domenica 30 giugno 2024

Giovanni Battista Lalli

 Avrete notato la mia predilezione per i poemi rinascimentali e del Seicento, anche di quelli eroicomici. Tra gli autori di questo tipo particolare di opere, nate per lo più per intrattenere e divertire, con libri dalle trame spesso complicate e ricche di spunti ed episodi bizzarri e personaggi strampalati, c'è il norcino Giovanni Battista Lalli (1º luglio 1572 – 6 febbraio 1637), di cui vi parlo oggi nell'anniversario ella nascita.

Tra i suoi lavori, la "Moscheide, overo Domiziano il moschicida", di cui sotto potete leggere l'incipit, che guarda alla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso. Come negli altri poemi di questo tipo, la classica invocazione alla Musa viene sostituita dalla richiesta di aiuto a un elemento molto più comune e divertente: i grilli.

Scrisse anche la "Franceide, overo del mal francese", su un argomento (il mal francese ovvero la sifilide) che già aveva riscosso un ampio successo nella poesia burlesca del Cinquecento. Nel poema si trova anche una descrizione del famoso scontro cavalleresco del 1503 tra italiani e francesi, meglio noto come disfida di Barletta. Tra le altre sue opere il "Tito Vespasiano overo Gerusalemme disolata" e l'"Eneide travestita", altra sua opera burlesca. Non mancano le "Rime", in cui, tra le altre cose, ripropone in versione burlesca alcune delle rime più famose del Canzoniere di Petrarca.


Ecco l'incipit della Moscheide:


Canto le strane guerre e memorande,

che della gran Mosconia al nobil Regno,

mosse à di suoi Domiziano il grande

sol per cagion d'un amoroso sdegno;

e s'il desio, che l'ale audace espande,

giunger potrà di sì grand'opra al segno;

Spero con le mie penne illustre, e solo,

a par di voi, ch'io canto alzarmi a volo.


Grilli, voi che con chiari acuti accenti

l'aria addolcite à i più cocenti ardori,

e trattenete ad ascoltarvi intenti,

Satiri, Semidei, Ninfe e pastori;

date forza al mio stil, sì ch'io rammenti,

frà così degne imprese, i vostri honori:

siete voi le Muse; e da voi intanto

chiecchio, à soggetto tal, conforme il canto.


venerdì 28 giugno 2024

29 giugno 1798, nasce Giacomo Leopardi. Dieci curiosità sul poeta

 Dopo l'anniversario della nascita di Luigi Pirandello, oggi ricorre il "compleanno" di un altro titano della letteratura italiana. Il 29 giugno 1798 nasceva, a Recanati, Giacomo Leopardi, tra i maggiori poeti dell’Ottocento italiano e della letteratura italiana. Un autore che mi accompagnato per tutta la vita. 

Voglio ricordarlo questa volta non con citazioni o opere ma con dieci curiosità su di lui: 

  1. Il poeta fu battezzato con cinque nomi: Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro. Tuttavia, in famiglia fu semplicemente “Buccio
  2. Accanto al poeta depresso, solitario, dedito allo "studio matto e disperatissimo", l'epistolario di Leopardi restituisce anche un altro volto dell'autore, ironico e volgare. Nelle lettere, soprattutto a quelle rivolte al fratello Carlo, usò spesso parolacce. 
  3. Il poeta dimostrò la sua sete di conoscenza e le sue doti fuori dal comune fin da quando era bambino. Infatti, imparò da autodidatta il greco antico e l’ebraico, con l’aiuto di una Bibbia poliglotta presente nella sua biblioteca. Ad undici anni tradusse il primo libro delle Odi di Orazio ed a quattordici anni scrisse due tragedie, la "Virtù indiana" e "Pompeo in Egitto", l'anno dopo una "Storia dell’Astronomia".
  4. Giacomo era certamente un ragazzo geniale ma era anche un figlio disubbidiente e ribelle che diceva bugie ai genitori. Una volta cercò di fuggire dalla sua casa di Recanati procurandosi un passaporto e falsificando il consenso del padre.
  5. Del resto era cresciuto con una madre fredda e opprimente: basti pensare che doveva chiedere il permesso una settimana prima per fare una passeggiata. Nei suoi diari racconta di come non lo baciasse mai.
  6. Leopardi non era certo un uomo socievole: non sopportava nessuno e disprezzava spesso chi la circondava. 
  7. Non è vero che il suo aspetto fisico gli impedisse una certa autostima: era pieno di sé e non stentava a darsi delle arie in presenza dei suoi coetanei.
  8. Leopardi era molto trascurato nel vestire e i suoi abiti puzzavano sempre di tabacco. Pare che l'igiene personale lasciasse molto a desiderare.
  9. Lo scrittore era molto goloso e ha redatto un elenco di 49 "desiderata" come suggerimento per chi si occupava di preparare i suoi pasti: dai maccheroni ai capellini al burro, dalle frittelle di mele agli gnocchi di semolino. E' stato il primo a scrivere un verso in onore del pasticcere Vito Pinto i cui taralli e gelati erano la sua passione. Per questi era pronto a sborsare qualsiasi cifra, al punto che le malelingue dicevano che lo stesso Pinto si fosse così arricchito da comprarsi il titolo di Barone. Definì la minestrina "abominio assoluto"
  10. L'amico Antonio Ranieri raccontò di come Giacomo fosse una enciclopedia di stranezze e vizi: ad esempio, faceva colazione nel pomeriggio e pranzava anche a mezzanotte, pretendendo che si cucinasse apposta per lui. Inoltre, rispettava in maniera ossessiva i consigli del medico



28 giugno 1867, nasce Luigi Pirandello

Il 28 giugno ricorre l'anniversario della nascita di uno degli autori più importanti del Novecento che ho sempre visto come un maestro: Luigi Pirandello, un genio che ha contribuito a rinnovare il teatro, il romanzo e la novella, insignito del Premio Nobel per la letteratura.

A colpire soprattutto lo stile e il suo pensiero che si basa su tre assi: il vitalismo, l'umorismo e la metaletteratura.

La realtà, secondo Pirandello, è un conflitto tra vita, un flusso continuo, e forma, che è fissa ed è identificata spesso con le regole date dalla società. Il contrasto tra la vita e la forma non si può superare: la sconfitta è inevitabile. Un esempio di questo è la novella La carriola, di cui vi ho parlato qui.

Per relazionarsi con la realtà, uno degli strumenti suggeriti dall'autore è l'umorismo, che viene distinto dal comico. Il comico è un “avvertimento del contrario” (vedo che qualcosa è l’opposto di come dovrebbe essere, quindi rido). L’umorismo è il “sentimento del contrario” (vedo che qualcosa è l’opposto di come dovrebbe essere e rifletto sulle ragioni profonde di quella diversità, su quello che c’è dietro la maschera). 

La letteratura si propone come un gioco umoristico, ma rappresenta anche una lotta continua tra vita e forma. Questo scontro diventa uno scontro tra la realtà e la finzione, perché letteratura è di per sé una finzione, qualcosa che non esiste. Da qui nasce il concetto di “metaletteratura”, ossia una finzione.


