venerdì 30 giugno 2023

Per terra e per mare. Gli Etruschi di frontiera tra mobilità e integrazione. Mostra al Museo Archeologico Nazionale di Pontecagnano

Dopo  "Gli Dei ritornano", vi segnalo una nuova mostra sugli Etruschi che sarà inaugurata il 30 giugno e sarà visitabile fino al 10 dicembre, in provincia di Salerno. Si tratta di “Per terra e per mare. Gli Etruschi di frontiera tra mobilità e integrazione" che sarà ospitata presso il Museo Archeologico Nazionale di Pontecagnano.

La rassegna ricostruisce e documenta la storia di Pontecagnano, l’insediamento etrusco più a sud d’Italia, dal IX al III secolo a.C., attraverso la mobilità di uomini e donne, la circolazione di oggetti, la peculiarità di produzioni artigianali e la condivisione di modelli di comportamento e di ideologie.

Il racconto delle tematiche sarà anche di tipo immersivo, attraverso l’uso di tecnologie digitali in uno spazio appositamente allestito.




lunedì 26 giugno 2023

Caratteri e impronte: La capra di Umberto Saba

 Nella letteratura spesso c'è un'assonanza tra gli stati d'animo e le caratteristiche degli uomini con quelli degli animali: lo abbiamo visto in Don Chisciotte e in L'assiuolo, ora lo ritroviamo in una famosa poesia di Umberto Saba, protagonista della nuova puntata di Caratteri e Impronte, rubrica dedicata a letteratura e animali.

Ecco il testo di La capra

Ho parlato a una capra

Era sola sul prato, era legata.

Sazia d’erba, bagnata

alla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno

al mio dolore. Ed io risposi, prima

per celia, poi perchè il dolore è eterno,

ha una voce e non varia.

Questa voce sentiva

gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita

sentiva querelarsi ogni altro male,

ogni altra vita.

In questa poesia, Saba riconosce nell'animale un aspetto distintivo dell'uomo, ossia il dolore, che è il destino di ogni persona e di tutte le cose. Il belato viene assimilato al pianto. Il legame tra l'uomo e la capra viene sottolineato da diversi aggettivi e collegamenti, come fraterno, gemere, eterno, solitaria. 

La conclusione della poesia rivela l'autobiografismo del componimento. Attraverso l'aggettivo semita, mescolando realtà e finzione, l'autore fa capire che in realtà quella capra è il poeta stesso, la cui nazionalità è per l’appunto ebrea.

La poesia è tratta sezione “Casa e campagna” de “Il canzoniere”. 

giovedì 22 giugno 2023

Gli Dei ritornano: i bronzi di San Casciano al Quirinale

 Gli Dei ritornano, è questo il titolo della mostra al Quirinale a Roma in cui per la prima volta saranno presentate al pubblico le scoperte effettuate nel 2022 nel santuario termale etrusco e romano del Bagno Grande di San Casciano dei Bagni in Toscana.

La mostra verrà inaugurata domani 23 giugno per protrarsi fino al 25 luglio e poi riaprire ancora dal 2 settembre al 29 ottobre - si snoda come un viaggio attraverso i secoli all’interno del paesaggio delle acque calde del territorio dell’antica città-stato etrusca di Chiusi. 

Saranno esposte oltre 20 statue e statuette, migliaia di monete in bronzo e ex-voto anatomici che raccontano i culti e riti a cui erano dediti le popolazioni del luogo

I bronzi, in seguito, continueranno forse il loro tour con altre mostre per poi essere ospitati un museo dedicato a San Casciano (ne abbiamo già parlato qui). 




"L'Amato di Iside. Nerone, la Domus Aurea e l'Egitto", la mostra inaugurata a Roma

 E' la bellissima Domus Aurea lo sfondo di una mostra che ha come tema quello dei rapporti dell'antica Roma con l'Egitto nel I secolo d.C. 

"L'Amato di Iside. Nerone, la Domus Aurea e l'Egitto", inaugurata oggi e visitabile fino al 14 gennaio 2024, riunisce numerosi  reperti legati alla cultura egizia provenienti dai maggiori musei italiani. 

