giovedì 18 maggio 2023

Caratteri e impronte: Le metamorfosi o L'asino d'oro di Apuleio

 Dopo avervi lasciato lo scorso giovedì con L'elogio della mosca di Luciano di Samosata, torno con un nuovo appuntamento della rubrica dedicata a letteratura e animali, Caratteri e Impronte - nata in attesa del mio secondo libro - con un'altra opera classica  che ha come protagonista uno degli animali più diffusi nei libri e nelle storie, l'asino.

Si tratta di Le metamorfosi, scritta da Lucio Apuleio nel II secolo d.C. Il romanzo è anche noto con il titolo L'asino d'oro. Il lavoro latino potrebbe essere la rielaborazione di un'altra opera di Luciano, dal titolo Lucio o l'asino o potrebbe derivare da un testo perduto di Lucio di Patre.

Il protagonista del romanzo è il curioso Lucio. Viaggiando in Tessaglia, terra di streghe e incantesimi, egli prova un insaziabile desiderio di vedere e praticare la magia: dopo essersi spalmato un unguento magico, grazie all'aiuto dell'amata Fotide, si ritrova trasformato accidentalmente in asino. La trama prosegue seguendo Lucio nelle sue peripezie attraverso lunghe avventure, portandolo finalmente a ritrovare la forma umana e una nuova consapevolezza di sé. Il percorso di caduta, sofferenza e redenzione si concluderà grazie all'intervento della dea Iside, della quale Lucio diverrà un ardente devoto.

La narrazione è spesso interrotta da digressioni di varia lunghezza, che riferiscono vicende degne di nota o di curiosità, relative alle vicende del protagonista o raccontate da altri personaggi. Una di queste è la favola di Amore e Psiche.

Si tratta, in definitiva, di una storia di iniziazione. Lucio, nella sua avventura, deve sopportare una vita da asino, ma nascosta sotto la pelle dell’asino c’è la sua umanità. In questo modo, può assistere ai comportamenti della gente, tradimenti, menzogne, bassezze di ogni genere, senza essere notato. Il protagonista deve vivere sino in fondo l'immagine dell'asino, della bestia che si porta dentro, per conoscere le proprie pulsioni e la propria interiorità. In questo testo, l'animale è la metafora della vita e della evoluzione spirituale, che anziché procedere in avanti regredisce a comportamenti primitivi. La trasformazione di Lucio in asino rappresenta il momento in cui si entra in contatto con la propria animalità. Da qui il percorso di iniziazione - da sempre visto come un cambiamento radicale dell’individuo - fatto di una lunga serie di prove. Una volta superate, il protagonista può finalmente intraprendere il suo cammino verso la piena consapevolezza di sé.

Ecco la scena cardine di L'asino d'oro, in cui Lucio viene trasformato in asino dalla sua amante, la serva Fotide, che lo accompagna prima a osservare le mirabili magie della sua padrona, Panfile, e poi combina un gran pasticcio. Di seguito poi l'incontro con i briganti.


Le metamorfosi o L'asino d'oro di Apuleio, la trasformazione in asino

Così alle prime ore di notte Fotide mi condusse, con ogni circospezione, in punta di piedi, fino a quella stanzetta in alto e mi disse di guardare attraverso una fessura dell'uscio che cosa stava succedendo lì dentro.

Panfile si era spogliata di tutte le vesti, poi, aperto uno scrigno cominciò a estrarne parecchi vasetti; tolse il coperchio ad uno di essi, prese dell'unguento e stropicciandolo a lungo nelle mani se lo spalmò su tutto il corpo, dalla cima dei capelli alle unghie dei piedi. Dopo che ebbe sommessamente parlato con la lucerna, le sue membra cominciarono ad essere scosse da un tremito, poi a ondeggiare lievemente e a coprirsi d'una fitta peluria. Nacquero, infine, delle robuste penne, il naso s'incurvò e s'irrigidì, le unghie si mutarono in artigli adunchi. Panfile era diventata un gufo. Emise un querulo strido, provò a saltellare ancora incerta delle sue possibilità, infine, levatasi in alto se ne volò via ad ali spiegate.

Panfile si era trasformata, grazie alle sue arti magiche e di sua volontà. Io, di fronte a un simile prodigio, ero come impietrito per lo stupore e senza bisogno di scongiuri mi sentivo di essere tutto tranne che Lucio: ero fuori di me, imbambolato come uno che abbia perso la ragione, sognavo ad occhi aperti e me li venivo stropicciando continuamente per vedere se ero davvero sveglio.

Finalmente tornai alla realtà e afferrata la mano di Fotide e portatamela agli occhi: "Ti supplico" esclamai "ora che si presenta l'occasione, dammi la prova suprema, unica, dell'amor tuo, dammi solo un filino di quell'unguento, te ne scongiuro, dolcezza mia, per queste tue mammelline tutto miele, che sono mie, incatenami per sempre a te con questo favore eccezionale, fa che diventi un Cupido alato per volare in braccio alla mia Venere.

