"Non c'è nessuna scala invisibile e nessun incantesimo che può portarti qui sopra. Sono io a decidere se puoi passare. Sono Angizia, la signora dei serpenti, dea adorata un tempo dai popoli della regione centrale dei monti di Penn. Ho insegnato alle Arath a curare il morso dei serpenti e a padroneggiare l'uso delle buone e delle male erbe e a realizzare i primi incantesimi. Poi sono stata dimenticata. Sono stata posta dal dio reggente a guardia di questo luogo in modo che nessun malevolo possa passare".

Steleth si emozionò a quelle parole, riconoscendo nella dea la madre di tutte le streghe di terra.

Senza aggiungere altro, con un cenno della mano, Angizia fece apparire una scala in muratura da cui la mortale potè salire. Si trovarono in un ingresso stretto, tra il muro e uno spazio spoglio sulla destra dove un tempo forse erano lasciati i cavalli. Un'altissima scala a pioli portava al livello superiore. Angizia salì per prima e invitò Steleth a seguirla.

Arrivarono quindi alla grande sala del castello dalla cui apertura si poteva controllare l'intera valle e che faceva sentire fragili mostrando lo strapiombo che scendeva a picco dai due costoni di roccia e che rendeva quel luogo inespugnabile. Nella stanza non c'era nulla ma i muri erano affrescati ancora con i dipinti originari, che apparivano un po' consumati dal tempo, con le storie degli eroi dei Ligi.

Steleth e Angizia si misero una di fronte all'altra accanto alla finestra, da cui soffiava un vento leggero.

“Mia signora, il sapere e le doti delle Arath hanno origine da te e noi tutte studiamo e ci appassioniamo alla magia studiando la tua storia”, disse Steleth un po' intimorita. “Negli anni ho approfondito la nostra disciplina seguendo l'insegnamento di maestri e libri illustri. Le ultime esperienze che ho avuto, però, mi hanno mostrato che spesso tradizione e realtà non corrispondono. Ti prego, puoi raccontarmi di te?”

“Le storie e le tradizioni sono spesso tramandate dai vincitori per coprirsi di gloria, giustificare le loro azioni inique e far sì che il popolo li segua senza ribellarsi, pensandoli nel giusto. Nacqui dall'amore tra il dio Giano e l'Arath Arunthia e dopo un'infanzia nella foresta delle martore, tra le cime più alte dei monti di Penn, dove imparai a dominare i serpenti, mio padre mi mandò a Ianua, la città sul mare qui vicino. Qui insegnai ai terrestri le arti della guarigione e a come realizzare medicine dal veleno delle angui e grazie alle erbe. Con la devozione dei fedeli, i miei poteri crebbero. Sarei stata in grado di trarre giù la Luna dal cielo, trattenere il  corso dei fiumi con un solo grido e spogliare i monti dallo loro selve, solo chiamandole. Ma non lo feci mai perché il mio amore per la natura è sempre stato sconfinato. Accade però che spesso anche gli dei, come i mortali, cadano in balia della passione. Successe anche a me. Quando lo vidi la prima volta, Argos correva nella foresta a caccia di un cinghiale, aiutato dai cani. La preda corse da me perché lo proteggessi e così fu. Non concessi la vittima al cacciatore ma caddi vittima io stessa. L'uomo, grazie alla sua intelligenza e alla sua arguzia, associate a una bellezza fuori dal comune, catturò il mio amore. Il suo scopo, però, non era quello di ricambiare il mio sentimento ma quello di usarmi per avere il Bracciale delle Fiere, un gioiello in elettro e pietre dure di diversi colori legati ognuno alle diverse specie, che donava a chi ne entrava in possesso la possibilità di comprendere il linguaggio degli animali. Giano lo aveva affidato a me e io lo custodivo con attenzione e gelosia. Il suo intento non era quello di usarlo per sostenersi e nutrirsi ma per arricchirsi, catturando e uccidendo quante più prede possibile. Dapprima me lo chiese in nome del nostro amore poi prese a mettermi di fronte a piccoli ricatti. Infine, si mostrò per quello che era: un opportunista pronto a passare sopra ogni cosa pur di arrivare alla sua meta. Stavamo stesi nella foresta dopo i nostri atti d'amore e approfittando di quel momento di dolcezza, mi chiese ancora il bracciale. Io nuovamente glielo negai e lui decise di prendermelo con la forza. Nella lotta, lui usò contro di me le sue armi e fu in quella contingenza che rimasi con un solo occhio. Alla fine, ferita e angosciata, fui io a soccombere e Argos prese dal mio braccio il gioiello e scappò. Le Lase dei boschi e gli animali accorsero ai miei lamenti e mi aiutarono. Una volta ripresa, la sete di vendetta e una furia incontrollabile contro tutto e tutti presero nel mio animo il posto del sentimento più nobile. Lasciai le terre di Ianua per inseguire quell'uomo, portando carestia e devastazione ovunque passassi. Alla fine lo trovai e lo punii, riprendendomi il bracciale e rinchiudendolo per il resto nei suoi giorni in fondo ad un pozzo. Ma il sapore della mia rivincita fu amaro.  Le regioni che avevo attraversato erano brulle e prive di vita. Tornata a Ianua, gli abitanti erano disperati per la carestia che avevo causato e per il fatto che non rispondessi più alle loro preghiere. Fortunatamente riuscii a rimediare,  ripristinando boschi e foreste e richiamando gli animali che erano fuggiti in cerca di cibo altrove e chiedendo alla dea Semia di aiutare gli uomini nella gestione dei campi. Vennero poi altre dee più belle e più potenti e anche io, come Mefite e Satres, fui dimenticata dai terrestri. Il bracciale delle fiere fu donato a una di queste. Nel conflitto degli eterni ho combattuto al fianco di Maris, che mi diede in cambio la possibilità di tornare a proteggere le selve di Ianua. Poi quando Culsu fu cacciata mi mise a guardia di questo posto, per respingere gli indegni e lasciare il passo a chi merita di arrivare all'antro di Tufulta”.

