domenica 19 marzo 2023

20 marzo del 43 a.C., nasce Ovidio

 Uno dei poeti più significativi e affascinanti della cultura latina è Publio Ovidio Nasone, di cui oggi ricorre l'anniversario della nascita. Nato il 20 marzo del 43 a.C., è stato autore di moltissime opere, molte delle quali andate perdute, in cui, solitamente, il corpus è diviso in tre sezioni: le opere elegiache a tema amoroso (Amores, Heroides e il ciclo delle elegie erotico-didascaliche); Metamorfosi e Fasti; elegie dell’invettiva e del rimpianto, ovvero Tristia, Epistulae ex Ponto e Ibis

Ovidio è stato famosissimo nel suo tempo e anche dopo la sua morte, tanto che ne riprendono i temi e imitano il suo stile moltissimi altri autori. L’opera Le Metamorfosi, in particolare, ha ispirato anche moltissimi scultori e pittori italiani ed europei, basti pensare alla celebre scultura di Bernini Apollo e Daphne. 

Ovidio chiude il ciclo della grande elegia romana e con la sua scrittura morbida ed elegante, dalla tecnica perfetta, ha cantato gli impulsi e le galanterie dell’epoca. 

Foto di Mateus Campos Felipe su Unsplash

Ecco il celebre passo delle Metamorfosi dove si parla di Amore e Daphne, di cui abbiamo accennato sopra.

Il primo amore di Febo fu Dafne, figlia di Peneo,

e non fu dovuto al caso, ma all’ira implacabile di Cupido.

Ancora insuperbito per aver vinto il serpente, il dio di Delo,

vedendolo che piegava l’arco per tendere la corda:

«Che vuoi fare, fanciullo arrogante, con armi così impegnative?»

gli disse. «Questo è peso che s’addice alle mie spalle,

a me che so assestare colpi infallibili alle fiere e ai nemici,

a me che con un nugolo di frecce ho appena abbattuto Pitone,

infossato col suo ventre gonfio e pestifero per tante miglia.

Tu accontèntati di fomentare con la tua fiaccola,

non so, qualche amore e non arrogarti le mie lodi».

E il figlio di Venere: «Il tuo arco, Febo, tutto trafiggerà,

ma il mio trafigge te, e quanto tutti i viventi a un dio

sono inferiori, tanto minore è la tua gloria alla mia».

Disse, e come un lampo solcò l’aria ad ali battenti,

fermandosi nell’ombra sulla cima del Parnaso,

e dalla faretra estrasse due frecce

d’opposto potere: l’una scaccia, l’altra suscita amore.

La seconda è dorata e la sua punta aguzza sfolgora,

la prima è spuntata e il suo stelo ha l’anima di piombo.

Con questa il dio trafisse la ninfa penea, con l’altra

colpì Apollo trapassandogli le ossa sino al midollo.

Subito lui s’innamora, mentre lei nemmeno il nome d’amore

vuol sentire e, come la vergine Diana, gode nella penombra

dei boschi per le spoglie della selvaggina catturata:

solo una benda raccoglie i suoi capelli scomposti.

Molti la chiedono, ma lei respinge i pretendenti

e, decisa a non subire un marito, vaga nel folto dei boschi

indifferente a cosa siano nozze, amore e amplessi.

Il padre le ripete: «Figliola, mi devi un genero»;

le ripete: «Bambina mia, mi devi dei nipoti»;

ma lei, odiando come una colpa la fiaccola nuziale,

il bel volto soffuso da un rossore di vergogna,

con tenerezza si aggrappa al collo del padre:

«Concedimi, genitore carissimo, ch’io goda», dice,

«di verginità perpetua: a Diana suo padre l’ha concesso».

E in verità lui acconsentirebbe; ma la tua bellezza vieta

che tu rimanga come vorresti, al voto s’oppone il tuo aspetto.

E Febo l’ama; ha visto Dafne e vuole unirsi a lei,

e in ciò che vuole spera, ma i suoi presagi l’ingannano.

Come, mietute le spighe, bruciano in un soffio le stoppie,

come s’incendiano le siepi se per ventura un viandante

accosta troppo una torcia o la getta quando si fa luce,

così il dio prende fuoco, così in tutto il petto

divampa, e con la speranza nutre un impossibile amore.

Contempla i capelli che le scendono scomposti sul collo,

pensa: ‘Se poi li pettinasse?’; guarda gli occhi che sfavillano

come stelle; guarda le labbra e mai si stanca

di guardarle; decanta le dita, le mani,

le braccia e la loro pelle in gran parte nuda;

e ciò che è nascosto, l’immagina migliore. Ma lei fugge

più rapida d’un alito di vento e non s’arresta al suo richiamo:

«Ninfa penea, férmati, ti prego: non t’insegue un nemico;

férmati! Così davanti al lupo l’agnella, al leone la cerva,

all’aquila le colombe fuggono in un turbinio d’ali,

così tutte davanti al nemico; ma io t’inseguo per amore!

Ahimè, che tu non cada distesa, che i rovi non ti graffino

le gambe indifese, ch’io non sia causa del tuo male!

Impervi sono i luoghi dove voli: corri più piano, ti prego,

rallenta la tua fuga e anch’io t’inseguirò più piano.

Ma sappi a chi piaci. Non sono un montanaro,

non sono un pastore, io; non faccio la guardia a mandrie e greggi

come uno zotico. Non sai, impudente, non sai

chi fuggi, e per questo fuggi. Io regno sulla terra di Delfi,

di Claro e Tènedo, sulla regale Pàtara.

Giove è mio padre. Io sono colui che rivela futuro, passato

e presente, colui che accorda il canto al suono della cetra.

Infallibile è la mia freccia, ma più infallibile della mia

è stata quella che m’ha ferito il cuore indifeso.

La medicina l’ho inventata io, e in tutto il mondo guaritore

mi chiamano, perché in mano mia è il potere delle erbe.

Ma, ahimè, non c’è erba che guarisca l’amore,

e l’arte che giova a tutti non giova al suo signore!».

Di più avrebbe detto, ma lei continuò a fuggire

impaurita, lasciandolo a metà del discorso.

E sempre bella era: il vento le scopriva il corpo,

spirandole contro gonfiava intorno la sua veste

e con la sua brezza sottile le scompigliava i capelli

rendendola in fuga più leggiadra. Ma il giovane divino

non ha più pazienza di perdersi in lusinghe e, come amore

lo sprona, l’incalza inseguendola di passo in passo.

Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto

una lepre, e scattano l’uno per ghermire, l’altra per salvarsi;

questo, sul punto d’afferrarla e ormai convinto

d’averla presa, che la stringe col muso proteso,

quella che, nell’incertezza d’essere presa, sfugge ai morsi

evitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla,

un fulmine lui per la voglia, lei per il timore.

Ma lui che l’insegue, con le ali d’amore in aiuto,

corre di più, non dà tregua e incombe alle spalle

della fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento.

Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa

allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e:

«Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere,

dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui».

Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra,

il petto morbido si fascia di fibre sottili,

i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami;

i piedi, così veloci un tempo, s’inchiodano in pigre radici,

il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva.

Anche così Febo l’ama e, poggiata la mano sul tronco,

sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia

e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo,

ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae.

E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia,

sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno,

o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra;

e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante

intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei.

Fedelissimo custode della porta d’Augusto,

starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo.

E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma intonsa,

anche tu porterai il vanto perpetuo delle fronde!».

Qui Febo tacque; e l’alloro annuì con i suoi rami

appena spuntati e agitò la cima, quasi assentisse col capo.

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