Ecco un brano tratto da uno dei miei romanzi preferiti Il fu Mattia Pascal. Si tratta della "nascita" di Adriano Meis:

Subito, non tanto per ingannare gli altri, che avevano voluto ingannarsi da sè, con una leggerezza non deplorabile forse nel caso mio, ma certamente non degna d’encomio, quanto per obbedire alla Fortuna e soddisfare a un mio proprio bisogno, mi posi a far di me un altr’uomo.

Poco o nulla avevo da lodarmi di quel disgraziato che per forza avevano voluto far finire miseramente nella gora d’un molino. Dopo tante sciocchezze commesse, egli non meritava forse sorte migliore.

Ora mi sarebbe piaciuto che, non solo esteriormente, ma anche nell’intimo, non rimanesse più in me alcuna traccia di lui.

Ero solo ormai, e più solo di com’ero non avrei potuto essere su la terra, sciolto nel presente d’ogni legame e d’ogni obbligo, libero, nuovo e assolutamente padrone di me, senza più il fardello del mio passato, e con l’avvenire dinanzi, che avrei potuto foggiarmi a piacer mio.

Ah, un pajo d’ali! Come mi sentivo leggero!

Il sentimento che le passate vicende mi avevano dato della vita non doveva aver più per me, ormai, ragion d’essere. Io dovevo acquistare un nuovo sentimento della vita, senza avvalermi neppur minimamente della sciagurata esperienza del fu Mattia Pascal.

Stava a me: potevo e dovevo esser l’artefice del mio nuovo destino, nella misura che la Fortuna aveva voluto concedermi.

— E innanzi tutto, — dicevo a me stesso, — avrò cura di questa mia libertà: me la condurrò a spasso per vie piane e sempre nuove, nè le farò mai portare alcuna veste gravosa. Chiuderò gli occhi e passerò oltre appena lo spettacolo della vita in qualche punto mi si presenterà sgradevole. Procurerò di farmela più tosto con le cose che si sogliono chiamare inanimate, e andrò in cerca di belle vedute, di ameni luoghi tranquilli. Mi darò a poco a poco una nuova educazione; mi trasformerò con amoroso e paziente studio, sicchè, alla fine, io possa dire non solo di aver vissuto due vite, ma d’essere stato due uomini.

Già ad Alenga, per cominciare, ero entrato, poche ore prima di partire, da un barbiere, per farmi accorciar la barba: avrei voluto levarmela tutta, lì stesso, insieme coi baffi; ma il timore di far nascere qualche sospetto in quel piccolo paese mi aveva trattenuto.

Il barbiere era anche sartore, vecchio, con le reni quasi ingommate dalla lunga abitudine di star curvo, sempre in una stessa positura, e portava gli occhiali su la punta del naso. Più che barbiere doveva esser sartore. Calò come un flagello di Dio su quella barbaccia che non m’apparteneva più, armato di certi forbicioni da maestro di lana, che avevan bisogno d’esser sorretti in punta con l’altra mano. Non m’arrischiai neppure a fiatare: chiusi gli occhi, e non li riaprii, se non quando mi sentii scuotere pian piano.

Il brav’uomo, tutto sudato, mi porgeva uno specchietto perchè gli sapessi dire se era stato bravo.

Mi parve troppo!

— No, grazie, — mi schermii. — Lo riponga. Non vorrei fargli paura.

Sbarrò tanto d’occhi, e:

— A chi? — domandò.

— Ma a codesto specchietto. Bellino! Dev’essere antico...

Era tondo, col manico d’osso intarsiato: chi sa che storia aveva e donde e come era capitato lì, in quella sarto-barbieria. Ma infine, per non dar dispiacere al padrone, che seguitava a guardarmi stupito, me lo posi sotto gli occhi.

Se era stato bravo!

Intravidi da quel primo scempio qual mostro fra breve sarebbe scappato fuori dalla necessaria e radicale alterazione dei connotati di Mattia Pascal. Ed ecco una nuova ragione d’odio per lui! Il mento piccolissimo, puntato e rientrato, ch’egli aveva nascosto per tanti e tanti anni sotto quel barbone, mi parve un tradimento. Ora avrei dovuto portarlo scoperto, quel cosino ridicolo! E che naso mi aveva lasciato in eredità! E quell’occhio!

— Ah, quest’occhio, — pensai, — così in estasi da un lato, rimarrà sempre suo nella mia nuova faccia! Io non potrò far altro che nasconderlo alla meglio dietro un pajo d’occhiali colorati, che coopereranno, figuriamoci, a rendermi più amabile l’aspetto. Mi farò crescere i capelli e, con questa bella fronte spaziosa, con gli occhiali e tutto raso, sembrerò un filosofo tedesco. Finanziera e cappellaccio a larghe tese.

Non c’era via di mezzo: filosofo dovevo essere per forza con quella razza d’aspetto. Ebbene, pazienza: mi sarei armato d’una discreta filosofia sorridente per passare in mezzo a questa povera umanità, la quale, per quanto avessi in animo di sforzarmi, mi pareva difficile che non dovesse più parermi un po’ ridicola e meschina.

Il nome mi fu quasi offerto in treno, partito da poche ore da Alenga per Torino.

Viaggiavo con due signori che discutevano animatamente d’iconografia cristiana, in cui si dimostravano entrambi molto eruditi, per un ignorante come me.

Uno, il più giovane, dalla faccia pallida, oppressa da una folta e ruvida barba nera, pareva provasse una grande e particolar soddisfazione nell’enunciar la notizia ch’egli diceva antichissima, sostenuta da Giustino Martire, da Tertulliano e da non so chi altri, secondo la quale Cristo sarebbe stato bruttissimo.

Parlava con un vocione cavernoso, che contrastava stranamente con la sua aria da ispirato.

— Ma sì, ma sì, bruttissimo! bruttissimo! Ma anche Cirillo d’Alessandria! Sicuro, Cirillo d’Alessandria arriva finanche ad affermare che Cristo fu il più brutto degli uomini!

L’altro, ch’era un vecchietto magro magro, tranquillo nel suo ascetico squallore, ma pur con una piega a gli angoli della bocca che tradiva la sottile ironia, seduto quasi su la schiena, col collo lungo proteso come sotto un giogo, sosteneva invece che non c’era da fidarsi delle più antiche testimonianze.

— Perchè la Chiesa, nei primi secoli, tutta volta a consustanziarsi la dottrina e lo spirito del suo ispiratore, si dava poco pensiero, ecco, poco pensiero delle sembianze corporee di lui.

A un certo punto vennero a parlare della Veronica e di due statue della città di Paneade, credute immagini di Cristo e della emorroissa.

— Ma sì! — scattò il giovane barbuto. — Ma se non c’è più dubbio ormai! Quelle due statue rappresentano l’imperatore Adriano con la città inginocchiata ai piedi.

Il vecchietto seguitava a sostener pacificamente la sua opinione, che doveva esser contraria, perchè quell’altro, incrollabile, guardando me, s’ostinava a ripetere:

— Adriano!

— ...Beroníke, in greco. Da Beroníke poi: Veronica...

— Adriano! (a me).

— Oppure, Veronica, vera icon: storpiatura probabilissima...

— Adriano! (a me).

— Perchè la Beroníke degli Atti di Pilato...

— Adriano!

Ripetè così Adriano! non so più quante volte, sempre con gli occhi rivolti a me.