Al centro la figura di Nerone, che con l'Oriente e l'Egitto instaurò, fin dalla giovane età, un rapporto particolare. Protagonista di questo racconto è la Domus Aurea, la "Casa d'Oro", l'oro del dio Sole con cui l'imperatore si identificava secondo una visione proprio di matrice orientale.

L'idea della mostra nasce dai recenti lavori di restauro che hanno svelato la presenza di una decorazione egittizzante, con soggetti legati al culto isiaco, nel Grande Criptoportico del palazzo neroniano, ambiente che diventa quindi parte integrante dell'esposizione e strumento per approfondire, attraverso le opere, gli aspetti, gli eventi e i protagonisti della diffusione dell'idea di Egitto nell'immaginario collettivo dei Romani del I sec. d.C.




giovedì 15 giugno 2023

Caratteri e impronte: Margutte e la bertuccia

 E' una scimmia la protagonista di questo nuovo appuntamento con Caratteri e Impronte, rubrica dedicata alla letteratura e agli animali, nata in attesa del mio secondo libro. In particolare, si tratta di un animale citato in un poema molto particolare.

Ma cominciamo a parlare della simbologia della scimmia. Questo animale, al contrario che in altri continenti dove assume valenze più positive, nella tradizione occidentale, in particolare in quella allegorica cristiana medievale, incarna gli istinti più bassi come la lussuria, la sfrenatezza e l'impudenza, diventando una caricatura umana e una controfigura del diavolo. Viene, quindi, intesa come forma arcaica di umanità, come se fosse quasi un uomo in potenza ma non in atto, facile preda dei desideri primari, come la fame smodata e l’inclinazione a una sessualità senza regole. 

Ma non sono passate inosservate caratteristiche della scimmia come quella di essere un'imitatrice degli atti umani mentre la sua somiglianza con l'uomo la fà rappresentare spesso in chiave comico-grottesca, offrendo spunti di divertimento ma al contempo di riflessione. 

Ed è soprattutto in quest'ultima chiave che compare nel Morgante di Luigi Pulci, co-protagonista del celebre passo della morte di Margutte. 

Il Morgante, poema eroicomico

Il Morgante (1478) di Luigi Pulci è un poema epico cavalleresco che trae ispirazione dalle leggende carolinge. Narra le avventure e gli amori di Orlando, Rinaldo e altri paladini nei paesi più lontani, a cui si accompagnano le vicende comiche di Morgante e Margutte.

Per la caratterizzazione dei personaggi e per la scelta linguistica e stilistica questo lavoro è spesso definito come poema eroicomico: vengono spesso usati i toni della parodia, popolari e realistici, capovolgendo lo stile delle narrazione epico cavalleresca, con un risultato decisamente fuori dai canoni comuni.

I caratteri del ciclo carolingio di fatto vengono completamenti trasformati, comportandosi spesso da furfanti, in preda alle più intese passioni corporee. C’è poi Morgante, un gigante buono, che dà il titolo al poema, scudiero di Orlando che viene presentato come un Ercole dalla forza smisurata. Con lui, il mezzogigante Margutte, una figura paradossale che si presenta come peccatore incallito e che dichiara un bizzarro “credo” culinario, in cui sono presenti diversi elementi blasfemi, altro passo famoso del testo. Astuto e maligno dalle membra "strane, orride e brutte", presentatosi a Morgante vantandosi di tutte le sue bravure, viene da costui assunto come scudiero.

La morte di Margutte avviene in modo paradossale in maniera conforme al suo personaggio, dal momento che il mezzogigante ha passato la vita a combinare scherzi e ribalderie ai danni del prossimo: egli subisce infatti a sua volta uno scherzo da parte del compagno, che vuole in un certo senso punirlo per la cattiveria che ha dimostrato. E qui entra in scena la scimmia, una bertuccia, per la precisione, "attrice" grottesca, in una scena assurda, che con l'imitazione di un atto umano, fa ridere il mezzogigante tanto da farlo morire. 

Margutte, infatti, mentre cerca i suoi stivali, nascosti da Morgante, vede che l'animale li ha indossati, cadendo in preda a uno scoppio frenetico di risa, che lo fa morire a causa delle convulsioni. Il folle riso di Margutte ha qualcosa di tragicamente comico, qualificando la sua figura come quella di un bizzarro giullare che proprio a causa della sua inclinazione alla beffa muore in modo sciocco, affiancato in questo da una delle figure grottesche per eccellenza, la scimmia.

