giovedì 27 aprile 2023

Caratteri e impronte: Cuore di cane di Michail Bulgàkov

Può un animale diventare umano superando i limiti imposti dalla natura? Questo è uno dei temi affrontati nel romanzo di Michail Bulgakov Cuore di Cane”, al centro del nuovo appuntamento della rubrica Caratteri e impronte, nata in attesa del mio secondo libro.

Questo testo, come le altre opere dello scrittore e drammaturgo russo della prima metà del XX secolo, contiene numerose chiavi di lettura e affronta temi diversi come quello del progresso scientifico, dell'etica e della critica sociale. Uno degli intenti del libro è quello di parodiare con una favola morale il nuovo regime sovietico, che sperimentava il suo proposito di forgiare la società ex novo.


Nelle prime pagine, è il cane Pallino, a raccontare in prima persona la sua vita nel centro di Mosca, una città a metà strada tra il cambiamento imposto dalla rivoluzione sovietica e l'assetto preesistente. L'animale osserva in maniera critica tutto ciò che gli sta attorno, imparando quindi a comprendere comportamenti e persino modi di fare e di dire tipici degli uomini e degli esponenti delle diverse classi sociali. 

Ridotto quasi in fin di vita, il cane viene adottato dallo scienziato sovietico professor Filip Filipovič Preobraženskij che ha inventato un siero grazie a cui qualsiasi animale può essere trasformato in un essere umano. La cavia prescelta per il suo esperimento è proprio il randagio che dopo l'operazione acquisisce pian piano la capacità di parlare e persino un’andatura eretta bipede, perdendo molte delle sue caratteristiche fisiche. Ma umanizzazione non è sinonimo di civilizzazione e Pallino causerà diversi gravi problemi al professore, che deciderà di fare un passo indietro. 

La trasformazione e il comportamento del cane testimonia con cinico realismo l’incapacità di accettare un improvviso cambiamento imposto con la forza, proponendosi come una fotografia del tempo e di una società fragile: il cane, in questo caso, incarna il proletariato vittorioso.

La critica dell'autore si abbatte, in ogni caso, anche contro la scienza, vista come una disciplina senza più limiti e libera di sperimentare qualsiasi mostruosità.

Ecco l'inizio del racconto e di seguito l'incontro con il professore:




mercoledì 26 aprile 2023

Eneide, il personaggio di Turno e il duello con Enea

Dopo le celebrazioni della Fondazione di Roma, il 21 aprile, parliamo di un guerriero protagonista delle vicende leggendarie che hanno portato alla nascita della città. Si tratta di Turno, Re dei Rutuli, personaggio fondamentale dell'Eneide di Virgilio, quasi un co-protagonista del poema. Vi ho già parlato di questo carattere diverse volte, visto che uno dei personaggi di Lo specchio di Giano si ispira a lui e porta il suo nome.

Figlio di Dauno e della ninfa Venilia, fratello di Giuturna e di Canente, ha origini e parentele divine, discendendo  dalla divinità italica Pilumno. Prima dell'arrivo di Enea gli è stata promessa Lavinia, figlia di Latino, anche se oracoli e prodigi avevano dato segni molto negativi sul progettato matrimonio.

Quando Latino promette la mano di Lavinia ad Enea, Turno sembra non preoccuparsi della cosa ma a farlo reagire provvede la furia Aletto, inviata da Giunone. Turno ed Amata - moglie di Latino, anche lei istigata dalla furia - scatenano la guerra contro i Troiani spingendo i Latini a violare i patti di amicizia appena conclusi. 

Nelle battaglie il re dei Rutuli, eroico, impulsivo e arrogante, si distinguerà in parallelo con l'Achille omerico, costituendo la colonna portante dei contenuti epici dell'opera, rappresentando anche il guerriero senza paura che al momento giusto sa onorare il nemico sconfitto. Infine affronterà Enea in duello e morirà nell'ultimo verso del poema.

La figura di Turno appare tuttavia psicologicamente più complessa di quella di Achille e ha la capacità di interagire in maniera complessa con gli altri personaggi dell'Eneide: ha un carattere molto definito e variegato, nel quale trova pieno risalto la capacità di Virgilio di cogliere e descrivere esaltazioni ed angosce dell'animo umano. Lo vediamo come strumento della volontà di Giunone, ma anche uomo offeso che si batte per recuperare la dignità che va perdendo davanti alla fama del nuovo arrivato. Nonostante non esiti ad affrontare Enea nel duello finale, ha comunque momenti di esitazione e paura, tratti che lo avvicinano in questo caso alla figura di Ettore. 