Quando scesero entrambi a una stazione e mi lasciarono solo nello scompartimento, m’affacciai al finestrino, per seguirli con gli occhi: discutevano ancora, allontanandosi.

A un certo punto però il vecchietto perdette la pazienza e prese la corsa.

— Chi lo dice? — gli domandò forte il giovane, fermo, con aria di sfida.

Quegli allora si voltò per gridargli:

— Camillo De Meis!

Mi parve che anche lui gridasse a me quel nome, a me che stavo intanto a ripetere meccanicamente: — Adriano... — Buttai subito via quel de e ritenni il Meis.

— Adriano Meis! Sì... Adriano Meis: suona bene...

Mi parve anche che questo nome quadrasse bene alla faccia sbarbata e con gli occhiali, ai capelli lunghi, al cappellaccio alla finanziera che avrei dovuto portare.

— Adriano Meis. Benone! M’hanno battezzato.

Recisa di netto ogni memoria in me della vita precedente, fermato l’animo alla deliberazione di ricominciare da quel punto una nuova vita, io era invaso e sollevato come da una fresca letizia infantile; mi sentivo come rifatta vergine e trasparente la coscienza, e lo spirito vigile e pronto a trar profitto di tutto per la costruzione del mio nuovo io. Intanto l’anima mi tumultuava nella gioja di quella nuova libertà. Non avevo mai veduto così uomini e cose; l’aria tra essi e me s’era d’un tratto quasi snebbiata; e mi si presentavan facili e lievi le nuove relazioni che dovevano stabilirsi tra noi, poichè ben poco ormai io avrei avuto bisogno di chieder loro per il mio intimo compiacimento. Oh levità deliziosa dell’anima; serena, ineffabile ebbrezza! La fortuna mi aveva sciolto di ogni intrico, all’improvviso, mi aveva sceverato dalla vita comune, reso spettatore estraneo della briga in cui gli altri si dibattevano ancora, e mi ammoniva dentro:

— Vedrai, vedrai com’essa t’apparirà curiosa, ora, a guardarla così da fuori! Ecco là uno che si guasta il fegato e fa arrabbiare un povero vecchietto per sostener che Cristo fu il più brutto degli uomini...

Sorridevo. Mi veniva di sorridere così di tutto e a ogni cosa: a gli alberi della campagna, per esempio, che mi correvano incontro con stranissimi atteggiamenti nella loro fuga illusoria; a le ville sparse qua e là, dove mi piaceva d’immaginar coloni con le gote gonfie per sbuffare contro la nebbia nemica degli olivi o con le braccia levate a pugni chiusi contro il cielo che non voleva mandar acqua: e sorridevo a gli uccelletti che si sbandavano, spaventati da quel coso nero che correva per la campagna, fragoroso; all’ondeggiar dei fili telegrafici, per cui passavano certe notizie ai giornali, come quella da Miragno del mio suicidio nel molino della Stia; alle povere mogli dei cantonieri che presentavan la bandieruola arrotolata, gravide e col cappello del marito in capo.

Se non che, a un certo punto, mi cadde lo sguardo su l’anellino di fede che mi stringeva ancora l’anulare della mano sinistra. Ne ricevetti una scossa violentissima: strizzai gli occhi e mi strinsi la mano con l’altra mano, tentando di strapparmi quel cerchietto d’oro, così, di nascosto, per non vederlo più. Pensai ch’esso si apriva e che, internamente, vi erano incisi due nomi: Mattia-Romilda, e la data del matrimonio. Che dovevo farne?

Aprii gli occhi e rimasi un pezzo, accigliato, a contemplarlo nella palma della mano.

Tutto, attorno, mi s’era rifatto nero.

Ecco ancora un resto della catena che mi legava al passato! Piccolo anello, lieve per sè, eppur così pesante! Ma la catena era già spezzata, e dunque via anche quell’ultimo anello!

Feci per buttarlo dal finestrino, ma mi trattenni. Favorito così eccezionalmente dal caso, io non potevo più fidarmi di esso; tutto ormai dovevo creder possibile, finanche questo: che un anellino buttato nell’aperta campagna, trovato per combinazione da un contadino, passando di mano in mano, con quei due nomi incisi internamente e la data, facesse scoprir la verità, che l’annegato della Stia cioè non era il bibliotecario Mattia Pascal.

— No, no, — pensai, — in luogo più sicuro.... Ma dove?

Il treno, in quella, si fermò a un’altra stazione. Guardai, e subito mi sorse un pensiero, per la cui attuazione provai dapprima un certo ritegno. Lo dico, perchè mi serva di scusa presso coloro che amano il bel gesto, gente poco riflessiva, alla quale piace di non ricordarsi che l’umanità è pure oppressa da certi bisogni, a cui purtroppo deve obbedire anche chi sia compreso da un profondo cordoglio. Cesare, Napoleone e, per quanto possa parere indegno, anche la donna più bella.... Basta. Da una parte c’era scritto Uomini e dall’altra Donne; e lì intombai il mio anellino di fede.


Quindi, non tanto per distrarmi, quanto per cercar di dare una certa consistenza a quella mia nuova vita campata nel vuoto, mi misi a pensare ad Adriano Meis, a immaginargli un passato, a domandarmi chi fu mio padre, dov’ero nato, ecc. — posatamente, sforzandomi di vedere e di fissar bene tutto, nelle più minute particolarità.

Ero figlio unico: su questo mi pareva che non ci fosse da discutere.

— Più unico di così... Eppure no! Chi sa quanti sono come me, nella mia stessa condizione, fratelli miei. Si lascia il cappello e la giacca, con una lettera in tasca, sul parapetto d’un ponte, su un fiume; e poi, invece di buttarsi giù, si va via tranquillamente, in America o altrove. Si pesca dopo alcuni giorni un cadavere irriconoscibile: sarà quello de la lettera lasciata sul parapetto del ponte. E non se ne parla più! E vero che io non ci ho messo la mia volontà: nè lettera, nè giacca, nè cappello... Ma son pure come loro, con questo di più: che posso godermi senza alcun rimorso la mia libertà. Han voluto regalarmela, e dunque...

Dunque diciamo figlio unico. Nato... — sarebbe prudente non precisare alcun luogo di nascita. Come si fa? Non si può nascer mica su le nuvole, levatrice la luna, quantunque in biblioteca abbia letto che gli antichi, fra tanti altri mestieri, le facessero esercitare anche questo, e le donne incinte la chiamassero in soccorso col nome di Lucina.

Su le nuvole, no; ma su un piroscafo, sì, per esempio, si può nascere. Ecco, benone! nato in viaggio. I miei genitori viaggiavano... per farmi nascere su un piroscafo. Via, via, sul serio! Una ragione plausibile per mettere in viaggio una donna incinta, prossima a partorire... Oh che fossero andati in America i miei genitori? Perchè no? Ci vanno tanti... Anche Mattia Pascal, poveretto, voleva andarci. E allora queste ottantadue mila lire diciamo che le guadagnò mio padre, là in America? Ma che! Con ottantadue mila lire in tasca, avrebbe aspettato, prima, che la moglie mettesse al mondo il figliuolo, comodamente, in terraferma. E poi, baje! Ottantadue mila lire un emigrato non le guadagna più così facilmente in America. Mio padre... — a proposito, come si chiamava? Paolo. Sì: Paolo Meis. Mio padre, Paolo Meis, s’era illuso, come tanti altri. Aveva stentato tre, quattr’anni; poi, avvilito, aveva scritto da Buenos-Aires una lettera al nonno...

