Oggi, nel giorno della sua nascita, vorrei ricordare un poeta ormai poco conosciuto e studiato ma che è stato un grande riformatore e sperimentatore, apprezzato da moltissimi autori successivi. Si tratta di Gabriello Chiabrera, nato a Savona il 18 giugno 1552.
Di famiglia aristocratica, visse a stretto contatto con la nobiltà del suo tempo e scrisse numerose opere entrate a far parte del patrimonio letterario italiano. Cantore della grecità e di quello che verrà poi definito come classicismo barocco, fu spesso contrapposto a Giambattista Marino, icona del Barocco.
Gran parte dell'attività poetica del Chiabrera nasce dalla volontà di arricchire la poesia italiana di metri e di forme nuove rispetto al canone petrarchista del Cinquecento, guardando principalmente alla metrica della poesia classica greca e latina, e a un volgare non strettamente petrarchesco. Le forme metriche inventate da Chiabrera saranno imprescindibili per gli sviluppi della futura poesia italiana venendosi ad affiancare a quelle già consacrate dal Rinascimento.
Si è cimentato in tantissimi generi letterari ma è riuscito bene in quelli che Leopardi definisce «bellissimi abbozzi»: poesie più brevi spesso di argomento naturalistico. Le sue opere furono molto apprezzate dallo stesso Leopardi (ricordiamo la poesia Il risorgimento dal chiaro rimando alla metrica di Chiabrera), ma anche da altri grandi, come Parini, Foscolo e Carducci che lo indicavano soprattutto come maestro di stile, avendo aperto una nuova strada per la poesia italiana.
Del resto, Chiabrera vive nel periodo del Barocco, il secolo dell’ingegno, della meraviglia, dell’incertezza e del dubbio, dove la ricerca della bellezza diventa quasi preponderante. E la bellezza è tutta cercata nella forma non nel contenuto, guardando sempre al buon gusto, al limite, all'armonia.
Sono innumerevoli le opere che potevo segnalare tra quelle scritte da Chiabrera. Alla fine ho scelto l'inizio di un libretto d'opera, l'Orfeo dolente, visto che ho studiato questo genere per la mia tesi:
Nume d’abisso, numi
dell’infernal soggiorno,
ecco ch’a voi ritorno
con lagrimosi fiumi.
È ver ch’a vostra legge
io poco intento attesi,
e follemente errai:
ma non vi vilipesi;
fu sol che troppo amai.
Di seguito la poesia Vaneggia.
Vaghi rai di ciglia ardenti,
Più lucenti,
Che del Sol non sono i rai;
Vinti alfin dalla pietate,
Mi mirate,
Vaghi rai, che tanto amai.
Mi mirate, raggi ardenti,
Più lucenti,
Che del Sol non sono i rai;
E dal cor traete fuore
Il dolore,
E l’angoscia de’ miei guai.
Vaghi raggi, or che ‘l vedete,
Che scorgete
Nel profondo del mio seno ?
Ivi sol per voi si vede
Pura fede,
Pura fiamma, ond’egli è pieno.
Già tra pianti, tra sospiri,
Tra martìri
L’arder mio tanto affermai;
E voi pur lasciaste al vento
Ogni accento,
Vaghi rai, che tanto amai.
Ora è vano ogni martìro:
S’io sospiro,
Il seren vostro turbate;
L’arder mio pur non credete,
Ma ‘l vedete
Vinti al fin dalla pietate.
O per me gioconda luce,
Che m’adduce
Del mio cor la pace intera;
Sia tranquilla in suo cammino
Sul mattino,
Sia tranquilla in su la sera.
Infra i dì sereni e belli
Ei s’appelli
Il più bel di ciascun mese:
Ogni musa a dargli vanto
Di bel canto
Ad ogn’or gli sia cortese.
E voi prego, lumi ardenti,
Più lucenti,
Che del Sol non sono i rai:
Di più foco, ov’ei ritorni,
Siate adorni,
Vaghi rai, che tanto amai.
Nessun commento:
Posta un commento