lunedì 10 giugno 2024

11 giugno 1184 a.C.: Troia viene saccheggiata e bruciata, secondo Eratostene

 Oggi, 11 giugno, ricorre l'anniversario, secondo quanto riportato dallo studioso Eratostene di Cirene, del saccheggio e dell'incendio di Troia che ha posto fine al lungo conflitto tra Troiani e Achei.

Nella mitologia greca, la guerra di Troia fu un sanguinoso scontro combattuto tra gli Achei e la potente città di Troia, presumibilmente attorno al 1250 a.C. o tra il 1194 a.C. e il 1184 a.C. circa, nell'Asia minore.

Gli eventi del conflitto sono noti principalmente attraverso i poemi epici Iliade ed Odissea attribuiti ad Omero, composti intorno al IX secolo a.C. 

È ancora oggetto di studi la questione della veridicità storica degli avvenimenti del conflitto. Alcuni studiosi pensano che vi sia un fondo di verità dietro i poemi, altri pensano questi ultimi raggruppino in un unico conflitto le vicende di guerre e assedi diversi succedutisi nel periodo della civiltà micenea.

Le due opere hanno comunque reso possibile la scoperta delle presumibili mura di Troia, collocando cronologicamente la guerra verso la fine dell'età del bronzo, intorno al 1300 - 1200 a.C., in parte confermando la datazione di Eratostene.


Riporto uno dei passi più belli e commoventi dell'Iliade, l'incontro tra Priamo e Achille:

Senza esser visto, giunse qui Priamo; e, fattosi presso,

strinse, abbracciò le ginocchia d’Achille, le mani omicide,

terribili baciò, che trafitti gli avean tanti figli.

Come allorché sopra un uomo s’abbatte la grave sciagura,

che in patria un uomo uccise, che giunge fra genti straniere,

presso un possente signore: lo guardano tutti stupiti:

similemente Achille stupí, come Priamo vide.

Stupirono anche i due, guardandosi l’uno con l’altro.

E Priamo, ad Achille parlando, cosí favellava:

«Del padre tuo ricordati, Achille simile ai Numi,

annoso al par di me, su la soglia di trista vecchiezza;

ed i vicini, forse, che intorno gli stanno, anche lui

crucciano, e alcuno non v’è che allontani da lui la sciagura.

Ma pure, quegli, udendo parlare di te che sei vivo,

certo s’allegra nel cuore, sperando, ogni giorno che spunta

di rivedere il figlio diletto che torni da Troia,

lo non ho che sventure: ché tanti valenti figliuoli

ho generato in Troia, né alcuno più vivo mi resta.

Cinquanta, io, si, n’avea, quando giunsero i figli d’Acaia,

che dieci e nove a me nati eran dal grembo d’Ecùba,

avean gli altri le donne concetti nell’alto palagio.

Ai più di loro, Marte feroce fiaccò le ginocchia:

quello ch’era da solo presidio alla rocca e a noi tutti,

tu l’uccidesti or ora, mentre ei combattea per la patria,

Ettore: ed ora io vengo d’Acaia alle navi per lui,

per riscattarlo da te, recandoti doni infiniti.

Achille, abbi rispetto dei Numi, ricorda tuo padre,

abbi di me compassione: di lui molto più n’ho bisogno,

ché io patito ho quanto niun altri patì dei mortali,

io che alle labbra appressai la mano che il figlio m’uccise».

Cosí disse. E una brama gl’infuse di pianger pel padre.

La man gli prese, e il vecchio da sé dolcemente respinse.

E, nei ricordi immersi, l’uno Ettore prode piangeva

dirottamente, steso dinanzi ai piedi d’Achille:

ed il Pelide anch’egli piangeva, or pensando a suo padre,

ora a Pàtroclo; e tutta suonava di pianto la casa.

Ma poscia, quando Achille divino fu sazio di pianto,

e via dal seno, via dalle membra ne sparve la brama,

presto balzò dal seggio, levò di sua mano il vegliardo,

ch’ebbe pietà del capo canuto, del mento canuto,

e a lui si volse, queste veloci parole gli disse:

«O poveretto, molti dolori ha patito il tuo cuore.

Ma come, dunque, solo venire, alle navi d’Acaia

osasti ora, al cospetto dell’uomo che tanti tuoi figli

trafisse, e tanto prodi? Davvero, il tuo cuore è di ferro!

Ma via, su questo trono siedi ora, e, per quanto crucciato,

lasciamo che la doglia riposi per ora nel seno,

poiché nessun vantaggio deriva dal gelido pianto:

ché ai miseri mortali tal sorte largirono i Numi:

vivere sempre in pena: solo essi son privi d’affanni.

Perché sopra la soglia di Giove son posti due dogli

dei loro doni: due di tristi, ed un terzo è di buoni.