Ecco i versi finali del poema: 

Enea di contro incalza e vibra la lancia,

enorme, simile a un tronco, e parla con animo feroce:

«Ora cos’è questo indugio? Perché ti attardi, Turno?

Non con la corsa, con l’armi crudeli si deve combattere

da presso. Trasfòrmati in tutti gli aspetti, raduna quanto

vali con l’animo e con l’astuzia; desidera di volare

sulle alte stelle, e di racchiuderti nel cavo della terra…».

Quello, scuotendo il capo: «Non le tue superbe parole m’atterriscono, 

o arrogante; gli dei mi atterriscono e Giove nemico».

E senza dire null’altro, rivolge lo sguardo a un grande macigno,

[…] l’eroe, afferratolo con mano ansiosa, cercò di scagliarlo

sul nemico, ergendosi in alto e preso di corsa l’abbrivio.

Ma non si riconobbe nel correre, nel muoversi,

nell’alzare la mano e nel librare il possente macigno;

le ginocchia vacillano, si rapprende gelido il sangue.

Allora la pietra, lanciata dal guerriero nel vuoto,

non percorse tutto lo spazio, né portò a termine il colpo.

E come in sogno, di notte, quando una languida quiete

grava sugli occhi, ci sembra di voler inutilmente intraprendere

avide corse, e durante il tentativo cadiamo sfiniti;

la lingua impotente, le forze consuete del corpo

svaniscono, e non escono voce o parole:

così a Turno, con qualunque sforzo tenti la via,

l’orribile dea nega il successo. Allora volge

nel cuore sentimenti diversi: guarda i Rutuli e la città,

e indugia nel timore, e trema all’arrivo del colpo;

non sa dove scampare, come assalire il nemico

e non vede in nessun luogo il carro e la sorella auriga.

Mentre esitava, Enea brandisce l’asta fatale,

calcolando la sorte con gli occhi, e la vibra da lontano

[…] Il grande Turno

cadde in terra, colpito, con le ginocchia piegate.

Balzano con un grido i Rutuli, e tutto rimbomba

il monte d’intorno, e ampiamente i profondi boschi riecheggiano.

Egli da terra, supplice, protendendo lo sguardo e la destra

implorante: «L’ho meritato» disse «e non me ne dolgo;

profitta della tua fortuna; tuttavia, se il pensiero d’un padre

infelice ti tocchi, prego – anche tu avesti un padre,

Anchise –, pietà della vecchiaia di Dauno,

 e rendi me, o se vuoi le membra prive di vita,

ai miei. Hai vinto e gli Ausoni mi videro sconfitto

tendere le mani; ora Lavinia è tua sposa;

non procedere oltre con gli odii». Ristette fiero nell’armi

Enea, volgendo gli occhi, e trattenne la destra;

sempre di più il discorso cominciava a piegarlo

e a farlo esitare: quando al sommo della spalla apparve

l’infausto balteo e rifulsero le cinghie delle note borchie

del giovane Pallante, che Turno aveva vinto e abbattuto

con una ferita, e portava sulle spalle il trofeo del nemico.

Egli, fissato con gli occhi il ricordo del crudele dolore,

e la preda, arso dalla furia, e terribile

nell’ira: «Tu, vestito delle spoglie dei miei,

vorresti sfuggirmi? Pallante con questa ferita,

Pallante t’immola, e si vendica sul sangue scellerato».

Dicendo così, gli affonda furioso il ferro in pieno petto;

a quello le membra si sciolgono nel gelo,

e la vita con un gemito fugge sdegnosa tra le ombre.


venerdì 21 aprile 2023

21 aprile 753 a. C., fondazione di Roma

 Per gli appassionati di storia antica e dei grandi classici della letteratura il 21 aprile è un giorno importante: si celebra, infatti, secondo la tradizione, la fondazione di Roma.

La storia della città si fa iniziare il 21 aprile del 753 a .C. e ogni anno in questo stesso giorno si festeggia il cosiddetto Natale di Roma, attraverso eventi e celebrazioni nella capitale, in cui non mancano spettacoli e sfilate in costume.

