Oggi ricorre l'anniversario della nascita di uno degli autori più importanti della letteratura italiana, Ludovico Ariosto (Reggio Emilia, 8 settembre 1474 – Ferrara, 6 luglio 1533), poeta, commediografo, funzionario e diplomatico italiano.
È considerato uno degli autori più celebri ed influenti del Rinascimento grazie soprattutto alla sua opera principale L'Orlando furioso, tra i poemi più significativi della letteratura cavalleresca italiana, anche grazie alla creazione di una caratteristica ottava rima, definita "ottava d'oro", che fu una delle massime espressioni raggiunte dalla metrica poetica prima dell'illuminismo. Fu un seguace delle teorie sulla lingua dell'amico Pietro Bembo.
Il materiale narrativo proviene dalla tradizione del poema epico cavalleresco, che a partire dai cantàri si era definita nel Quattrocento con l'Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, anticipato dal Morgante di Luigi Pulci. Il Furioso si propone come una continuazione del capolavoro boiardesco, rimasto incompiuto per la morte dell'autore. Tuttavia l'opera di Ariosto è ben più ambiziosa: mira ad affermarsi non solo tra il pubblico di corte ma sull'intera società culturale italiana, sfruttando le potenzialità offerte dalla stampa.
Ariosto riprende alcuni aspetti provenienti dalla letteratura epica a lui precedente. Anzitutto, come Pulci e Boiardo rielabora liberamente le favole della tradizione franco-bretone e mantiene il carattere proprio dell'epica, costruendo un'opera adatta alla recitazione. Questo materiale di origine popolare viene tuttavia nobilitato e trasposto in forme classicheggianti. Come nell'Innamorato, inoltre, i proemi diventano il luogo in cui il poeta prende spunto dai fatti narrati per trarne insegnamenti morali oppure per parlare di sé e del proprio amore. L'autore coinvolge quindi anche se stesso nella narrazione.
Il lavoro, tuttavia, è figlio del Rinascimento. Rinascimentale è per esempio la concezione laica della vita che traspare dal poema, in cui Dio non viene negato ma smette comunque di essere il motore della storia. La natura stessa, non più pervasa da Dio, assume una vitalità nuova, e così anche l'uomo si muove con maggiore libertà e naturalezza: conosce tutte le passioni, tutti gli affetti, e non rinnega nulla di ciò che è umano. I personaggi rispecchiano la formazione culturale e morale dell'autore, ma ognuno di loro è definito per sé e prova una vasta gamma di sentimenti ed emozioni. Un carattere importante dei personaggi ariosteschi è quindi l'individualismo.
Rinascimentale è anche la concezione della donna, che nel poema viene concepita come "il femminile dell'uomo".
L'Orlando furioso rispecchia però non solo la cultura ma anche le contraddizioni dell'Italia dell'epoca. Nella prima metà del Cinquecento l'Italia era travagliata da guerre e invasioni, a cui il poeta fa riferimento in vari canti. Le avventure narrate trasmettono un senso di labilità e fuggevolezza, attraverso lo scorrere di forme che mutano. La narrazione è animata e sostenuta dalle tensioni e dalle contrazioni che percorrono il poema. Da un lato afferma i valori della bellezza, della perfezione, dell'eroismo e dell'armonia, ma allo stesso tempo ne prende le distanze attraverso l'ironia: mette in dubbio ogni valore assoluto, rivela che la forza e le passioni degli uomini sono connessi con la follia e l'illusione.
L'ironia ariostesca, che risuona in tutto l'Orlando furioso, tende infatti a rivelare la validità di punti di vista tra di loro opposti e le incoerenze dell'agire umano. In generale, emerge una visione relativistica secondo cui non c'è una realtà unica e oggettiva, ma piuttosto molteplici punti di vista contrastanti. Tra i temi principali: follia, desiderio e magia.
Narrazione, lingua e metrica sono all'insegna dell'armonia. Lo strumento principale utilizzato per dare ritmo al racconto è l'ottava. Si tratta del metro che veniva solitamente impiegato nell'epica cavalleresca, ma nelle mani di Ariosto abbandona i soliti schemi ripetitivi per adattarsi ai toni più vari, dalla drammaticità all'ironia. La lingua guarda soprattutto al fiorentino letterario e petrarchesco del modello bembiano. Nel poema vengono inoltre impiegati vari termini di ascendenza classica, e in particolare ripresi dalla poesia latina. Non mancano poi espressioni tratte dai poeti coevi.