E quegli per cui Giove, del folgore sire, li mischi,

or nella mala sorte s’imbatte, ora poi nella lieta.

Ma quello a cui soltanto largisce i funesti, lo aggrava

d’ogni onta; e cruda fame lo incalza per tutta la terra,

e va randagio, e onore né uomo gli rende, né Nume.

Cosí dièro a Pelèo, da quando egli nacque, i Celesti

fulgidi doni: il primo fra gli uomini egli era: ricchezza

avea, felicità, dei Mirmidoni aveva l’impero,

e a, lui ch’era mortale, concessero sposa una Diva.

Ma il Nume, ai beni un male gli aggiunse: ché a lui nella casa

non nacquero figliuoli che fossero eredi del regno.

Un figlio solo, fuori di tempo, gli nacque, né quando

vecchio sarà, di lui potrà cura avere: ché lungi

a Troia io me ne sto, te vecchio, crucciando, e i tuoi figli.

Ed anche te sappiamo che un giorno eri, o vecchio, felice.

Fra quante genti nutre la sede di Màcare, Lesbo,

e sopra noi la Frigia, col pelago d’Elle infinito,

tu, dicono, eri, o vecchio, per figli e ricchezze beato.

Ora, poiché gli Uranii t’inflissero questa sciagura,

e guerre e stragi hai sempre di genti d’intorno alla rocca,

tollera; e il cuore tuo non affligger di pianto perenne.

Nulla guadagnerai, piangendo il tuo figlio diletto,

non lo resusciterai: chiamerai qualche nuovo malanno».

E a lui Priamo, il sire che un Nume pareva, rispose:

«No, non volere ch’io segga, progenie di Superi, mentre

Ettore giace insepolto vicino alla tenda; ma presto

scioglilo, ché questi occhi lo vedano; e i doni tu accetta,

ch’io t’ho recati, tanti. Goderli tu possa, e alla patria

tua ritornare, poiché compassione di me prima avesti,

si ch’io vivessi, e ancora godessi la luce del sole».

Ma bieco lo guardò, cosí gli rispose il Pelide:

«Vecchio, non fare, adesso, ch’io m’irriti. A scioglier tuo figlio

sono disposto: a me venuta è, mandata da Giove,

la madre mia diletta, la figlia del vecchio del mare.

Ed anche te, so bene, né, Priamo, tu mi deludi,

che qualche Nume t’ha guidato alle navi d’Acaia,

ché non avrebbe osato venire alcun uomo, per quanto

giovane fosse, al campo: sfuggir non poteva alle guardie,

né smover facilmente la sbarra potea della porta.

Non voler dunque, o vecchio, più oltre eccitare il mio cuore;

ché io disobbedire non debba al comando di Giove,

e te scacciar, sebbene tu supplice sei, dalla tenda».

Cosí diceva Achille. E il vecchio obbedí sbigottito.

Ed il Pelide balzò dalla tenda, che parve un leone:

solo non già: ché insieme moveano con lui gli scudieri,

Automedonte, l’eroe, con Àlcimo, ch’erano entrambi

cari su tutti, dopo la morte di Pàtroclo, al sire.

Essi di sotto al giogo disciolser le mule e i cavalli,

condusser nella tenda l’araldo del vecchio sovrano,

lo fecero sedere. Dal carro di solida ruota

tolsero poscia il riscatto ricchissimo d’Ettore. Solo

lasciaron due mantelli, lasciarono un càmice fino,

perché potesse il corpo coprire portandolo a casa.

Quindi, chiamate le ancelle, die’ ordine ch’unto e lavato

fosse; ma lungi: ché Priamo veder non dovesse suo figlio,

ché poi, crucciato in cuore frenar non potesse lo sdegno,

vedendo il figlio, e Achille dovesse a sua volta crucciarsi,

e morte dare al vecchio, frustrare di Giove i comandi.

Or, poi che l’ebber lavato, cosperso con olio le ancelle,

gli ebbero cinto alle membra un manto e una tunica bella,

allora Achille stesso lo prese e sul letto lo pose,

ed i compagni insieme con lui lo portaron sul carro.

E pianse Achille allora, chiamando il compagno diletto:

«Pàtroclo, non adirarti con me, se tu vieni a sapere

anche laggiù nell’Ade, che Ettore simile ai Numi

resi a suo padre; ché dato me n’ha non indegno riscatto.

Anche di questi doni la parte avrai tu che ti spetta».

Così disse. E alla tenda di nuovo tornato, il divino Pelide,

sul trono istoriato sede’ donde prima era surto,

dal Iato opposto a Priamo, cosí favellando al vegliardo:

«Vecchio, tuo figlio è sciolto, cosí come tu pur bramavi,

sopra la bara giace. Diman, come sorga l’aurora,

quando lo porterai, lo vedrai».


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