La festa dei serpari

I serpenti, rigorosamente non velenosi, vengono catturati a marzo e allevati fino al giorno della festa. Il 1 maggio la folla tira con i denti la campanella della cappella del Santo all'interno della chiesa omonima. Secondo la tradizione, questa cerimonia servirebbe a proteggere i denti dalle malattie che li potrebbero affliggere, essendo l'Abate Domenico protettore del mal di denti. 

A mezzogiorno, dopo la Santa Messa, inizia la processione della statua del Santo invasa dalle serpi tra le stradine del cento storico. Se il viso di San Domenico viene coperto, questo sarà un segno infausto, come anche la caduta di uno o più serpenti a terra. Ai fianchi della statua, due ragazze vestite con abiti tradizionali, portano sulla testa un cesto contenenti cinque pani sacri chiamati ciambellani in memoria di un miracolo che fece san Domenico. Questi pani vengono donati per antico diritto ai portatori della Sacra Immagine e del gonfalone.

Al termine della festa, la statua è riportata in chiesa, si assiste allo sparo dei mortaretti, si mangiano i pani sacri e i rettili vengono riportati al loro habitat naturale dai serpari. I fedeli raccolgono una manciata di terra da dietro alla nicchia del Santo per portarla nella propria casa in segno di buon auspicio.

San Domenico e i serpenti

Di Ewa hermanowicz - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=68708528

San Domenico, nato a Foligno intorno al 915, dopo molti spostamenti in tutto il centro Italia si stabilì in Abruzzo, prima a Villalago, poi, dopo alcune persecuzioni, a Cocullo. Qui le persone vivevano per lo più all’aperto ed erano frequentemente vittime di morsi di serpenti e di vipere, di cui la zona era piena.

Il Santo guarì gli abitanti del villaggio dal veleno e salvò delle donne a cui, si dice, dormendo in aperta campagna le vipere avevano succhiato il latte materno o erano penetrate nello stomaco. San Domenico, taumaturgo e guaritore, viene evocato per proteggersi dal morso dei serpenti e dei cani rabbiosi, contro le intemperie, per scacciare malattie come la malaria e per curare il mal di denti.


sabato 27 aprile 2024

Historia Mongalorum di Giovanni Pian del Carpine

Nell'edizione che ho letto del Milione di Marco Polo era presente anche un altro testo legato ai viaggi in Oriente, l'Historia Mongalorum, un'opera di frate Giovanni da Pian del Carpine che narra del suo viaggio alla corte dell'imperatore mongolo. 

In questo caso, non troviamo l'atmosfera più "rilassata" che si respirava nel libro di Marco Polo ma toni più cupi mentre la civiltà mongola è descritta non come quella avanzata che si trova nel Milione ma come una popolazione di selvaggi, guerrieri violenti di cui non ci si può fidare. 

Questo resoconto, scritto dopo il ritorno del frate dal Karakorum, è stato scritto qualche anno prima del testo del mercante veneziano per rispondere ad una esigenza di carattere politico: viene analizzato al suo interno il popolo mongolo, all'epoca una grande minaccia per il mondo occidentale, con dettagliate analisi sulla sua forza e sulla sua organizzazione sociale e militare.

Frate Giovanni partì nel 1245 quando Papa Innocenzo IV decise di affrontare la "questione mongola", inviando per tramite di frate Giovanni una lettera al Gran Khan Güyük; la lettera non era accomodante, e la paura che i Tatari volessero distruggere il vecchio continente sottraendolo al dominio politico e culturale del Vaticano pervade la missiva indirizzata al Gran Khan.

Da questi timori nascono la missione del francescano e la stesura di un'opera che contiene avvertimenti, considerazioni e riflessioni sul mondo mongolo analizzato sotto numerosi suoi aspetti: cultura, tradizioni, organizzazione sociale e militare. Questo per permettere all'Europa di rispondere al meglio un nuovo eventuale attacco dei Tartari. Il punto di vista è quello di un religioso medievale che si trova a trattare con una popolazione che ha usanze completamente diverse da quelle europee e cristiane e narra di storie che ora possono far sorridere, come battaglie con diversi tipi di mostri. 



Eccone un estratto:

Per quanto non abbiano nessuna legge che definisca il modo di fare giustizia o che impedisca la consumazione dei delitti, hanno tuttavia varie norme tradizionali, che vennero stabilite da loro o dai loro predecessori. (...) Non bisogna appoggiarsi al frustino con cui si percuotono i cavalli, (...) nè catturare o uccidere giovani uccelli, nè percuotere il cavallo con il morso, nè ancora rompere un osso contro un altro nè versare a terra del latte o altra bevanda o cibo nè mingere entro la tenda. Quando ciò sia fatto volontariamente, il colpevole è ucciso; altrimenti è necessario che egli paghi una forte somma a uno stregone perchè questi lo purifichi e faccia passare la tenda e tutti gli oggetti che si trovano in essa tra due fuochi. 



Bianca Laura Saibante

 E' nata il 17 maggio 1723 a Rovereto la poetessa Bianca Laura Saibante , cofondatrice dell’ Accademia Roveretana degli Agiati , di cui ...