Ah, un nonno, un nonno io volevo proprio averlo conosciuto, un caro vecchietto, per esempio, come quello ch’era sceso testè dal treno, studioso d’iconografia cristiana.

Misteriosi capricci della fantasia! Per quale inesplicabile bisogno e donde mi veniva d’immaginare in quel momento mio padre, quel Paolo Meis, come uno scavezzacollo? Ecco, sì, egli aveva dato tanti dispiaceri al nonno: aveva sposato contro la volontà di lui e se n’era scappato in America. Doveva forse sostenere anche lui che Cristo era bruttissimo. E brutto davvero e sdegnato l’aveva veduto là, in America, se con la moglie lì lì per partorire, appena ricevuto il soccorso dal nonno, se n’era venuto via.

Ma perchè proprio in viaggio dovevo esser nato io? Non sarebbe stato meglio nascere addirittura in America, nell’Argentina, pochi mesi prima del ritorno in patria de’ miei genitori? Ma sì! Anzi il nonno s’era intenerito per il nipotino innocente; per me, unicamente per me aveva perdonato il figliuolo. Così io, piccino piccino, avevo traversato l’Oceano, e forse in terza classe, e durante il viaggio avevo preso una bronchite e per miracolo non ero morto. Benone! Me lo diceva sempre il nonno. Io però non dovevo rimpiangere come comunemente si suol fare, di non esser morto, allora di pochi mesi. No: perchè, in fondo, che dolori avevo sofferto io, in vita mia? Uno solo, per dire la verità: quello de la morte del povero nonno, col quale ero cresciuto. Mio padre, Paolo Meis, scapato e insofferente di giogo, era fuggito via di nuovo in America, dopo alcuni mesi, lasciando la moglie e me col nonno; e là era morto di febbre gialla. A tre anni, io ero rimasto orfano anche di madre, e senza memoria perciò de’ miei genitori; solo con queste scarse notizie di loro. Ma c’era di più! Non sapevo neppure con precisione il mio luogo di nascita. Nell’Argentina, va bene! Ma dove? Il nonno lo ignorava, perchè mio padre non gliel’aveva mai detto o perchè se n’era dimenticato, e io non potevo certamente ricordarmelo.

Riassumendo:

a) figlio unico di Paolo Meis; b) nato in America nell’Argentina, senz’altra designazione; c) venuto in Italia di pochi mesi (bronchite); d) senza memoria nè quasi notizia dei genitori; e) cresciuto col nonno.

Dove? Un po’ da per tutto. Prima a Nizza. Memorie confuse: Piazza Massena, la Promenade, Avenue de la Gare... Poi, a Torino.

Ecco, ci andavo adesso, e mi proponevo tante cose: mi proponevo di scegliere una via e una casa, dove il nonno mi aveva lasciato fino all’età di dieci anni, affidato alle cure di una famiglia che avrei immaginato lì, sul posto, perchè avesse tutti i caratteri del luogo; mi proponevo di vivere, o meglio d’inseguire con la fantasia, lì, su la realtà, la vita d’Adriano Meis piccino.


mercoledì 19 giugno 2024

Versi e Petali, le poesie dedicate ai fiori

I fiori con la loro bellezza, la loro eleganza e il loro profumo sono da sempre protagonisti di pagine di letteratura e poesia memorabili. Con l'inizio di marzo e la primavera alle porte, da oggi a cadenza settimanale fino all'inizio dell'estate vi proporrò una nuova rubrica, Versi e Petali, dove pubblicherò poesie del passato in cui i fiori sono protagonisti.

Foto di Annie Spratt su Unsplash

Cominciamo con un sonetto di Lorenzo il Magnifico incentrato sulle viole, un componimento che si inserisce perfettamente nel petrarchismo quattrocentesco sia per stile sia per tematica:

Belle, fresche e purpuree viole

Che quella candidissima man colse,

Qual pioggia o qual puro aer produr volse

Tanto più vaghi fior che far non suole?

Qual rugiada, qual terra, ovver qual sole

Tante vaghe bellezze in vol raccolse?

Onde il soave odor natura tolse

O il ciel ch’a tanto ben degnar ne vuole?

Care mie violette, quella mano

Che v’elesse tra l’altre, ov’eri, in sorte,

V’ha di tante eccellenze e pregio ornate;

Quella che il cor mi tolse, e di villano

Lo fe gentile, a cui siate consorte;

Quella adunque, e non altre, ringraziate.

La seconda poesia che vi propongo è Il biancospino di Umberto Saba, che con versi cristallini descrive la fioritura di questo magnifico fiore:

Di marzo per la via

della fontana

la siepe s’è svegliata

tutta bianca,

ma non è neve,

quella: è biancospino

tremulo ai primi

soffi del mattino.

Terzo appuntamento con un classico della poesia italiana, Il gelsomino notturno di Giovanni Pascoli.

Il gelsomino notturno

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.
Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento…
è l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

In questa rassegna non poteva mancare una filastrocca. Ecco una famosa poesia di Gianni Rodari, Teste Fiorite.

Se invece dei capelli sulla testa
ci spuntassero i fiori, sai che festa?
Si potrebbe capire a prima vista
chi ha il cuore buono, chi la menta trista.
Il tale ha in fronte un bel ciuffo di rose:
non può certo pensare a brutte cose.
Quest’altro, poveraccio, è d’umor nero:
gli crescono le viole del pensiero.
E quello con le ortiche spettinate?
Deve avere le idee disordinate,
e invano ogni mattina
spreca un vasetto o due di brillantina.

Mario Luzi ha dedicato una poesia al giacinto.

Vibra il cielo, il giacinto effuso cade
fra le brune pareti, l'aria spira
nelle vesti, una nube mi pervade,
quale insidiosa presenza respira?

Una rara vertigine è passata
sulla fronte, ecco, un fuoco vivo piove
fuso con l'ombra quieta e animata,
un'essenza invisibile si muove.

Ah sei tu che hai sfiorato lesta il cielo
della sera. Così se una figura
sparisce in una porta, spazia un gelo
di morte ed una lucida paura.

Sei passata di là dove la rondine
s'awenta nella via, un piede romito
rompe il velo di luce sopra il lastrico,
chiama il buio, dilegua nell'udito.

Torno con Giovanni Pascoli, che ha scritto numerose poesie dedicate ai fiori. Ecco la coloratissima Pervinca

So perchè sempre ad un pensier di cielo
misterïoso il tuo pensier s’avvinca,
sì come stelo tu confondi a stelo,
vinca pervinca:

io ti coglieva sotto i vecchi tronchi
nella foresta d’un convento oscura,
o presso l’arche, tra vilucchi e bronchi,
lungo la mura.