Nella fondazione della Città Eterna si uniscono storia e leggenda. L’individuazione di questa data si deve al letterato romano Marco Terenzio Varrone. Secondo la leggenda Roma fu fondata dai discendenti di Enea, l'eroe omerico, che dopo essere scampato alla guerra di Troia, fondò la città di Albalonga, dove i suoi posteri regnarono per otto secoli. La dinastia terminò con i fratelli Numitore ed Amulio. Il re Numitore mise al mondo una figlia, Rea Silvia, che concepì due gemelli con il dio Marte. La donna era una Vestale e poiché alle sacerdotesse di Vesta  che non rispettavano il voto di castità toccava in sorte una morte violenta, Rea Silvia fu seppellita viva. Ma il fiume Aniene, in cui il corpo era stato gettato, la resuscitò, avendo pietà di lei. I bambini, Romolo e Remo, furono invece lasciati in una cesta e affidati alla corrente del fiume. Secondo la leggenda tramandata, furono allevati da una lupa e dal pastore Faustolo, e una volta diventati adulti uccisero Amulio e restituirono il trono al nonno. I gemelli decisero di formare una nuova città, ma mentre Romolo ne tracciava i confini, Remo in segno di sfida saltò il solco e venne ucciso. 




Le celebrazioni del 2023

Quest’anno, in cui ricorre il 2776esimo Natale di Roma, sono previsti 5 giorni di spettacoli e iniziative organizzati dal Gruppo Storico Romano.

La manifestazione di svolgerà dal 20 al 23 aprile presso il Circo Massimo, mentre per il 19 aprile si terrà un convegno alla Sala Meeting dell’Ara Pacis dal titolo: “Roma Regina Aquarum – L’Acqua come espressione di civiltà: le perdite oggi come ieri”.

Ecco gli appuntamenti da non perdere:

Giovedì 20 aprile: ore 19.30 Rinnovo del Fuoco Sacro presso Campo Marzio; ore 20 ‘Benedictio Vrbi’ presso Piazza della Rotonda; ore 21 concerto.

Venerdì 21 aprile: dalle 9 alle 18 Mostra fotografica delle edizioni passate del Natale di Roma; dalle 10 alle 24 banchi didattici; dalle 17:30 alle 18 ‘Rievocazione tracciato del solco'; dalle 18:30 alle 19 cerimonia ‘Palile’; dalle 19 alle 20:30 concerto Banda Musicale Esercito Italiano.

Sabato 22 aprile: dalle 9 alle 18 Mostra fotografica; dalle 10 alle 12 stage formativo tra scuole di gladiatori; dalle 10 alle 14 banchi didattici; dalle 13.30 alle ore 14.30 incontro con gli scrittori presso il Castrum Repubblicano; dalle 15 alle 16:30 finale di Harpastum; dalle 15 alle 16 esibizioni combattimenti tra gladiatori; dalle 17.30 alle 19 torneo tra scuole di gladiatori; dalle 21 alle 23 spettacolo musicale Suoni e Luci.

Domenica 23 aprile: ore 11 partenza storico corteo del Circo Massimo; ore 14 Banda Musicale di Roma Capitale; ore 16:30 presentazione delle legioni e rievocazione storica delle Guerre Marcomanniche.

Il programma completo è disponibile sul sito natalidiroma.it.



giovedì 20 aprile 2023

Caratteri e impronte: Il lupo della steppa di Herman Hesse

 Dopo due post in cui i protagonisti sono stati i cavalli - quello dedicato alla cavalleria e quello su Don Chisciotte -, la rubrica su letteratura e animali, Caratteri e impronte - nata in attesa del mio secondo libro - passa a uno dei protagonisti di tante storie, favole e romanzi, simbolo della paura e dei peccati dell'umanità: il lupo, in particolare nel testo di Hesse, Il lupo della steppa.

Nella Grecia antica e non solo il lupo è personificazione della gola, intesa come fame, e dell'avidità sfrenata. Questa creatura rappresenta da sempre il lato oscuro dell’animo umano. Ecco il lupo divoratore nelle favole di Fedro ed Esopo, in Cappuccetto Rosso, nei Tre porcellini. Nel Vangelo è citato come bestia demoniaca mentre molti Padri della Chiesa lo usano come metafora per gli eretici o gli uomini del demonio. Che dire poi dell'evoluzione del lupo mannaro? 

Un'evoluzione in positivo si è avuta con la letteratura per ragazzi, che ha portato a una riconciliazione tra la figura del lupo, come fiera creatura della natura, e l’uomo, mai privo di colpe. L’animale deve rimanere libero e affrancato dal dominio umano e tornare alla sua condizione reale. 