Ecco uno dei passi più belli, quello di Astolfo sulla Luna in cui il cavaliere va sul satellite per ritrovare il senno di Orlando.
Tutta la sfera varcano del fuoco,
ed indi vanno al regno de la luna.
Veggon per la più parte esser quel loco
come un acciar che non ha macchia alcuna;
e lo trovano uguale, o minor poco
di ciò ch'in questo globo si raguna,
in questo ultimo globo de la terra,
mettendo il mar che la circonda e serra.
Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e ch'aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s'indi la terra e 'l mar ch'intorno spande,
discerner vuol; che non avendo luce,
l'imagin lor poco alta si conduce.
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c'han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.
Non stette il duca a ricercar il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Da l'apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.
Non pur di regni o di ricchezze parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch'in poter di tor, di darlo
non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è là su, che, come tarlo,
il tempo al lungo andar qua giù divora:
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l'inutil tempo che si perde a giuoco,
e l'ozio lungo d'uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.
Passando il paladin per quelle biche,
or di questo or di quel chiede alla guida.
Vide un monte di tumide vesiche,
che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe ch'eran le corone antiche
e degli Assiri e de la terra lida,
e de' Persi e de' Greci, che già furo
incliti, ed or n'è quasi il nome oscuro.
Ami d'oro e d'argento appresso vede
in una massa, ch'erano quei doni
che si fan con speranza di mercede
ai re, agli avari principi, ai patroni.
Vede in ghirlande ascosi lacci; e chiede,
ed ode che son tutte adulazioni.
Di cicale scoppiate imagine hanno
versi ch'in laude dei signor si fanno.
Di nodi d'oro e di gemmati ceppi
vede c'han forma i mal seguiti amori.
V'eran d'aquile artigli; e che fur, seppi,
l'autorità ch'ai suoi danno i signori.
I mantici ch'intorno han pieni i greppi,
sono i fumi dei principi e i favori
che danno un tempo ai ganimedi suoi,
che se ne van col fior degli anni poi.
Ruine di cittadi e di castella
stavan con gran tesor quivi sozzopra.
Domanda, e sa che son trattati, e quella
congiura che sì mal par che si cuopra.
Vide serpi con faccia di donzella,
di monetieri e di ladroni l'opra:
poi vide bocce rotte di più sorti,
ch'era il servir de le misere corti.
Di versate minestre una gran massa
vede, e domanda al suo dottor ch'importe.
«L'elemosina è (dice) che si lassa
alcun, che fatta sia dopo la morte.»
Di vari fiori ad un gran monte passa,
ch'ebbe già buono odore, or putia forte.
Questo era il dono (se però dir lece)
che Costantino al buon Silvestro fece.
Vide gran copia di panie con visco,
ch'erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;
che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l'occurrenze nostre:
sol la pazzia non v'è poca né assai;
che sta qua giù, né se ne parte mai.
Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,
ch'egli già avea perduti, si converse;
che se non era interprete con lui,
non discernea le forme lor diverse.
Poi giunse a quel che par sì averlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non ferse;
io dico il senno: e n'era quivi un monte,
solo assai più che l'altre cose conte.
Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più, qual men capace, atte a quell'uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d'Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l'altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: Senno d'Orlando.
E così tutte l'altre avean scritto anco
il nome di color di chi fu il senno.
Del suo gran parte vide il duca franco;
ma molto più maravigliar lo fenno
molti ch'egli credea che dramma manco
non dovessero averne, e quivi dénno
chiara notizia che ne tenean poco;
che molta quantità n'era in quel loco.
Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de' signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
ed altri in altro che più d'altro aprezze.
Di sofisti e d'astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n'era molto.
Astolfo tolse il suo; che gliel concesse
lo scrittor de l'oscura Apocalisse.
L'ampolla in ch'era al naso sol si messe,
e par che quello al luogo suo ne gisse:
e che Turpin da indi in qua confesse
ch'Astolfo lungo tempo saggio visse;
ma ch'uno error che fece poi, fu quello
ch'un'altra volta gli levò il cervello.
La più capace e piena ampolla, ov'era
il senno che solea far savio il conte,
Astolfo tolle; e non è sì leggiera,
come stimò, con l'altre essendo a monte. [...]