Solo tra l’arche errava un cappuccino;
pareva spettro da quell’arche uscito,
bianco la barba e gli occhi d’un turchino
vuoto, infinito;

come il tuo fiore: e io credea vedere
occhi di cielo, dallo sguardo fiso,
d’anacoreti, allo svoltar, tra nere
ombre, improvviso;

e il bosco alzava, al palpito del vento,
una confusa e morta salmodia,
mentre squillava, grave, dal convento
l’avemaria.

Una delle poesie più famose della letteratura italiana. Non poteva mancare in questa rassegna La ginestra di Giacomo Leopardi, di cui riporto la prima parte.

Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’ mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
E’ il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.

Un'altra filastrocca, questa volta di Trilussa, con la margherita:

Una bella margherita
Che fioriva in mezzo a un prato
Fu acciaccata da un serpente
Da un serpente avvelenato.
“Si sapessi – disse er fiore –
Tutto er male che fai!
E er dolore che me dai
Quanta gente lo risente!
Certamente nu’ lo sai!
Ogni donna innammorata
Che vò legge’ la furtuna,
Ner vedemme m’ariccoje
Pe’ decide da le foje,
Che me strappa una a una
S’è infelice o affurtunata:
E vò vedè se l’amore
Se conserva sempre eguale
E me chiede se l’amante
Je vò bene o je vò male…
Io, pe’ falla più felice,
Pe’ levalla da le pene,
Fò der tutto che la foja
Che je dice. Me vò bene
Sai quell’urtima che sfoja.
Dove c’è la margherita
C’è er bòn core e la speranza,
C’è la fede, c’è l’amore
Ch’è er più bello de la vita…”
Ogni fiore a ‘ste parole
Rispettoso la guardò,
E perfino er girasole
Piantò er sole e s’inchinò.

Con l'inizio di maggio, mese delle rose, vi propongo una serie di poesie su questo bellissimo fiore. Partiamo con un sonetto di Francesco Petrarca, in cui un vecchio saggio regala a Laura e al poeta due rose, definendoli una coppia superba. Nell'animo del poeta, rimane un nonsochè di inquietudine e ansia...

Due rose fresche, et colte in paradiso
l’altrier, nascendo il dí primo di maggio,
bel dono, et d’un amante antiquo et saggio,
tra duo minori egualmente diviso

con sí dolce parlar et con un riso
da far innamorare un huom selvaggio,
di sfavillante et amoroso raggio
et l’un et l’altro fe’ cangiare il viso.

- Non vede un simil par d’amanti il sole -
dicea, ridendo et sospirando inseme;
et stringendo ambedue, volgeasi a torno.

Cosí partia le rose et le parole,
onde ’l cor lasso anchor s’allegra et teme:
o felice eloquentia, o lieto giorno!

Ecco i versi seicenteschi e classici di Riso di bella donna di Gabriello Chiabrera, in cui i fiori vengono paragonati al sorriso dell'amata.

Belle rose porporine,
Che tra spine
Sull’Aurora non aprite;
Ma ministre degli Amori
Bei tesori
Di bei denti custodite:
Dite, rose prezïose,
Amorose;
Dite, ond’è, che s’io m’affiso
Nel bel guardo vivo ardente,
Voi repente
Disciogliete un bel sorriso?
È ciò forse per aita
Di mia vita,
Che non regge alle vostr’ire?
O pur è, perchè voi siete
Tutte liete,
Me mirando in sul morire?
Belle rose, o feritate,
O pietate
Del sì far la cagion sia,
Io vo’ dire in nuovi modi
Vostre lodi,
Ma ridete tuttavia.
Se bel rio, se bell’auretta
Tra l’erbetta
Sul mattin mormorando erra;
Se di fiori un praticello
Si fa bello,
Noi diciam: ride la terra.
Quando avvien che un zefiretto
Per diletto
Bagni il piè nell’onde chiare,
Sicchè l’acqua in sull’arena
Scherzi appena,
Noi diciam che ride il mare.
Se giammai tra fior vermigli,
Se tra gigli
Veste l’Alba un aureo velo;
E su rote di zaffiro
Move in giro,
Noi diciam che ride il cielo.
Ben è ver quando è giocondo
Ride il mondo,
Ride il ciel quando è giojoso,
Ben è ver; ma non san poi
Come voi
Fare un riso grazïoso.

Torniamo all'Umanesimo, con questa famosa poesia di Angelo Poliziano. Nella ballata, una fanciulla raccoglie in un giardino diversi fiori, tra cui le rose, simbolo d'amore. Tra le tematiche della poesia, quello di cogliere l'attimo, uno dei principali del secondo umanesimo.

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino.

Eran d'intorno violette e gigli
fra l'erba verde, e vaghi fior novelli
azzurri gialli candidi e vermigli:
ond'io porsi la mano a côr di quelli
per adornar e' mie' biondi capelli
e cinger di grillanda el vago crino.

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino.

Ma poi ch'i' ebbi pien di fiori un lembo,
vidi le rose e non pur d'un colore:
io colsi allor per empir tutto el grembo,
perch'era sì soave il loro odore
che tutto mi senti' destar el core
di dolce voglia e d'un piacer divino.

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino.

I' posi mente: quelle rose allora
mai non vi potre' dir quant'eran belle;
quale scoppiava della boccia ancora;
qual'eron un po' passe e qual novelle.
Amor mi disse allor: «Va', co' di quelle
che più vedi fiorite in sullo spino».

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino.

Quando la rosa ogni suo' foglia spande,
quando è più bella, quando è più gradita,
allora è buona a metter in ghirlande,
prima che sua bellezza sia fuggita:
sicché fanciulle, mentre è più fiorita,
cogliàn la bella rosa del giardino.

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino.

Ecco una bellissima poesia di Sibilla Aleramo.

Eccoci!
Facci posto,
oh sole! 
A noi due
e ad una rosa.
Fra il mio seno
e il petto forte che amo,
sta una rosa,
sola.
Oh sole,
la rosa vuol morire,
e noi
vogliam la sua agonia
tutta con nostra gioia
consacrare.
Facci posto!
Ecco,
insieme avvinti,
che la rosa non cada,
guizziamo nella tua zona,
nudi lunghi,
a terra,
avvinghiati,
e la rosa
non ti sente,
ma noi 
ma noi
da te percorsi
meravigliamo
come una lunga landa
che il tuo raggio
mai prima
conosciuto avesse.
Interi ci percorri,
solo la rosa
non ti sente,
fra il madore del mio seno
e il calore dolce
del petto che amo.
Grande aperta rosea,
si sente morire.
si sente felice,
si sfoglia,
ogni foglia
rorida molle,
vagola,
ci bacia,
premuta,
bruciata,
oh sole che ci accogli!

Ecco una poesia d'amore di Dino Campana.

In un momento
sono sfiorite le rose
i petali caduti
perché io non potevo dimenticare le rose
le cercavamo insieme
abbiamo trovato delle rose
erano le sue rose erano le mie rose
questo viaggio chiamavamo amore
col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
che brillavano un momento al sole del mattino
le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
le rose che non erano nostre rose
le mie rose le sue rose
P.S. E così dimenticammo le rose.  