Grazie a questo filone e alla cultura neo-ambientalista della seconda metà del Novecento, si svilupperà un atteggiamento nuovo verso il lupo, più rispettoso alle sue caratteristiche e portato alla salvaguardia della specie.

Questo animale assume quindi una simbologia complessa, diventando un qualcosa che ci portiamo dentro come un fratello nascosto. In questo è esemplare il romanzo di Herman Hesse, Il lupo della steppa. Qui il lupo è la parte dell'essere umano  che ricorda che malgrado le sovrastrutture sociali ed economiche del nostro mondo, siamo parte della natura, che si manifesta nell’inquietudine per il ricordo sempre più lontano delle nostre origini.

Nel volume si parla di un profondo dualismo: l’umanità, rappresentata dall’amore per l’arte e il divino, dalla nobiltà d’animo e di pensiero contrapposta alla bestialità, rappresentata dal lupo, alla costante ricerca dei piaceri selvaggi, ai quali il protagonista si abbandona per il disagio che prova nel mondo in cui vive, in un contesto governato da valori che non accetta. 


Ecco un estratto del libro: 

«Credi che non capisca il tuo timore del fox-trot, la tua antipatia per i bar e le sale da ballo, la tua opposizione al jazz e a tutta questa roba? capisco fin troppo, e così pure il tuo orrore della politica, la tua tristezza per le ciarle e i maneggi dei partiti irresponsabili, della stampa, la tua disperazione per la guerra, quella passata e quelle che verranno, per il modo che si ha oggi di pensare, di leggere, di costruire, di fare musica, organizzare feste, diffondere cultura! hai ragione tu, lupo della steppa, mille volte ragione, eppure devi perire. Per questo mondo odierno, semplice, comodo, di facile contentatura, tu hai troppe pretese, troppa fame, ed esso ti rigetta perché hai una dimensione in più. Chi vuole vivere oggi e godere la vita non deve essere come te o come me. Chi pretende musica invece di miagolio, gioia invece di divertimento, anima invece di denaro, lavoro invece di attività, passione invece di trastullo, per lui questo bel mondo non è una patria…» 

Abbassò lo sguardo a terra e rimase assorta nei suoi pensieri. 

«Hermine», la chiamai teneramente «che buoni occhi hai, sorella mia! Eppure sei stata tu ad insegnarmi il fox-trot, ma che cosa intendi quando dici che uomini come noi, uomini con una dimensione in più, non possiamo vivere qui? Da che cosa dipende? E’ così soltanto oggi o è sempre stato così? » 

«Non so. A onore del mondo voglio ammettere che solo il nostro tempo sia così, che sia un morbo, una disgrazia passeggera. I capi preparano con ardore e con successo la prossima guerra, noialtri intanto balliamo il fox-trot, guadagniamo denaro e mangiamo cioccolatini: in un’epoca simile il mondo dev’essere ben meschino. Speriamo che le altre epoche siano state migliori e altre diventino migliori in avvenire, più larghe, più profonde. Ma a noi serve poco. E forse è sempre stato così… » 

«Sempre come oggi? Sempre un mondo di politicanti, di trafficanti, di camerieri e uomini di mondo, senza aria per uomini veri? » 

«Perché no? Io non lo so. Non lo sa nessuno. E del resto non importa. Anch’io penso in questo momento al tuo beniamino, del quale mi hai parlato più volte e mi hai fatto anche leggere le lettere, penso a Mozart. Come sarà stato allora? Ai suoi tempi chi governava il mondo? Chi dava il tono e valeva qualcosa, Mozart o gli affaristi? Mozart o gli uomini dozzinali e superficiali? E poi come è morto, come è stato sepolto? Perciò credo che sia sempre stato così e sarà sempre così, e quella che a scuola chiamano “storia universale” e che si deve imparare a memoria per la cultura, con tutti quegli eroi, quei geni e le grandi gesta e i grandi sentimenti…non è che una turlupinatura inventata dai professori a scopi culturali, affinché i ragazzi nel periodo obbligatorio abbiano qualcosa da fare. Sempre è stato così e così sarà sempre: il tempo e il mondo, il denaro e il potere apparterranno ai piccoli e ai superficiali, mentre gli altri, i veri uomini, non avranno niente. Niente all’infuori della morte. » 

«Proprio nient’altro? » 

«Ma sì, l’eternità.» 

«Vuoi dire il nome, la fama presso i posteri?» 

