Dopo le celebrazioni della Fondazione di Roma, il 21 aprile, parliamo di un guerriero protagonista delle vicende leggendarie che hanno portato alla nascita della città. Si tratta di Turno, Re dei Rutuli, personaggio fondamentale dell'Eneide di Virgilio, quasi un co-protagonista del poema. Vi ho già parlato di questo carattere diverse volte, visto che uno dei personaggi di Lo specchio di Giano si ispira a lui e porta il suo nome.
Figlio di Dauno e della ninfa Venilia, fratello di Giuturna e di Canente, ha origini e parentele divine, discendendo dalla divinità italica Pilumno. Prima dell'arrivo di Enea gli è stata promessa Lavinia, figlia di Latino, anche se oracoli e prodigi avevano dato segni molto negativi sul progettato matrimonio.
Quando Latino promette la mano di Lavinia ad Enea, Turno sembra non preoccuparsi della cosa ma a farlo reagire provvede la furia Aletto, inviata da Giunone. Turno ed Amata - moglie di Latino, anche lei istigata dalla furia - scatenano la guerra contro i Troiani spingendo i Latini a violare i patti di amicizia appena conclusi.
Nelle battaglie il re dei Rutuli, eroico, impulsivo e arrogante, si distinguerà in parallelo con l'Achille omerico, costituendo la colonna portante dei contenuti epici dell'opera, rappresentando anche il guerriero senza paura che al momento giusto sa onorare il nemico sconfitto. Infine affronterà Enea in duello e morirà nell'ultimo verso del poema.
La figura di Turno appare tuttavia psicologicamente più complessa di quella di Achille e ha la capacità di interagire in maniera complessa con gli altri personaggi dell'Eneide: ha un carattere molto definito e variegato, nel quale trova pieno risalto la capacità di Virgilio di cogliere e descrivere esaltazioni ed angosce dell'animo umano. Lo vediamo come strumento della volontà di Giunone, ma anche uomo offeso che si batte per recuperare la dignità che va perdendo davanti alla fama del nuovo arrivato. Nonostante non esiti ad affrontare Enea nel duello finale, ha comunque momenti di esitazione e paura, tratti che lo avvicinano in questo caso alla figura di Ettore.
Ecco i versi finali del poema:
Enea di contro incalza e vibra la lancia,
enorme, simile a un tronco, e parla con animo feroce:
«Ora cos’è questo indugio? Perché ti attardi, Turno?
Non con la corsa, con l’armi crudeli si deve combattere
da presso. Trasfòrmati in tutti gli aspetti, raduna quanto
vali con l’animo e con l’astuzia; desidera di volare
sulle alte stelle, e di racchiuderti nel cavo della terra…».
Quello, scuotendo il capo: «Non le tue superbe parole m’atterriscono,
o arrogante; gli dei mi atterriscono e Giove nemico».
E senza dire null’altro, rivolge lo sguardo a un grande macigno,
[…] l’eroe, afferratolo con mano ansiosa, cercò di scagliarlo
sul nemico, ergendosi in alto e preso di corsa l’abbrivio.
Ma non si riconobbe nel correre, nel muoversi,
nell’alzare la mano e nel librare il possente macigno;
le ginocchia vacillano, si rapprende gelido il sangue.
Allora la pietra, lanciata dal guerriero nel vuoto,
non percorse tutto lo spazio, né portò a termine il colpo.
E come in sogno, di notte, quando una languida quiete
grava sugli occhi, ci sembra di voler inutilmente intraprendere
avide corse, e durante il tentativo cadiamo sfiniti;
la lingua impotente, le forze consuete del corpo
svaniscono, e non escono voce o parole:
così a Turno, con qualunque sforzo tenti la via,
l’orribile dea nega il successo. Allora volge
nel cuore sentimenti diversi: guarda i Rutuli e la città,
e indugia nel timore, e trema all’arrivo del colpo;
non sa dove scampare, come assalire il nemico
e non vede in nessun luogo il carro e la sorella auriga.
Mentre esitava, Enea brandisce l’asta fatale,
calcolando la sorte con gli occhi, e la vibra da lontano
[…] Il grande Turno
cadde in terra, colpito, con le ginocchia piegate.
Balzano con un grido i Rutuli, e tutto rimbomba
il monte d’intorno, e ampiamente i profondi boschi riecheggiano.
Egli da terra, supplice, protendendo lo sguardo e la destra
implorante: «L’ho meritato» disse «e non me ne dolgo;
profitta della tua fortuna; tuttavia, se il pensiero d’un padre
infelice ti tocchi, prego – anche tu avesti un padre,
Anchise –, pietà della vecchiaia di Dauno,
e rendi me, o se vuoi le membra prive di vita,
ai miei. Hai vinto e gli Ausoni mi videro sconfitto
tendere le mani; ora Lavinia è tua sposa;
non procedere oltre con gli odii». Ristette fiero nell’armi
Enea, volgendo gli occhi, e trattenne la destra;
sempre di più il discorso cominciava a piegarlo
e a farlo esitare: quando al sommo della spalla apparve
l’infausto balteo e rifulsero le cinghie delle note borchie
del giovane Pallante, che Turno aveva vinto e abbattuto
con una ferita, e portava sulle spalle il trofeo del nemico.
Egli, fissato con gli occhi il ricordo del crudele dolore,
e la preda, arso dalla furia, e terribile
nell’ira: «Tu, vestito delle spoglie dei miei,
vorresti sfuggirmi? Pallante con questa ferita,
Pallante t’immola, e si vendica sul sangue scellerato».
Dicendo così, gli affonda furioso il ferro in pieno petto;
a quello le membra si sciolgono nel gelo,
e la vita con un gemito fugge sdegnosa tra le ombre.
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