In una mondo in cui ci si sente fragili, può esserci qualcuno in cui riporre la speranza di tenere insieme la nostra vita, dandole un senso. Questo è il significato di questa poesia di Eugenio Montale:

Il fiore che ripete
dall'orlo del burrato
non scordarti di me,
non ha tinte più liete né più chiare
dello spazio gettato tra me e te.
Un cigolìo si sferra, ci discosta,
l'azzurro pervicace non ricompare.
Nell'afa quasi visibile mi riporta all'opposta
tappa, già buia, la funicolare.

Ecco una poesia dedicata a una delle piante più care al mondo dell'arte, l'acanto, che fiorisce tra maggio e giugno, con le sue corolle eleganti. A descrivere il fiore è Giovanni Pascoli, che spiega come questo sia sdegnato dall'ape comune e preferito invece dall'ape legnaiola.

Fiore di carta rigida, dentato
i petali di fini aghi, che snello
sorgi dal cespo, come un serpe alato
da un capitello;

fiore che ringhi dai diritti scapi
con bocche tue di piccoli ippogrifi;
fior del Poeta! industria te d'api
schifa, e tu schifi.

L'ape te sdegna, piccola e regale;
ma spesso io vidi l'ape legnaiola
celare il corpo che riluce, quale
nera viola,

dentro il tuo duro calice, e rapirti
non so che buono, che da te pur viene
come le viti di tra i sassi e i mirti
di tra l'arene.

Lo sa la figlia del pastor, che vuoto
un legno fende e lieta pasce quanto
miele le giova: il tuo ne

E infine, ecco il girasole di Eugenio Montale.

Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.



lunedì 17 giugno 2024

18 giugno 1552, nasce Gabriello Chiabrera

 Oggi, nel giorno della sua nascita, vorrei ricordare un poeta ormai poco conosciuto e studiato ma che è stato un grande riformatore e sperimentatore, apprezzato da moltissimi autori successivi. Si tratta di Gabriello Chiabrera, nato a Savona il 18 giugno 1552.

Di famiglia aristocratica, visse a stretto contatto con la nobiltà del suo tempo e scrisse numerose opere entrate a far parte del patrimonio letterario italiano. Cantore della grecità e di quello che verrà poi definito come classicismo barocco, fu spesso contrapposto a Giambattista Marino, icona del Barocco.

Gran parte dell'attività poetica del Chiabrera nasce dalla volontà di arricchire la poesia italiana di metri e di forme nuove rispetto al canone petrarchista del Cinquecento, guardando principalmente alla metrica della poesia classica greca e latina, e a un volgare non strettamente petrarchesco. Le forme metriche inventate da Chiabrera saranno imprescindibili per gli sviluppi della futura poesia italiana venendosi ad affiancare a quelle già consacrate dal Rinascimento.

Si è cimentato in tantissimi generi letterari ma è riuscito bene in quelli che Leopardi definisce «bellissimi abbozzi»: poesie più brevi spesso di argomento naturalistico. Le sue opere furono molto apprezzate dallo stesso Leopardi (ricordiamo la poesia Il risorgimento dal chiaro rimando alla metrica di Chiabrera), ma anche da altri grandi, come Parini, Foscolo e Carducci che lo indicavano soprattutto come maestro di stile, avendo aperto una nuova strada per la poesia italiana. 

Del resto, Chiabrera vive nel periodo del Barocco, il secolo dell’ingegno, della meraviglia, dell’incertezza e del dubbio, dove la ricerca della bellezza diventa quasi preponderante. E la bellezza è tutta cercata nella forma non nel contenuto, guardando sempre al buon gusto, al limite, all'armonia. 


Sono innumerevoli le opere che potevo segnalare tra quelle scritte da Chiabrera. Alla fine ho scelto l'inizio di un libretto d'opera, l'Orfeo dolente, visto che ho studiato questo genere per la mia tesi:

Nume d’abisso, numi

dell’infernal soggiorno,

ecco ch’a voi ritorno

con lagrimosi fiumi.

È ver ch’a vostra legge

io poco intento attesi,

e follemente errai:

ma non vi vilipesi;

fu sol che troppo amai.

Di seguito la poesia Vaneggia.

Vaghi rai di ciglia ardenti,

Più lucenti,

Che del Sol non sono i rai;

Vinti alfin dalla pietate,

Mi mirate,

Vaghi rai, che tanto amai.


Mi mirate, raggi ardenti,

Più lucenti,

Che del Sol non sono i rai;

E dal cor traete fuore

Il dolore,

E l’angoscia de’ miei guai.


Vaghi raggi, or che ‘l vedete,

Che scorgete

Nel profondo del mio seno ?

Ivi sol per voi si vede

Pura fede,

Pura fiamma, ond’egli è pieno.


Già tra pianti, tra sospiri,

Tra martìri

L’arder mio tanto affermai;

E voi pur lasciaste al vento

Ogni accento,

Vaghi rai, che tanto amai.


Ora è vano ogni martìro:

S’io sospiro,

Il seren vostro turbate;

L’arder mio pur non credete,

Ma ‘l vedete

Vinti al fin dalla pietate.


O per me gioconda luce,

Che m’adduce

Del mio cor la pace intera;

Sia tranquilla in suo cammino

Sul mattino,

Sia tranquilla in su la sera.


Infra i dì sereni e belli

Ei s’appelli

Il più bel di ciascun mese:

Ogni musa a dargli vanto

Di bel canto

Ad ogn’or gli sia cortese.


E voi prego, lumi ardenti,

Più lucenti,

Che del Sol non sono i rai:

Di più foco, ov’ei ritorni,

Siate adorni,

Vaghi rai, che tanto amai.


sabato 15 giugno 2024

Peritas, il cane di Alessandro Magno

 Come già sapete, il mio secondo romanzo si intitola Peritas (ve ne ho già parlato qui: Peritas, Il personaggio di Olimpiade). Ma chi era Peritas? Peritas era il cane di Alessandro Magno

Il nome (in greco antico: Περίτας) potrebbe essere tradotto, dall'antica lingua dei macedoni, "gennaio". Il cucciolo, secondo alcuni storici, venne, infatti, donato al condottiero dallo zio, Alessandro I d’Epiro, nel mese di gennaio.

Le fonti che narrano del cane dal punto di vista storico sono poche e principalmente due, che hanno scritto a riguardo molti secoli dopo: si tratta di Plutarco e Plinio il Vecchio.

Alessandro era molto affezionato al suo cane e lo portava con sé anche durante le battaglie. Peritas morì, secondo alcune narrazioni, nel 331 a.C. nel corso di una battaglia cruciale contro i Persiani di Dario III, salvando il suo padrone dall'attacco di un elefante, mordendo il pachiderma sulle labbra, l’unico punto scoperto e sensibile dell’animale. Alte leggende ritengono invece che il cane morì tra le braccia del padrone, dopo averlo salvato da un’arma appuntita lanciata da un soldato nemico.  In suo onere il guerriero fondò una città, in una zona in prossimità del fiume e dell’omonima città di Jehlum, in un territorio che comprende parte degli odierni India e Pakistan. Questa è versione che ho preso in considerazione in una scena del mio romanzo. Secondo altri, morì di vecchiaia.