«No, caro lupetto, non la gloria. Che valore può avere? E credi che tutti gli uomini autentici e completi siano diventati famosi e passati alla posterità?»

lunedì 17 aprile 2023

Archeologia. Città sommersa di Baia, individuato il tempio dei Nabatei

 Dopo il ritrovamento a Paestum e quello di un mosaico sui fondali della Città sommersa di Baia, la Campania torna a stupirci con un'altra scoperta archeologica sensazionale.

Sempre a Baia, nella zona sommersa, è stato, infatti, individuato il grande Tempio dei Nabatei, per cui le ricerche si stavano protraendo da diverso tempo. 

Il tempio è stato individuato grazie ad una prima rilevazione di due altari in marmo. Gli archeologi li collocano nella prima metà del I secolo d.C. Riferimenti a questo antico luogo sacro sono presenti in diverse lastre rinvenute negli anni che raccontavano il culto del dio Dushara. 

Ma chi erano i Nabatei? Un popolo di commercianti provenienti dall’Arabia Antica, la cui capitale riconosciuta è Petra, ma in epoca imperiale romana stabilirono uno snodo commerciale nella zona di Pozzuoli. 


Fonte: Nanopress 

Archeologia: nuove scoperte nel tempietto di Paestum

 Diverse sorprese dal Parco Archeologico di Paestum e Velia, dai lavori per riportare alla luce il tempio greco rinvenuto nel 2019 lungo le mura ovest della città antica. 

Questi nuovi ritrovamenti stanno cambiando la storia conosciuta dell'antica Poseidonia, dicono gli esperti, grazie al tempio dorico con il basamento in pietra e la cella che ospitava la statua della divinità, le decorazioni in terracotta dipinta del tetto con i gocciolatoi a forma di leone, una straordinaria gorgone, una commovente Afrodite. Ma anche sette teste di toro, l'altare con la pietra scanalata per raccogliere i liquidi dei sacrifici e centinaia di ex voto tra cui spiccano le immagini di Eros a cavallo di un delfino, che la fantasia potrebbe rimandare al mitico Poseidon, il dio che ha dato il nome alla città. 

Foto di Gianpaolo Antonucci su Unsplash

Fonte: TGCom24





giovedì 13 aprile 2023

Caratteri e impronte: Don Chisciotte e Ronzinante

 Dopo i bellissimi versi di Cavalli e Cavalieri, la rubrica dedicata a letteratura e animali, Caratteri e impronte - nata in attesa del mio secondo libro - continua a trattare la cavalleria, ma un altro punto di vista.  

Tutti conoscono almeno qualche episodio delle vicende narrate da Miguel de Cervantes di Alonso Quijana, le cui intenzioni erano di cercare di aiutare i poveri le persone in difficoltà e ottenere l'amore dell'amata. Il bizzarro personaggio vive in un mondo fantastico tutto suo. Appassionato di lettura cavalleresca, decide di farsi cavaliere errante, rivivendo un'epoca ormai tramontata, e di andarsene in giro per il mondo, facendo piazza pulita di tutte le ingiustizie, le prepotenze e i soprusi. 

Alonso, nobil uomo di campagna, decide così di darsi un nome degno di un cavaliere e dopo aver meditato per otto giorni, sceglie Don Chisciotte della Mancia. Ma non poteva essere un cavaliere senza un cavallo: ad accompagnarlo nei suoi viaggi e nelle sue imprese, oltre allo scudiero Sancho Panza, il suo "destriero". Per dargli un nome aveva riflettuto per altri quattro giorni, puntando su un appellativo che gli sembrava “maestoso” e “sonoro”, Ronzinante. Si trattava di un cavallo magrissimo che Don Chisciotte, stravolgendo i fatti, considerava alla pari dei più grandi cavalli della letteratura e della storia, come la Babieca di El Cid o Bucefalo di Alessandro Magno. Invece Ronzinante è poco più di un fantasma e Don Chisciotte è la continuazione del fantasma del cavallo: alto, magro, e sempre vestito con l’armatura fuori del tempo che aveva rispolverato e riassestato tra le cose lasciategli dai suoi antenati.