La sua morte precede di poco quella di Morgante, che verrà morso da un granchio mentre guada un fiume, ma diverso sarà il loro destino ultraterreno (Morgante finirà in Cielo, Margutte all'inferno).


La morte di Margutte


Morgante finalmente convenia

che in riso e 'n giuoco s'arrechi ogni cosa;

e vanno seguitando la lor via.

Erano un dì per una selva ombrosa;

e perché pure il camino increscìa,

a una fonte Morgante si posa.

Margutte, ch'avea ancor ben pieno il sacco,

s'addormentò come affannato e stracco.


Morgante, come lo vede a giacere,

gli stivaletti di gamba gli trasse

ed appiattògli, per aver piacere,

un po' discosto, quando e' si destasse.

Margutte russa, e colui sta a vedere;

poi lo destava, perché e' s'adirasse.

Margutte si rizzò, come e' fu desto,

e degli usatti s'accorgeva presto;


e disse: - Tu se' pur, Morgante, strano:

io veggo che tu m'hai tolti gli usatti,

e fusti sempre mai sconcio e villano. -

Disse Morgante: - Apponti ov'io gli ho piatti:

e' son qui intorno poco di lontano:

questo è per mille oltraggi tu m'hai fatti. -

Margutte guata, e non gli ritrovava;

e cerca pure, e seco borbottava.

Ridea Morgante sentendo e' si cruccia.

Margutte pure alfin gli ha ritrovati,

e vede che gli ha presi una bertuccia,

e prima se gli ha messi e poi cavati.

Non domandar se le risa gli smuccia,

tanto che gli occhi son tutti gonfiati

e par che gli schizzassin fuor di testa;

e stava pure a veder questa festa.


A poco a poco si fu intabaccato

a questo giuoco, e le risa cresceva,

tanto che 'l petto avea tanto serrato

che si volea sfibbiar, ma non poteva,

per modo e' gli pare essere impacciato.

Questa bertuccia se gli rimetteva:

allor le risa Margutte raddoppia,

e finalmente per la pena scoppia;


e parve che gli uscissi una bombarda,

tanto fu grande dello scoppio il tuono.

Morgante corse, e di Margutte guarda

dov'egli aveva sentito quel suono,

e duolsi assai che gli ha fatto la giarda,

perché lo vide in terra in abbandono;

e poi che fu della bertuccia accorto,

vide ch'egli era per le risa morto.


Non poté far che non piangessi allotta,

e parvegli sì sol di lui restare

ch'ogni sua impresa gli par guasta e rotta;

e cominciò col battaglio a cavare,

e sotterrò Margutte in una grotta

perché le fiere nol possin mangiare;

e scrisse sopr'un sasso il caso appunto,

come le risa l'avean quivi giunto.


E tolse sol la gemma che gli dètte

Florinetta al partir: l'altro fardello

con esso nella fossa insieme mette;

e con gran pianto si partì da quello,

e per più dì come smarrito stette

d'aver perduto un sì caro fratello,

e 'n questo modo ne' boschi lasciarlo

e non potere a Orlando menarlo.


martedì 6 giugno 2023

7 giugno 1099, inizia l'assedio di Gerusalemme durante la prima crociata

 Oggi ricorre l'anniversario dell'inizio dell'assedio di Gerusalemme durante la prima crociata, durato dal 7 giugno al 15 luglio 1099. Sotto la guida di Goffredo di Buglione e Raimondo IV di Tolosa, i crociati riuscirono a conquistare la città e ad impadronirsi dei luoghi sacri della religione cristiana. 

La vicenda è oggetto di uno dei miei libri preferiti, La Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, per me fonte di ispirazione nella mia attività di scrittura (qui vi parlo del rapporto tra il personaggio di Turno di Lo specchio di Giano e Solimano, qui della mia passione per il poema). 

La prima crociata fu l'unica che conquistò Gerusalemme e in cui non parteciparono sovrani. Filippo I di Francia era scomunicato, Guglielmo II d'Inghilterra, uno dei figli del Conquistatore, era in disaccordo col papa, e quindi la guerra fu guidata da nobili speranzosi di prendersi nuovi territori con le armi, di acquistare fama o sinceramente convinti di servire Dio.