Non si sa a quale razza appartenesse Peritas. Per questo argomento, le ipotesi principali sono due. La prima è che fosse un molossoide l'altra che fosse di una razza più simile al levriero, più agile e veloce e adatta a seguire il padrone in battaglia. A favore di questa tesi, il fatto che nel sarcofago di Alessandro, opera ellenistica del tardo IV secolo a.C. ora a Istambul, viene ritratto il macedone che cavalca Bucefalo e subito sotto c'è un cane simile a un levriero, presumibilmente Peritas. Inoltre, nel Mosaico della caccia al cervo della reggia argeade di Pella è ritratto un cane, ritenuto da alcuni studiosi proprio Peritas, con fattezze simili al canis laconicus, antica razza di cane da caccia molto apprezzata ed utilizzata dagli antichi greci e più simile a un levriero. Per ritrarre Peritas, ho scelto la seconda ipotesi, perché mi sembrava più plausibile che un cane al seguito di guerrieri a cavallo fosse tenace e veloce.


Peritas di Ilia Camilla Muzio

Peritas (qui il link Amazon) è un romanzo fantasy, o meglio fantastico, che unisce diversi fattori: personaggi storici e storia antica, profezie, archeologia, elementi esoterici, simboli arcaici e molto altro ancora. 

Ecco, in breve, la trama. 

Un’antiquaria riceve da un amico un dono inconsueto: un reperto in marmo raffigurante la stella degli Argeadi, emblema della famiglia di Alessandro Magno. La donna, appassionata da sempre dalla figura del condottiero, ipotizza che la pietra faccia parte della tomba del macedone e decide di andare alla sua ricerca, recandosi nel luogo dove l’oggetto è stato rinvenuto. Trova però sulla sua strada uno strano individuo che cerca di ostacolarla. Nel suo viaggio, tra antiche profezie e prove che metteranno a rischio la sua vita, ad aiutarla ci saranno gli amici che conoscerà nel suo cammino e un misterioso cane.


lunedì 10 giugno 2024

11 giugno 1184 a.C.: Troia viene saccheggiata e bruciata, secondo Eratostene

 Oggi, 11 giugno, ricorre l'anniversario, secondo quanto riportato dallo studioso Eratostene di Cirene, del saccheggio e dell'incendio di Troia che ha posto fine al lungo conflitto tra Troiani e Achei.

Nella mitologia greca, la guerra di Troia fu un sanguinoso scontro combattuto tra gli Achei e la potente città di Troia, presumibilmente attorno al 1250 a.C. o tra il 1194 a.C. e il 1184 a.C. circa, nell'Asia minore.

Gli eventi del conflitto sono noti principalmente attraverso i poemi epici Iliade ed Odissea attribuiti ad Omero, composti intorno al IX secolo a.C. 

È ancora oggetto di studi la questione della veridicità storica degli avvenimenti del conflitto. Alcuni studiosi pensano che vi sia un fondo di verità dietro i poemi, altri pensano questi ultimi raggruppino in un unico conflitto le vicende di guerre e assedi diversi succedutisi nel periodo della civiltà micenea.

Le due opere hanno comunque reso possibile la scoperta delle presumibili mura di Troia, collocando cronologicamente la guerra verso la fine dell'età del bronzo, intorno al 1300 - 1200 a.C., in parte confermando la datazione di Eratostene.


Riporto uno dei passi più belli e commoventi dell'Iliade, l'incontro tra Priamo e Achille:

Senza esser visto, giunse qui Priamo; e, fattosi presso,

strinse, abbracciò le ginocchia d’Achille, le mani omicide,

terribili baciò, che trafitti gli avean tanti figli.

Come allorché sopra un uomo s’abbatte la grave sciagura,

che in patria un uomo uccise, che giunge fra genti straniere,

presso un possente signore: lo guardano tutti stupiti:

similemente Achille stupí, come Priamo vide.

Stupirono anche i due, guardandosi l’uno con l’altro.

E Priamo, ad Achille parlando, cosí favellava:

«Del padre tuo ricordati, Achille simile ai Numi,

annoso al par di me, su la soglia di trista vecchiezza;

ed i vicini, forse, che intorno gli stanno, anche lui

crucciano, e alcuno non v’è che allontani da lui la sciagura.

Ma pure, quegli, udendo parlare di te che sei vivo,

certo s’allegra nel cuore, sperando, ogni giorno che spunta

di rivedere il figlio diletto che torni da Troia,

lo non ho che sventure: ché tanti valenti figliuoli

ho generato in Troia, né alcuno più vivo mi resta.

Cinquanta, io, si, n’avea, quando giunsero i figli d’Acaia,

che dieci e nove a me nati eran dal grembo d’Ecùba,

avean gli altri le donne concetti nell’alto palagio.

Ai più di loro, Marte feroce fiaccò le ginocchia:

quello ch’era da solo presidio alla rocca e a noi tutti,

tu l’uccidesti or ora, mentre ei combattea per la patria,

Ettore: ed ora io vengo d’Acaia alle navi per lui,

per riscattarlo da te, recandoti doni infiniti.

Achille, abbi rispetto dei Numi, ricorda tuo padre,

abbi di me compassione: di lui molto più n’ho bisogno,

ché io patito ho quanto niun altri patì dei mortali,

io che alle labbra appressai la mano che il figlio m’uccise».

Cosí disse. E una brama gl’infuse di pianger pel padre.

La man gli prese, e il vecchio da sé dolcemente respinse.

E, nei ricordi immersi, l’uno Ettore prode piangeva

dirottamente, steso dinanzi ai piedi d’Achille:

ed il Pelide anch’egli piangeva, or pensando a suo padre,

ora a Pàtroclo; e tutta suonava di pianto la casa.

Ma poscia, quando Achille divino fu sazio di pianto,

e via dal seno, via dalle membra ne sparve la brama,

presto balzò dal seggio, levò di sua mano il vegliardo,

ch’ebbe pietà del capo canuto, del mento canuto,

e a lui si volse, queste veloci parole gli disse:

«O poveretto, molti dolori ha patito il tuo cuore.

Ma come, dunque, solo venire, alle navi d’Acaia

osasti ora, al cospetto dell’uomo che tanti tuoi figli

trafisse, e tanto prodi? Davvero, il tuo cuore è di ferro!

Ma via, su questo trono siedi ora, e, per quanto crucciato,

lasciamo che la doglia riposi per ora nel seno,

poiché nessun vantaggio deriva dal gelido pianto:

ché ai miseri mortali tal sorte largirono i Numi:

vivere sempre in pena: solo essi son privi d’affanni.

Perché sopra la soglia di Giove son posti due dogli

dei loro doni: due di tristi, ed un terzo è di buoni.

E quegli per cui Giove, del folgore sire, li mischi,

or nella mala sorte s’imbatte, ora poi nella lieta.

Ma quello a cui soltanto largisce i funesti, lo aggrava

d’ogni onta; e cruda fame lo incalza per tutta la terra,

e va randagio, e onore né uomo gli rende, né Nume.

Cosí dièro a Pelèo, da quando egli nacque, i Celesti

fulgidi doni: il primo fra gli uomini egli era: ricchezza

avea, felicità, dei Mirmidoni aveva l’impero,

e a, lui ch’era mortale, concessero sposa una Diva.

Ma il Nume, ai beni un male gli aggiunse: ché a lui nella casa

non nacquero figliuoli che fossero eredi del regno.