Opera di Di Honoré Daumier

Ecco un brano dell'inizio dell'opera

In un paese della Mancia, di cui non voglio fare il nome, viveva or non è molto uno di quei cavalieri che tengono la lancia nella rastrelliera, un vecchio scudo, un ossuto ronzino e il levriero da caccia. Tre quarti della sua rendita se ne andavano in un piatto più di vacca che di castrato, carne fredda per cena quasi ogni sera, uova e prosciutto il sabato, lenticchie il venerdì e qualche piccioncino di rinforzo alla domenica. A quello che restava davano fondo il tabarro di pettinato e i calzoni di velluto per i dì di festa, con soprascarpe dello stesso velluto, mentre negli altri giorni della settimana provvedeva al suo decoro con lana grezza della migliore. Aveva in casa una governante che passava i quarant'anni e una nipote che non arrivava ai venti, più un garzone per lavorare i campi e far la spesa, che gli sellava il ronzino e maneggiava il potatoio. L'età del nostro cavaliere sfiorava i cinquant'anni; era di corporatura vigorosa, secco, col viso asciutto, amante d'alzarsi presto al mattino e appassionato alla caccia.

Bisogna dunque sapere che il detto gentiluomo, nei momenti che stava senza far nulla (che erano i più dell'anno), si dedicava a leggere i libri di cavalleria con tanta passione, con tanto gusto, che arrivò quasi a trascurare l'esercizio della caccia, nonché l'amministrazione della sua proprietà; e arrivò a tanto quella sua folle mania che vendette diverse staia di terra da semina per comprare romanzi cavallereschi da leggere, e in tal modo se ne portò in casa quanti più riuscì a procurarsene.

Insomma, tanto s'immerse nelle sue letture, che passava le nottate a leggere da un crepuscolo all'altro, e le giornate dalla prima all'ultima luce; e così, dal poco dormire e il molto leggere gli s'inaridì il cervello in maniera che perdette il giudizio. La fantasia gli si empì di tutto quello che leggeva nei libri, sia d'incantamenti che di contese, battaglie, sfide, ferite, dichiarazioni, amori, tempeste e altre impossibili assurdità; e gli si ficcò in testa a tal punto che tutta quella macchina d'immaginarie invenzioni che leggeva, fossero verità, che per lui non c'era al mondo altra storia più certa.

Così, con il cervello ormai frastornato, finì col venirgli la più stravagante idea che abbia avuto mai pazzo al mondo, e cioè che per accrescere il proprio nome, e servire la patria, gli parve conveniente e necessario farsi cavaliere errante, e andarsene per il mondo con le sue armi e cavallo, a cercare avventure e a cimentarsi in tutto ciò che aveva letto che i cavalieri erranti si cimentavano, disfacendo ogni specie di torti e esponendosi a situazioni e pericoli da cui, superatili, potesse acquistare onore e fama eterna. E la prima cosa che fece fu ripulire certe armi che erano state dei suoi bisavoli che, prese dalla ruggine e coperte di muffa, stavano da lunghi secoli accantonate e dimenticate in un angolo. Le ripulì e le rassettò come meglio poté.

Andò poi a guardare il suo ronzino, e benché avesse più crepature agli zoccoli e più acciacchi del cavallo del Gonnella, che tantum pellis et ossa fuit, gli parve che non gli si potesse comparare neanche il Bucefalo di Alessandro o il Babieca del Cid. Passò quattro giorni ad almanaccare che nome dovesse dargli; perché (come egli diceva a se stesso) non era giusto che il cavallo d'un cavaliere così illustre, ed esso stesso così dotato di intrinseco valore, non avesse un nome famoso; perciò, ne cercava uno che lasciasse intendere ciò che era stato prima di appartenere a cavaliere errante, e quello che era adesso; ed era logico, del resto, che mutando di condizione il padrone, mutasse il nome anche lui, e ne acquistasse uno famoso e sonante, più consono al nuovo ordine e al nuovo esercizio che ormai professava; così, dopo infiniti nomi che formò, cancellò e tolse, aggiunse, disfece e tornò a rifare nella sua mente e nella sua immaginazione, finì col chiamarlo Ronzinante, nome, a parer suo, alto, sonoro e significativo di ciò che era stato ante quando era ronzino, e quello che era ora, primo ed innante a ogni ronzino al mondo.

Avendo messo il nome, con tanta soddisfazione, al suo cavallo, volle ora trovarsene uno per sé, e in questo pensiero passò altri otto giorni, finché si risolse a chiamarsi don Chisciotte.

Ma, da buon cavaliere, volle egli aggiungere al suo il nome della sua patria e chiamarsi don Chisciotte della Mancia, e così a parer suo egli veniva a dichiarare apertamente il suo lignaggio e la sua patria, e la onorava, assumendone il soprannome.

