mercoledì 19 giugno 2024

Versi e Petali, le poesie dedicate ai fiori

I fiori con la loro bellezza, la loro eleganza e il loro profumo sono da sempre protagonisti di pagine di letteratura e poesia memorabili. Con l'inizio di marzo e la primavera alle porte, da oggi a cadenza settimanale fino all'inizio dell'estate vi proporrò una nuova rubrica, Versi e Petali, dove pubblicherò poesie del passato in cui i fiori sono protagonisti.

Foto di Annie Spratt su Unsplash

Cominciamo con un sonetto di Lorenzo il Magnifico incentrato sulle viole, un componimento che si inserisce perfettamente nel petrarchismo quattrocentesco sia per stile sia per tematica:

Belle, fresche e purpuree viole

Che quella candidissima man colse,

Qual pioggia o qual puro aer produr volse

Tanto più vaghi fior che far non suole?

Qual rugiada, qual terra, ovver qual sole

Tante vaghe bellezze in vol raccolse?

Onde il soave odor natura tolse

O il ciel ch’a tanto ben degnar ne vuole?

Care mie violette, quella mano

Che v’elesse tra l’altre, ov’eri, in sorte,

V’ha di tante eccellenze e pregio ornate;

Quella che il cor mi tolse, e di villano

Lo fe gentile, a cui siate consorte;

Quella adunque, e non altre, ringraziate.

La seconda poesia che vi propongo è Il biancospino di Umberto Saba, che con versi cristallini descrive la fioritura di questo magnifico fiore:

Di marzo per la via

della fontana

la siepe s’è svegliata

tutta bianca,

ma non è neve,

quella: è biancospino

tremulo ai primi

soffi del mattino.

Terzo appuntamento con un classico della poesia italiana, Il gelsomino notturno di Giovanni Pascoli.

Il gelsomino notturno

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.
Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento…
è l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

In questa rassegna non poteva mancare una filastrocca. Ecco una famosa poesia di Gianni Rodari, Teste Fiorite.

Se invece dei capelli sulla testa
ci spuntassero i fiori, sai che festa?
Si potrebbe capire a prima vista
chi ha il cuore buono, chi la menta trista.
Il tale ha in fronte un bel ciuffo di rose:
non può certo pensare a brutte cose.
Quest’altro, poveraccio, è d’umor nero:
gli crescono le viole del pensiero.
E quello con le ortiche spettinate?
Deve avere le idee disordinate,
e invano ogni mattina
spreca un vasetto o due di brillantina.

Mario Luzi ha dedicato una poesia al giacinto.

Vibra il cielo, il giacinto effuso cade
fra le brune pareti, l'aria spira
nelle vesti, una nube mi pervade,
quale insidiosa presenza respira?

Una rara vertigine è passata
sulla fronte, ecco, un fuoco vivo piove
fuso con l'ombra quieta e animata,
un'essenza invisibile si muove.

Ah sei tu che hai sfiorato lesta il cielo
della sera. Così se una figura
sparisce in una porta, spazia un gelo
di morte ed una lucida paura.

Sei passata di là dove la rondine
s'awenta nella via, un piede romito
rompe il velo di luce sopra il lastrico,
chiama il buio, dilegua nell'udito.

Torno con Giovanni Pascoli, che ha scritto numerose poesie dedicate ai fiori. Ecco la coloratissima Pervinca

So perchè sempre ad un pensier di cielo
misterïoso il tuo pensier s’avvinca,
sì come stelo tu confondi a stelo,
vinca pervinca:

io ti coglieva sotto i vecchi tronchi
nella foresta d’un convento oscura,
o presso l’arche, tra vilucchi e bronchi,
lungo la mura.

Solo tra l’arche errava un cappuccino;
pareva spettro da quell’arche uscito,
bianco la barba e gli occhi d’un turchino
vuoto, infinito;

come il tuo fiore: e io credea vedere
occhi di cielo, dallo sguardo fiso,
d’anacoreti, allo svoltar, tra nere
ombre, improvviso;

e il bosco alzava, al palpito del vento,
una confusa e morta salmodia,
mentre squillava, grave, dal convento
l’avemaria.