"E bravo il mio furbacchione innamorato. Vorresti, eh, che io mi dessi da me la zappa sui piedi. Faccio già fatica, così come sei, a sottrarli a queste bagasce di Tessaglia, figuriamoci poi dove andrei a cercarti e quando ti rivedrei se diventassi un uccello!"

"Che il cielo mi liberi da una simile carognata. Anche se io potessi volare in alto, dappertutto nel cielo, come l'aquila, e diventare il fidato messaggero di Giove e il suo augurale scudiero, dopo tanta gloria di voli, non tornerei sempre al mio piccolo nido? Ti giuro per queste deliziose trecce dei tuoi capelli con cui mi hai incatenato il cuore, che io non preferirò mai nessun'altra alla mia Fotide. E poi, adesso che ci penso, una volta che sarò tutto bello spalmato d'unguento e trasformato in un uccello simile, dovrò starmene alla larga dalle case. Che allegria, infatti, e come potranno goderselo, le signore, un amante gufo. La sappiamo, no? la fine che fanno questi uccelli notturni quando entrano in qualche casa: li prendono e li inchiodano alle porte perché con la loro morte atroce facciano penitenza delle disgrazie che il loro volo infausto reca alle famiglie. Ma quasi quasi mi dimenticavo di chiederti qual'è la formula, il gesto magico con cui potrò togliermi quelle penne di dosso e tornare di nuovo il Lucio di prima?"

"Non ti preoccupare riguardo a questo" mi assicurò. "La mia padrona mi ha mostrato tutto quanto occorre per restituire l'aspetto umano a quelli che hanno preso altra forma. Non credo però che l'abbia fatto per bontà d'animo ma solo perché, così, quand'ella torna io possa apprestarle i rimedi efficaci. Inoltre devi sapere che bastano erbette da nulla per ottenere un simile prodigio: un po' di semi di aneto, delle foglie di lauro mescolate in acqua di fonte ed ecco bell'e pronto il bagno e la bevanda."

Dopo avermi ripetuto più volte tali assicurazioni, entrò tutta emozionata in quella stanzetta e prese dallo scrigno il vasetto. Come io l'ebbi fra le mani me lo strinsi al petto e cominciai a baciarlo pregando che mi facesse fare voli felici, poi, liberatomi in fretta di tutti i vestiti, immersi avidamente le dita nel barattolo e preso un bel po' di unguento me lo spalmai su tutto il corpo. Poi, agitando le braccia su e giù mi misi a fare l'uccello, ma niente: penne non ne spuntavano e nemmeno piume; piuttosto i peli cominciarono a diventare ispidi come setole, la pelle, delicata com'era, a farsi dura come il cuoio, alle estremità degli arti le dita si confusero, riunendosi in una sola unghia e in fondo alla colonna vertebrale spuntò una gran coda.

Poi eccomi con una faccia enorme, una bocca allungata, le narici spalancate, le labbra penzoloni, mentre smisuratamente pelose mi erano cresciute le orecchie. Nulla in quell'orribile metamorfosi di cui potessi per qualche verso compiacermi, se non per il mio arnese diventato grossissimo, ma proprio quando, ormai, non potevo più tener Fotide tra le mie braccia.

Guardandomi tutte le parti del corpo e vedendomi diventato asino e non uccello sentii d'essere rovinato. Mi venne voglia di prendermela con Fotide per questo bel guaio, ma privo ormai del gesto e della voce, feci quel che potevo: chinai il muso e guardandola di traverso con gli occhi umidi mi raccomandai a lei in silenzio.

Quand'ella, intanto, mi vide in quello stato, cominciò a picchiarsi il viso e: "Disgraziata che sono" cominciò a gridare "l'emozione e la fretta mi hanno tradita e mi ha ingannata la somiglianza dei vasetti. Meno male che per questa trasformazione è presto trovato il rimedio. Basta che tu mastichi delle rose e subito ti toglierai di dosso questo aspetto d'asino e tornerai il mio Lucio. Peccato che ieri sera non ho preparato per noi le solite coroncine di rose perché allora non avresti dovuto aspettare nemmeno una notte. Appena spunta l'alba, però avrai subito la medicina."

Così ella si disperava ed io benché asino perfetto, un quadrupede al posto di Lucio, conservavo la sensibilità umana. Così stetti a lungo a chiedermi se avessi dovuto uccidere a furia di calci e di morsi quella disgraziata e malvagia femmina; ma da questo proposito avventato mi distolse una considerazione più sensata e cioè che se avessi punito Fotide con la morte, mi sarei tolta da me ogni possibilità di aiuto. Così a testa bassa e ciondoloni e mandando giù la momentanea umiliazione, nonché rassegnandomi a quel tristissimo accidente, me ne andai vicino al mio cavallo che così zelantemente mi aveva portato fin lì, nella stalla, dove trovai anche un altro asino, appartenente a Milone, un tempo mio ospite.