Ripulite dunque le armi, battezzato il ronzino e data a se stesso la cresima, si convinse che non gli mancava ormai nient'altro se non cercare una dama di cui innamorarsi: perché un cavaliere errante senza amore è come un albero senza né foglie né frutti o come un corpo senz'anima. Oh, come si rallegrò il nostro buon cavaliere quand'ebbe trovato colei a cui dar nome di sua dama! Ed è che, a quanto si crede, in un paesetto vicino al suo c'era una giovane contadina di aspetto avvenente, di cui un tempo egli era stato innamorato, benché, a quanto è dato di credere, essa non ne seppe mai nulla e non se ne accorse nemmeno. Si chiamava Aldonza Lorenzo: ed è a costei che gli parve bene dare il titolo di signora dei suoi pensieri; e cercandole un nome che non disdicesse molto dal suo, e che si incamminasse a esser quello di una principessa e gran dama, la chiamò Dulcinea del Toboso, perché era nativa del Toboso: nome che gli parve musicale, prezioso e significativo, come tutti gli altri che aveva imposto a se stesso e alle proprie cose.


martedì 11 aprile 2023

Città sommersa di Baia, trovato un nuovo mosaico azzurro

 Nuova scoperta nella città sommersa di Baia, in Campania, nell'area dei Campi Flegrei. Infatti, è stato trovato, presso le Terme del Lacus, un nuovo mosaico sui fondali. Si tratta di una splendida composizione con tessere bianche, azzurre e sfumature rosse, risalente probabilmente all'Antica Roma, circa duemila anni fa. 

Per gli archeologi del Parco Archeologico dei Campi Flegrei, lo stile somiglierebbe a quello in voga nell'antica Tunisia, dove si trovava all'epoca Cartagine.

Un'immagine della città sommersa di Ruthven - Opera propria, CC0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=71068430

La nota del Parco Archeologico dei Campi Flegrei riporta: "Nel suo tondo centrale, non ancora del tutto scoperto, si nasconde una figura di difficile lettura. Non ci sbilanciamo sulla sua interpretazione, ma quelle linee rosse rese con tessere allungate sono sicuramente molto particolari".

Fonte: Fanpage

giovedì 6 aprile 2023

Caratteri e impronte: cavalli e cavalieri

 L'articolo su Carlo Magno e sull'influenza che ha avuto sulla letteratura pubblicato il 2 aprile, mi ha dato il "La" per questo nuovo appuntamento con Caratteri e impronte, rubrica - nata in attesa della pubblicazione del mio secondo libro - dedicata a letteratura e animali. In questa nuova puntata parleremo infatti dei cavalli, che hanno avuto un ruolo di rilevo nei romanzi francesi medievali e nei poemi cavallereschi italiani. 

Si tratta, spesso, non solo di semplici destrieri ma di animali in grado di aiutare il proprio padrone grazie alla loro intelligenza e alla loro forza e a volte grazie ai poteri magici di cui sono dotati. Ma il cavallo non è solo il fido compagno del cavaliere: diverse volte, infine, è visto come un oggetto del desiderio da parte di altri cavalieri, allo stesso modo della spada o di altri strumenti. 

Dopo aver ricordato La carriola di Luigi Pirandello e Moby Dick di Hermann Melville, ecco quindi i cavalli di Rinaldo, Orlando e Astolfo, tre dei cavalieri più famosi del ciclo carolingio, visti soprattutto nelle descrizioni del Morgante di Luigi Pulci, dell'Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo e dell'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto.


Baiardo, il cavallo di Rinaldo

Il cavallo che dimostra di avere maggiormente caratteristiche eccezionali è Baiardo, il destriero magico di Rinaldo, che come Rabicano, prende il nome dal colore del manto: si tratta, infatti, di un baio, dal mantello rossastro, con estremità, coda e criniera nere.

L'animale è al centro di diversi episodi dei romanzi francesi e nei poemi cavallereschi italiani ed è descritto come un cavallo dal carattere forte, che si distingue per velocità e intelligenza - "Fece il destrier, ch’avea intelletto umano", dice l'Ariosto nell'Orlando Furioso - e per l'attaccamento al padrone.

Secondo la tradizione anteriore alla letteratura cavalleresca italiana del Quattrocento e del Cinquecento, Baiardo sarebbe stato regalato ai quattro figli di Aimone da Carlo Magno. Una delle sue caratteristiche è quella di allungarsi nel caso dovesse essere montato da tutti e quattro i fratelli.