Una delle poesie più famose della letteratura italiana. Non poteva mancare in questa rassegna La ginestra di Giacomo Leopardi, di cui riporto la prima parte.

Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’ mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
E’ il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.

Un'altra filastrocca, questa volta di Trilussa, con la margherita:

Una bella margherita
Che fioriva in mezzo a un prato
Fu acciaccata da un serpente
Da un serpente avvelenato.
“Si sapessi – disse er fiore –
Tutto er male che fai!
E er dolore che me dai
Quanta gente lo risente!
Certamente nu’ lo sai!
Ogni donna innammorata
Che vò legge’ la furtuna,
Ner vedemme m’ariccoje
Pe’ decide da le foje,
Che me strappa una a una
S’è infelice o affurtunata:
E vò vedè se l’amore
Se conserva sempre eguale
E me chiede se l’amante
Je vò bene o je vò male…
Io, pe’ falla più felice,
Pe’ levalla da le pene,
Fò der tutto che la foja
Che je dice. Me vò bene
Sai quell’urtima che sfoja.
Dove c’è la margherita
C’è er bòn core e la speranza,
C’è la fede, c’è l’amore
Ch’è er più bello de la vita…”
Ogni fiore a ‘ste parole
Rispettoso la guardò,
E perfino er girasole
Piantò er sole e s’inchinò.

Con l'inizio di maggio, mese delle rose, vi propongo una serie di poesie su questo bellissimo fiore. Partiamo con un sonetto di Francesco Petrarca, in cui un vecchio saggio regala a Laura e al poeta due rose, definendoli una coppia superba. Nell'animo del poeta, rimane un nonsochè di inquietudine e ansia...

Due rose fresche, et colte in paradiso
l’altrier, nascendo il dí primo di maggio,
bel dono, et d’un amante antiquo et saggio,
tra duo minori egualmente diviso

con sí dolce parlar et con un riso
da far innamorare un huom selvaggio,
di sfavillante et amoroso raggio
et l’un et l’altro fe’ cangiare il viso.

- Non vede un simil par d’amanti il sole -
dicea, ridendo et sospirando inseme;
et stringendo ambedue, volgeasi a torno.

Cosí partia le rose et le parole,
onde ’l cor lasso anchor s’allegra et teme:
o felice eloquentia, o lieto giorno!

Ecco i versi seicenteschi e classici di Riso di bella donna di Gabriello Chiabrera, in cui i fiori vengono paragonati al sorriso dell'amata.

Belle rose porporine,
Che tra spine
Sull’Aurora non aprite;
Ma ministre degli Amori
Bei tesori
Di bei denti custodite:
Dite, rose prezïose,
Amorose;
Dite, ond’è, che s’io m’affiso
Nel bel guardo vivo ardente,
Voi repente
Disciogliete un bel sorriso?
È ciò forse per aita
Di mia vita,
Che non regge alle vostr’ire?
O pur è, perchè voi siete
Tutte liete,
Me mirando in sul morire?
Belle rose, o feritate,
O pietate
Del sì far la cagion sia,
Io vo’ dire in nuovi modi
Vostre lodi,
Ma ridete tuttavia.
Se bel rio, se bell’auretta
Tra l’erbetta
Sul mattin mormorando erra;
Se di fiori un praticello
Si fa bello,
Noi diciam: ride la terra.
Quando avvien che un zefiretto
Per diletto
Bagni il piè nell’onde chiare,
Sicchè l’acqua in sull’arena
Scherzi appena,
Noi diciam che ride il mare.
Se giammai tra fior vermigli,
Se tra gigli
Veste l’Alba un aureo velo;
E su rote di zaffiro
Move in giro,
Noi diciam che ride il cielo.
Ben è ver quando è giocondo
Ride il mondo,
Ride il ciel quando è giojoso,
Ben è ver; ma non san poi
Come voi
Fare un riso grazïoso.

Torniamo all'Umanesimo, con questa famosa poesia di Angelo Poliziano. Nella ballata, una fanciulla raccoglie in un giardino diversi fiori, tra cui le rose, simbolo d'amore. Tra le tematiche della poesia, quello di cogliere l'attimo, uno dei principali del secondo umanesimo.

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino.