Goffredo di Buglione duca d'Alta Lorena, Raimondo di Saint-Gilles conte di Tolosa, i normanni Boemondo e Tancredi di Taranto, Roberto di Normandia, altro figlio del Conquistatore, che per finanziare la sua impresa vendette i suoi possedimenti al fratello re d'Inghilterra, sono i più noti. Alcuni di loro sono tra i protagonisti del poema eroico del Tasso. In particolare, è Goffredo che nel libro guida la schiera cristiana ed è presentato dall'autore come un protagonista. Tuttavia risulta uno dei personaggi meno interessanti di tutta l'opera. 


Ecco il proemio della Gerusalemme Liberata, che si apre sulla figura di Goffredo di Buglione:

Canto l’arme pietose, e ’l Capitano

Che ’l gran sepolcro liberò di Cristo.

Molto egli oprò col senno e con la mano;

Molto soffrì nel glorioso acquisto:

E invan l’Inferno a lui s’oppose; e invano

s’armò d’Asia e di Libia il popol misto:

Chè ’l Ciel gli diè favore, e sotto ai santi

Segni ridusse i suoi compagni erranti.

     O Musa, tu, che di caduchi allori

Non circondi la fronte in Elicona,

Ma su nel Cielo infra i beati cori

Hai di stelle immortali aurea corona;

Tu spira al petto mio celesti ardori,

Tu rischiara il mio canto, e tu perdona

S’intesso fregj al ver, s’adorno in parte

D’altri diletti, che de’ tuoi le carte.

  Sai che là corre il mondo, ove più versi

Di sue dolcezze il lusinghier Parnaso;

E che ’l vero condito in molli versi,

I più schivi allettando ha persuaso.

Così all’egro fanciul porgiamo aspersi

Di soavi licor gli orli del vaso:

Succhi amari, ingannato, intanto ei beve,

E dall’inganno suo vita riceve.


Lo specchio di Giano, il sacerdote Tarchun

 Nell'ultimo post che ho dedicato al mio libro, "Lo specchio di Giano", ho pubblicato la descrizione di uno dei personaggi che ho inventato per il volume e che va ad affiancarsi ai caratteri che rappresentano i miei familiari. Si tratta di Tarchun, il sacerdote devoto al dio Maris che custodisce riti tradizionali e misteri della religione del popolo dei Rasna. La sua descrizione riprende, infatti, quella dei religiosi etruschi.

Il nome, invece, che all'inizio doveva riprendere quello di Ismeno, mago della Gerusalemme Liberata, è quello dell'eroe etrusco Tarconte, a cui, assieme al fratello Tirreno, è attribuita la fondazione della dodecapoli etrusca, il cui nucleo centrale fu Tarquinia, che da lui prese il nome. Appare nell'Eneide come capo di tutti gli Etruschi e alleato di Enea nella guerra contro Mezenzio e Turno, dove abbatte il giovane tiburtino Venulo.

In Lo specchio di Giano, Tarchun, assieme al rivale Ataris, è uno dei caratteri più complessi. Sotto la sua integrità di facciata si celano segreti legati a una tragica storia d'amore, la sua superbia e un forte senso di superiorità rispetto agli altri. Tutti sentimenti che nello svolgersi degli accadimenti verranno superati mentre i suoi demoni saranno annientati, fino alla redenzione finale. 


Tarchun è depositario della disciplina dell'aruspicina e in una scena chiave del libro analizzerà il fegato di una vittima, capendo, unico personaggio in tutta la storia, a capire chi davvero è Steleth:

Si trovava nella cella destra del tempio di Maris, dove erano conservati in un baule chiuso i Libri del Cielo accanto a una statua d'oro del dio. Quella parte del tempio, con la caduta in disuso di certe usanze di culto era stata chiusa e nessuno ci era più entrato da tempo. Si era fatto lasciare lì solo con gli attrezzi per il sacrificio e con la sua vittima. Dopo una lunga preghiera al dio, aveva sgozzato una vecchia pecora nera. Le pareti scure e polverose per il passare del tempo si erano riscaldate con il sangue dell'animale, che il sacerdote vi aveva cosparso sopra. Aveva poi estratto dal cadavere della bestia il cuore e il fegato. Quell'atto sanguinoso che non si perpetrava ormai da secoli aveva richiamato nel tempio i demoni del fuoco del Regno dell'Orco che sibilavano e si lamentavano, facendo aumentare in Tarchun la rabbia e la disperazione.

