Alessandro III di Macedonia, universalmente noto come Alessandro Magno (Pella, 20 o 21 luglio 356 a.C. – Babilonia, 10 o 11 giugno 323 a.C.) è una delle figure più affascinanti della storia antica, tanto - come accaduto a Carlo Magno - da essere diventato protagonista di numerose opere letterarie e leggende, dall'antichità ai giorni nostri. Ve ne parlo oggi, nel giorno della nascita, anche se presunta, che corrisponde a quella del mio compleanno.
Colto, carismatico e deciso, ebbe come precettore in età giovanile Aristotele, e fu re di Macedonia della dinastia degli Argeadi a partire dal 336 a.C., succedendo al padre Filippo II. È considerato uno dei più celebri conquistatori e strateghi della storia: come non rimanerne colpiti e prendere ispirazione per un romanzo o un racconto? L'ho fatto anche io, mettendolo al centro del mio secondo libro. Vi ho già anticipato qualcosa qui: infatti è un reperto con il simbolo della dinastia degli Argeadi che da il via alla storia.
Evito di annoiarvi con informazioni già conosciute (ha conquistato in soli 12 anni un impero sconfinato, ecc...) e vi riporto una poesia dedicata a lui, un bellissimo poemetto di Giovanni Pascoli, in cui il condottiero, arrivato ormai all'Oceano Indiano, deve fermare i suoi passi e la sua instancabile ricerca: una visione attualissima e contemporanea, scritta con lo stile inimitabile del poeta. Fa parte di questa poesia anche un verso che mi è particolarmente caro e che ha riportato anche mia madre nelle memorie che mi ha lasciato quando stava per andare via: "Il sogno è l'infinita ombra del vero".
Giovanni Pascoli, Alexandros
I
— Giungemmo: è il Fine. O sacro Araldo, squilla!
Non altra terra se non là, nell’aria,
quella che in mezzo del brocchier vi brilla,
o Pezetèri: errante e solitaria
terra, inaccessa. Dall’ultima sponda
vedete là, mistofori di Caria,
l’ultimo fiume Oceano senz’onda.
O venuti dall’Haemo e dal Carmelo,
ecco, la terra sfuma e si profonda
dentro la notte fulgida del cielo.
II
Fiumane che passai! voi la foresta
immota nella chiara acqua portate,
portate il cupo mormorìo, che resta.
Montagne che varcai! dopo varcate,
sì grande spazio di su voi non pare,
che maggior prima non lo invidïate.
Azzurri, come il cielo, come il mare,
o monti! o fiumi! era miglior pensiero
ristare, non guardare oltre, sognare:
il sogno è l’infinita ombra del Vero.
III
Oh! più felice, quanto più cammino
m’era d’innanzi; quanto più cimenti,
quanto più dubbi, quanto più destino!
Ad Isso, quando divampava ai vènti
notturno il campo, con le mille schiere,
e i carri oscuri e gl’infiniti armenti.
A Pella! quando nelle lunghe sere
inseguivamo, o mio Capo di toro,
il sole; il sole che tra selve nere,
sempre più lungi, ardea come un tesoro.
IV
Figlio d’Amynta! io non sapea di meta
allor che mossi. Un nomo di tra le are
intonava Timotheo, l’auleta:
soffio possente d’un fatale andare,
oltre la morte; e m’è nel cuor, presente
come in conchiglia murmure di mare.
O squillo acuto, o spirito possente,
che passi in alto e gridi, che ti segua!
ma questo è il Fine, è l’Oceano, il Niente...
e il canto passa ed oltre noi dilegua. -
V
E così, piange, poi che giunse anelo:
piange dall’occhio nero come morte;
piange dall’occhio azzurro come cielo.
Ché si fa sempre (tale è la sua sorte)
nell’occhio nero lo sperar, più vano;
nell’occhio azzurro il desiar, più forte.
Egli ode belve fremere lontano,
egli ode forze incognite, incessanti,
passargli a fronte nell’immenso piano,
come trotto di mandre d’elefanti.
VI
In tanto nell’Epiro aspra e montana
filano le sue vergini sorelle
pel dolce Assente la milesia lana.
A tarda notte, tra le industri ancelle,
torcono il fuso con le ceree dita;
e il vento passa e passano le stelle.
Olympiàs in un sogno smarrita
ascolta il lungo favellìo d’un fonte,
ascolta nella cava ombra infinita
le grandi quercie bisbigliar sul monte.