Un figlio solo, fuori di tempo, gli nacque, né quando

vecchio sarà, di lui potrà cura avere: ché lungi

a Troia io me ne sto, te vecchio, crucciando, e i tuoi figli.

Ed anche te sappiamo che un giorno eri, o vecchio, felice.

Fra quante genti nutre la sede di Màcare, Lesbo,

e sopra noi la Frigia, col pelago d’Elle infinito,

tu, dicono, eri, o vecchio, per figli e ricchezze beato.

Ora, poiché gli Uranii t’inflissero questa sciagura,

e guerre e stragi hai sempre di genti d’intorno alla rocca,

tollera; e il cuore tuo non affligger di pianto perenne.

Nulla guadagnerai, piangendo il tuo figlio diletto,

non lo resusciterai: chiamerai qualche nuovo malanno».

E a lui Priamo, il sire che un Nume pareva, rispose:

«No, non volere ch’io segga, progenie di Superi, mentre

Ettore giace insepolto vicino alla tenda; ma presto

scioglilo, ché questi occhi lo vedano; e i doni tu accetta,

ch’io t’ho recati, tanti. Goderli tu possa, e alla patria

tua ritornare, poiché compassione di me prima avesti,

si ch’io vivessi, e ancora godessi la luce del sole».

Ma bieco lo guardò, cosí gli rispose il Pelide:

«Vecchio, non fare, adesso, ch’io m’irriti. A scioglier tuo figlio

sono disposto: a me venuta è, mandata da Giove,

la madre mia diletta, la figlia del vecchio del mare.

Ed anche te, so bene, né, Priamo, tu mi deludi,

che qualche Nume t’ha guidato alle navi d’Acaia,

ché non avrebbe osato venire alcun uomo, per quanto

giovane fosse, al campo: sfuggir non poteva alle guardie,

né smover facilmente la sbarra potea della porta.

Non voler dunque, o vecchio, più oltre eccitare il mio cuore;

ché io disobbedire non debba al comando di Giove,

e te scacciar, sebbene tu supplice sei, dalla tenda».

Cosí diceva Achille. E il vecchio obbedí sbigottito.

Ed il Pelide balzò dalla tenda, che parve un leone:

solo non già: ché insieme moveano con lui gli scudieri,

Automedonte, l’eroe, con Àlcimo, ch’erano entrambi

cari su tutti, dopo la morte di Pàtroclo, al sire.

Essi di sotto al giogo disciolser le mule e i cavalli,

condusser nella tenda l’araldo del vecchio sovrano,

lo fecero sedere. Dal carro di solida ruota

tolsero poscia il riscatto ricchissimo d’Ettore. Solo

lasciaron due mantelli, lasciarono un càmice fino,

perché potesse il corpo coprire portandolo a casa.

Quindi, chiamate le ancelle, die’ ordine ch’unto e lavato

fosse; ma lungi: ché Priamo veder non dovesse suo figlio,

ché poi, crucciato in cuore frenar non potesse lo sdegno,

vedendo il figlio, e Achille dovesse a sua volta crucciarsi,

e morte dare al vecchio, frustrare di Giove i comandi.

Or, poi che l’ebber lavato, cosperso con olio le ancelle,

gli ebbero cinto alle membra un manto e una tunica bella,

allora Achille stesso lo prese e sul letto lo pose,

ed i compagni insieme con lui lo portaron sul carro.

E pianse Achille allora, chiamando il compagno diletto:

«Pàtroclo, non adirarti con me, se tu vieni a sapere

anche laggiù nell’Ade, che Ettore simile ai Numi

resi a suo padre; ché dato me n’ha non indegno riscatto.

Anche di questi doni la parte avrai tu che ti spetta».

Così disse. E alla tenda di nuovo tornato, il divino Pelide,

sul trono istoriato sede’ donde prima era surto,

dal Iato opposto a Priamo, cosí favellando al vegliardo:

«Vecchio, tuo figlio è sciolto, cosí come tu pur bramavi,

sopra la bara giace. Diman, come sorga l’aurora,

quando lo porterai, lo vedrai».


sabato 8 giugno 2024

9 giugno, nell'antica Roma si festeggiavano le Vestalia

 Le celebrazioni in onore di Vesta, Dea del focolare, nell'antica Roma si tenevano a giugno, con il culmine nel giorno 9, nel tempio sacro alla dea, dove ardeva il fuoco sacro. 

La festa iniziava il 7 giugno, giorno in cui veniva aperto il penus, il sancta sanctorum del tempio, in cui era custodito anche il Palladio, altri oggetti sacri a Roma e i Penates Populi Romani, e proseguiva fino al 15 del mese, data in cui veniva chiuso. In epoca arcaica questa celebrazione, probabilmente durava un solo giorno, il 9. 

Il periodo dei Vestalia iniziava, quindi con l'apertura della parte più importante del tempio, letteralmente la dispensa della casa di solito tenuta chiusa e nascosta, ma anche il luogo ove la famiglia conservava le statue dei Penates. In questo giorno, a Vesta si sacrificava il libum di farro abbrustolito. Durante i festeggiamenti, le matrone potevano entrare a piedi nudi nella parte esterna del tempio - luogo proibito nel resto dell'anno a tutti ed in particolare agli uomini, con la sola eccezione del Pontifex Maximus - per compiere atti di devozione.

Erano diversi i riti che si effettuavano in questi giorni. Tra questi, il 15 giugno, la pulitura rituale del tempio di Vesta, la purgamina Vestae, al termine della quale la sporcizia accumulatasi sul pavimento veniva gettata nel Tevere e tutto l’edificio veniva purificato con acqua di sorgente. Veniva purificata anche la macina che produceva la “mola salsa” e veniva addobbata con corone di rami e nastri, insieme all’asino che la faceva girare. 


Il fuoco sacro e le Vestali

Il fuoco di Vesta era un simbolo di Roma e della sua eternità. Alla dea sacrificavano i pretori, i consoli e i dittatori, che in lei riconoscevano la protettrice dello Stato. A lei era dedicato anche il focolare domestico che ardeva in ogni casa romana e al quale era legato anche il culto degli antenati.

Le Vestali, le sacerdotesse di Vesta, avevano il compito di custodire il focolare, facendo attenzione ch’esso non si spegnesse mai e restando vergini per evitare d’inquinarlo. A guidarle la Vestale Massima e il Pontefice Massimo, l’unico uomo che avesse autorità maggiore alla loro. Le Vestali avevano un ruolo molto importante nella società romana che concedeva loro una serie di privilegi, come quello di poter gestire liberamente il proprio patrimonio e di fare testamento. Tuttavia, qualora non avessero adempiuto ai loro compiti la punizione era severissima: venivano murate vive in una sorta di camera interrata presso il Campus Sceleratus, con una lucerna, un tozzo di pane e un po’ d’acqua o latte, fino alla morte.


Vesta è uno dei personaggi principali del romanzo fantasy Lo specchio di Giano, pubblicato a fine 2022, mentre sono al lavoro attualmente su un testo che ha al centro le Vestali. Stay tuned!


Lo specchio di Giano e gli oggetti magici: dal lituo alla trottola di Ecate

 Credo che non ci siano romanzi fantasy in cui non compaiano oggetti magici di diversi tipi e con diverse funzioni, dai libri, agli amulet...