Intanto io pensavo che se tra gli animali, privi come sono di parola, esiste un tacito e istintivo senso di solidarietà, quel mio cavallo, riconoscendomi e avendo pietà di me, mi avrebbe dato ospitalità e lasciato ch'io occupassi il posto migliore. E, invece, per Giove ospitale, per le segrete divinità della Fede, quella mia illustre cavalcatura e quell'asino, annusandosi, si misero subito d'accordo ai miei danni e, appena videro che io mi avvicinavo alla greppia, preoccupati per il cibo, a orecchie basse, infuriati, mi accolsero con una tempesta di calci. Così fui tenuto bene alla larga da quell'orzo che io stesso, la sera prima, con le mie mani, avevo posto davanti a quel mio riconoscente servitore.

Trattato in questo modo e messo al bando mi ritirai in un cantuccio della stalla e mentre pensavo all'insolenza di quei miei colleghi e progettavo di vendicarmi di quel perfido cavallo non appena con l'aiuto delle rose sarei tornato Lucio, vidi appesa a metà del pilastro centrale che sosteneva le travi della stalla un'immagine della dea Epona incassata in una piccola nicchia e circondata da una ghirlandetta di rose fresche.

Scorto l'aiuto provvidenziale mi tornò la speranza e tese in alto le zampe anteriori, mi detti da fare come potevo ad allungare il collo e a protendere le labbra, insomma a tentare con tutte le mie forze di afferrare quelle ghirlande. Ma per il colmo della disgrazia il mio servo al quale era stata affidata la cura del mio cavallo, vedendomi fare tutti quegli sforzi, mi saltò su infuriato: "Ma fino a quando devo sopportare questo castrone? Un momento fa si stava fregando la biada delle altre bestie, ora se la prende anche con le immagini degli dei. Quasi quasi lo cionco, 'sto sacrilego! e messosi alla ricerca di un'arma, gli venne sotto, per caso, una fascina dalla quale sfilò il ramo più robusto e più frondoso e così, povero me, giù a darmele più che poteva. Smise quando s'udirono un grande strepito e colpi violenti alla porta e i vicini che gridavano: i briganti, i briganti; allora, impaurito, se la diede a gambe.

Un attimo dopo la porta si spalancò violentemente e un gruppo di briganti fece irruzione mentre una seconda schiera armata circondava la casa e, con continui spostamenti, teneva a bada la gente che accorreva da ogni parte. Tutti erano armati di spade e di torce e illuminavano le tenebre; il fuoco e il ferro brillavano come un sole sorgente.

Al centro della casa c'era un ripostiglio chiuso e sigillato da catenacci solidissimi dove Milone ammucchiava i suoi tesori. Quelli a gran colpi di scure spaccarono tutto, entrarono, portarono fuori ogni cosa e in fretta la chiusero in sacchi che poi si divisero. Ma i portatori non erano in numero sufficiente per un bottino simile; così, messi in difficoltà per la troppa abbondanza, presero noi, due asini e un cavallo, ci tirarono fuori della stalla, ci seppellirono quanto poterono sotto i fardelli più pesanti e minacciandoci con i bastoni ci spinsero fuori della casa ormai svuotata di tutto.

Uno della banda rimase sul posto per raccogliere notizie e riferire poi dell'inchiesta che si sarebbe aperta su quel fattaccio; quanto a noi, invece, a suon di legnate ci spinsero tra le montagne per viottoli impraticabili.

Intanto un po' per tutto quel carico, un po' per la ripidezza di quei viottoli di montagna, un po' per la molta strada già fatta, tra me e un morto c'era ormai poca differenza. Eppure, anche se in ritardo, mi venne un'idea di quelle fini, cioè di fare appello alla legge, sperando che tirando in ballo il nome dell'augusto imperatore, mi sarei liberato di tutti i miei guai. E così a giorno fatto, mentre, finalmente, attraversavamo un villaggio popoloso e pieno di gente accorsa per il mercato, giunto nel bel mezzo di un gruppo di greci, tentai di invocare nella loro lingua, il nome augusto di Cesare, ma non mi riuscì di gridare che un O forte e chiaro, ché il resto del nome Cesare non potetti articolarlo.

Urtati assai da quel mio raglio sgradevole i briganti cominciarono a darmene un fracco da spianarmi la pellaccia fino a ridurmela peggio di uno straccio.

Finalmente il gran Giove volle porgermi una via di salvezza. Infatti, mentre sorpassavamo casette di campagna e grosse cascine, io vidi un giardinetto grazioso nel quale oltre a diverse piante leggiadre c'erano delle rose ancora in boccio e stillanti di rugiada. Tutto lieto e arzillo per la speranza della salvezza mi ci accostai e con le labbra avide già stavo per afferrarle quando feci una considerazione che fu davvero assai saggia e cioè che se io mi fossi ritrovato non più asino ma Lucio, quei briganti, di sicuro, mi avrebbero fatto fuori o perché sospettato di magia o per la paura che un domani li avrei denunciati.

E così, anche questa volta, per forza maggiore, dovetti rinunziare alle rose e, rassegnandomi alla mia temporanea sventura, proprio come un asino mi misi a masticare fieno.

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