Lui, in quanto Aruth, era l'unico depositario dell'antica disciplina dell'aruspicina, tramanda di guida in guida, mentre quelle degli auguri e dell'interpretazione dei fulmini, essendo non cruente, erano sempre state mantenute in vita. Per risolvere la situazione, per capire il da farsi con la guerra, per sapere qualcosa del futuro, aveva provato a interpretare il volere del dio e del destino tramite le sue invocazioni e tramite lo scrutamento di diversi segnali. Ma questi ultimi non erano arrivati, al contrario delle altre volte in cui aveva sempre ottenuto una qual forma di risposta, anche dopo diversi tentativi. Maris evidentemente lo aveva abbandonato. Gli rimanevano soltanto le antiche arti divinatorie dei suoi antenati, affidate ormai solo alla massima carica religiosa dei mortali. Non si aspettava di essere proprio lui a doverle far rivivere. Quando era stato nominato guida dei Ministri del Destino, gli si prospettava un futuro di gloria, con il suo regno in pace e una certa prosperità che poteva consentire lo sviluppo delle scienze e del commercio. E invece ecco la guerra, un terribile imprevisto che faceva saltare tutto all'aria, e i fantasmi del passato che tornavano da lui. Eccolo, nel tempio del dio che non lo ascoltava più, a sentirsi feroce e ridicolo allo stesso tempo, nel sventrare un povero animale per cercare di comprendere il volere degli dei e sapere se quello che lo aspettava fosse favorevole o sfavorevole.

Prese quindi il fegato della pecora e lo pose ancora caldo davanti a Maris, mettendosi con le spalle a Nord, e predisponendosi quindi a ispezionarne la forma e i segni particolari, per leggerne indicazioni di buono o cattivo auspicio.

Era un organo pieno di imperfezioni e tanto diverso da quelli che aveva studiato sui libri a cui solo i Sians avevano accesso.  Ma quali aree guardare? Dopo lo scontro degli eterni, ogni parte dell'organo era stata riservata agli dei reggenti e ai gruppi di immortali che si facevano carico dei diversi regni. Ma tra gli dei ne erano tornati degli altri e altri ancora stavano per riprendere la loro forma. Era necessaria quindi una lettura doppia, con i vecchi e i nuovi riferimenti.  Le aree di Maris e dei Chechanar erano irregolari e piene di venature, segno della loro debolezza, che però non sembrava un segnale di un crollo imminente. Inoltre, quello spazio era come circondato da un cordone, come se fosse isolato dagli altri. Le divinità che avevano governato il mondo negli ultimi secoli si erano asserragliate nelle loro posizioni, allontanandosi sia dai mortali sia dagli altri dei. Le antiche parti di Aplu, Ani, Voltumna, Vesta, Nethuns e molti altri, erano, invece, piene e carnose di un colore carico: gli dei nuovi avrebbero mantenuto la loro forza, ma erano di due fazioni differenti. Poteva essere un segno che prospettava la pace oppure uno sconvolgimento delle parti tra i divini. La sezione rivolta a occidente, rossa e tonica, era quella degli dei infernali divisa da quella degli altri dall'area centrale, quella di Giano, caratterizzata da un rosso scurissimo e rilevata rispetto agli altri, con un aspetto più pieno e sano. Che ruolo aveva il padre degli dei in tutto questo? Sembrava essere un ruolo rilevante, ma quale?