Eran d'intorno violette e gigli
fra l'erba verde, e vaghi fior novelli
azzurri gialli candidi e vermigli:
ond'io porsi la mano a côr di quelli
per adornar e' mie' biondi capelli
e cinger di grillanda el vago crino.

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino.

Ma poi ch'i' ebbi pien di fiori un lembo,
vidi le rose e non pur d'un colore:
io colsi allor per empir tutto el grembo,
perch'era sì soave il loro odore
che tutto mi senti' destar el core
di dolce voglia e d'un piacer divino.

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino.

I' posi mente: quelle rose allora
mai non vi potre' dir quant'eran belle;
quale scoppiava della boccia ancora;
qual'eron un po' passe e qual novelle.
Amor mi disse allor: «Va', co' di quelle
che più vedi fiorite in sullo spino».

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino.

Quando la rosa ogni suo' foglia spande,
quando è più bella, quando è più gradita,
allora è buona a metter in ghirlande,
prima che sua bellezza sia fuggita:
sicché fanciulle, mentre è più fiorita,
cogliàn la bella rosa del giardino.

I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino.

Ecco una bellissima poesia di Sibilla Aleramo.

Eccoci!
Facci posto,
oh sole! 
A noi due
e ad una rosa.
Fra il mio seno
e il petto forte che amo,
sta una rosa,
sola.
Oh sole,
la rosa vuol morire,
e noi
vogliam la sua agonia
tutta con nostra gioia
consacrare.
Facci posto!
Ecco,
insieme avvinti,
che la rosa non cada,
guizziamo nella tua zona,
nudi lunghi,
a terra,
avvinghiati,
e la rosa
non ti sente,
ma noi 
ma noi
da te percorsi
meravigliamo
come una lunga landa
che il tuo raggio
mai prima
conosciuto avesse.
Interi ci percorri,
solo la rosa
non ti sente,
fra il madore del mio seno
e il calore dolce
del petto che amo.
Grande aperta rosea,
si sente morire.
si sente felice,
si sfoglia,
ogni foglia
rorida molle,
vagola,
ci bacia,
premuta,
bruciata,
oh sole che ci accogli!

Ecco una poesia d'amore di Dino Campana.

In un momento
sono sfiorite le rose
i petali caduti
perché io non potevo dimenticare le rose
le cercavamo insieme
abbiamo trovato delle rose
erano le sue rose erano le mie rose
questo viaggio chiamavamo amore
col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
che brillavano un momento al sole del mattino
le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
le rose che non erano nostre rose
le mie rose le sue rose
P.S. E così dimenticammo le rose.  

In una mondo in cui ci si sente fragili, può esserci qualcuno in cui riporre la speranza di tenere insieme la nostra vita, dandole un senso. Questo è il significato di questa poesia di Eugenio Montale:

Il fiore che ripete
dall'orlo del burrato
non scordarti di me,
non ha tinte più liete né più chiare
dello spazio gettato tra me e te.
Un cigolìo si sferra, ci discosta,
l'azzurro pervicace non ricompare.
Nell'afa quasi visibile mi riporta all'opposta
tappa, già buia, la funicolare.

Ecco una poesia dedicata a una delle piante più care al mondo dell'arte, l'acanto, che fiorisce tra maggio e giugno, con le sue corolle eleganti. A descrivere il fiore è Giovanni Pascoli, che spiega come questo sia sdegnato dall'ape comune e preferito invece dall'ape legnaiola.

Fiore di carta rigida, dentato
i petali di fini aghi, che snello
sorgi dal cespo, come un serpe alato
da un capitello;

fiore che ringhi dai diritti scapi
con bocche tue di piccoli ippogrifi;
fior del Poeta! industria te d'api
schifa, e tu schifi.

L'ape te sdegna, piccola e regale;
ma spesso io vidi l'ape legnaiola
celare il corpo che riluce, quale
nera viola,

dentro il tuo duro calice, e rapirti
non so che buono, che da te pur viene
come le viti di tra i sassi e i mirti
di tra l'arene.

Lo sa la figlia del pastor, che vuoto
un legno fende e lieta pasce quanto
miele le giova: il tuo ne

E infine, ecco il girasole di Eugenio Montale.

Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.
Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.



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