Nei poemi italiani di Pulci, Boiardo e Ariosto, Baiardo è un elemento indispensabile alla forza del suo cavaliere Rinaldo, si muove in autonomia a volte per partecipare al combattimento assieme a Rinaldo. Nell'Orlando Furioso è la pietra di paragone con cui devono confrontarsi tutti gli altri cavalli.

Nell'Orlando Furioso, viene introdotto in un comportamento a lui insolito: è sfuggito a Rinaldo, che lo insegue invocando il suo nome. Vengono descritte la sua potenza e la sua intelligenza: si ribella a chi lo cavalca, esegue appostamenti e si fa inseguire dal padrone per giorni nella foresta per ricondurlo dall'amata.

Quando Rinaldo si trova davanti Sacripante in groppa a Baiardo, e in compagnia di Angelica, lo sfida e i due cavalieri duellano. Contravvenendo al codice cavalleresco, Sacripante resta in sella per affrontare un uomo a piedi: interviene così Baiardo, che è sempre dalla parte del suo padrone.

A piedi è l’un, l’altro a cavallo: or quale

Credete ch’abbia il Saracin vantaggio?

Né ve n’ha però alcun; che così vale

Forse ancor men d’un inesperto paggio;

che ‘l destrier per istinto naturale

non volea fare al suo signore oltraggio:

né con man né con spron potea il Circasso

farlo a voluntà sua muovere il passo.

Quando crede cacciarlo, egli s’arresta:

e se tener lo vuole, o corre o trotta:

poi sotto il petto si caccia la testa,

giuoca di schiene, e mena calci in frotta

Vedendo il Saracin ch’a domar questa

bestia superba era mal tempo allotta,

ferma le man sul primo arcione e s’alza

e dal sinistro fianco in piede sbalza.

Vegliantino o Brigliadoro, il cavallo di Orlando

Vegliantino è il cavallo di Orlando, paladino di Francia, nella letteratura cavalleresca medievale e rinascimentale. Il nome compare per la prima volta nella Chanson de Roland nella forma Veillantif. Nella tradizione italiana il nome compare nel Morgante, mentre Boiardo nell'Orlando innamorato lo rinomina Brigliadoro, seguito da Ariosto.

Nella Canzone d'Aspromonte, chanson de geste francese del XII secolo, appartenente al ciclo carolingio, si narra che Vegliantino originariamente apparteneva ad Helmont (Almonte), figlio di Agolante, re saraceno, ma passò ad Orlando, insieme alla spada Durlindana, dopo la sconfitta di Almonte nella battaglia di Aspromonte.

L'animale non ha tratti magici o particolari nelle tre principali opere italiane.

Ecco una delle sue apparizioni nel Morgante:

Orlando poi che si partì d’Antea,

Avea del sangue de’ Pagani un guazzo

Fatto, che già verso il fiume correa,

 Tanti n’uccide di quel popol pazzo:

Sempre in alto la spada si vedea,

Sì che di morti copriva lo spazzo;

E Vegliantino alle volte si serra,

Ed urta e caccia assai gente per terra.


 Bene è questo caval quel Vegliantino,

Acciò che error non pigli chi m’ascolta,

Che fu di Almonte degno Saracino;

Così, quando Baiardo alcuna volta

Si dice, non è falso il mio latino,

Chè fia col signor lor la vita tolta:

Ed è ragion, che la grazia del cielo

Conservi ognun che conserva il Vangelo.

Rabicano, il cavallo di Astolfo

Se Brigliadoro non ha poteri particolari, Rabicano, il cavallo di Astolfo, come Baiardo, ha caratteristiche magiche. E' senza peso e non lascia impronte non si nutre di fieno ma solo d’aria pura: è nato da una fiamma a forma di cavalla e un soffio di vento. Il suo nome, come per Baiardo, deriva dal manto, in questo caso pezzato. 

Ecco la descrizione di Boiardo:

Fu il caval fatto per incantamento

perché di foco e di favilla pura

fu finta una cavalla a compimento

benché sia cosa fuor de natura

Questa dapoi se fie’ pregna di vento:

nacque il destrier veloce a dismisura 

che erba di prato né biada rodea

ma solamente de aria se pascea.


Lo specchio di Giano e gli dei

 Avendo deciso di scrivere un romanzo ispirato agli Etruschi e ai popoli antichi non ho potuto fare a meno, in Lo specchio di Giano , di da...