Ma osservò quella parte con più attenzione. Un punto nell'area degli dei di Tufulta era forato: in quella particolare area cosa mancava? No, non poteva essere! Si ripulì velocemente le mani e andò a consultare i testi. Il suo cuore quasi si fermò: era la sezione dedicata a una delle dee più potenti, da cui ci si aspettava un grande appoggio in quella guerra! Ecate non c'era! E Steleth? Intorno a lei c'era sempre stato un alone di mistero, qualcosa sembrava non coincidere con il Mysterii Liber e lei era restia ad accettare il suo stato. Ma aveva dato la dimostrazione di poteri forti e imperfetti, ancora in grado di crescere. Chi si celava in lei? Un'altra dea? Cercò freneticamente una conferma, un nuovo dato, qualcosa che non conosceva e che potesse dargli un qualche aiuto confrontando i testi sacri con l'organo degli animali. Quand'ecco, un quasi impercettibile rigonfiamento accompagnato a un alone bianco sempre nell'area degli infernali! Tarchun rimase immobile a contemplare quel piccolo dettaglio: ora tutto gli era più chiaro ma quello che aveva capito doveva rimanere un segreto! Il suo respiro prese a diventare meno affannoso: le sorti del mondo sembravano ancora bilanciate e il futuro ancora da definire e soprattutto, probabilmente, non ci sarebbe stata una disfatta per Vestres.

L'ebook è disponibile su Amazon e su altre piattaforme.

giovedì 1 giugno 2023

Caratteri e impronte, L'assiuolo di Giovanni Pascoli

 Siamo al nuovo appuntamento con la rubrica dedicata a letteratura e animali Caratteri e impronte, nata in attesa del mio secondo libro. Questa puntata è dedicata a una delle poesie italiane ottocentesche più famose. 

Chiù: il monosillabo cupo che risuona nella notte è il motivo conduttore della poesia, che ci rivela l'identità del protagonista, L’assiuolo.

Questo componimento di Giovanni Pascoli fu pubblicato per la prima volta sulla rivista fiorentina di letteratura Il Marzocco nel 1897 e in seguito fu inclusa nella raccolta Myricae.

L’uso reiterato dell’onomatopea chiù evoca un suono tetro, che si tramuta in presagio. Si tratta del verso di un uccello rapace simile alla civetta, che l'autore tuttavia non descrive ma che cita soltanto nel titolo. 

Chiù scandisce il finale di tutte le strofe della poesia, facendo aumentare il senso di angoscia nel lettore - prima è una voce, poi un singulto, infine un canto di morte - e donando alla lirica una struttura circolare.

Il componimento si apre con una descrizione di vita campestre, con la luna che riluce come un’alba perlacea tra i rami degli alberi. Ma quasi subito si ha un cambio di atmosfera, con l'avvicinarsi di un temporale e la voce dell'assiuolo che arriva dai campi. 

Nella seconda strofa il punto di vista rappresentato è quello dell'autore e il suo stato d'animo riflette l'atmosfera che ha intorno, con un grande senso di mistero. 

Il finale, torna alla descrizione del paesaggio, che assume però un connotato metafisico, con il verso dell’uccello che viene associato alla morte. Il canto dell’assiuolo infatti, secondo antiche credenze, prefigura disgrazia ed è annuncio di morte. Le “porte invisibili che non si aprono più” sono quelle che separano il mondo dei vivi da quello dei morti mentre i sistri sono gli strumenti a percussione utilizzati nell’antico Egitto per il culto della dea Iside, in un altro rimando all’ingresso dell’Oltretomba. 

La poesia è quindi una riflessione sul mistero della fine della vita. 



L’assiuolo di Giovanni Pascoli

Dov’era la luna? ché il cielo

notava in un’alba di perla,

ed ergersi il mandorlo e il melo

parevano a meglio vederla.

Venivano soffi di lampi

da un nero di nubi laggiù;

veniva una voce dai campi:

chiù...


Le stelle lucevano rare

tra mezzo alla nebbia di latte:

sentivo il cullare del mare,

sentivo un fru fru tra le fratte;

sentivo nel cuore un sussulto,

com’eco d’un grido che fu.

Sonava lontano il singulto:

chiù...


Su tutte le lucide vette

tremava un sospiro di vento:

squassavano le cavallette

finissimi sistri d’argento

(tintinni a invisibili porte

che forse non s’aprono più?...);

e c’era quel pianto di morte...

chiù...


Lo specchio di Giano e gli dei

 Avendo deciso di scrivere un romanzo ispirato agli Etruschi e ai popoli antichi non ho potuto fare a meno, in Lo specchio di Giano , di da...