Il 1 maggio di ogni anno a Cocullo, un borgo in provincia dell’Aquila, si tiene uno degli eventi folcloristici più famosi d’Abruzzo. Si tratta della “festa dei serpari”, dedicata a San Domenico ma con origini ben più antiche, in particolare, dal culto della dea italica Angizia, secondo alcuni studiosi.
Il culto di Angizia
Angizia, il cui nome deriva da anguis, serpente, era una divinità italica adorata principalmente da Marsi, Peligni e da altri popoli di origine osco-umbra ed era associata soprattutto al culto dei serpenti e alla fecondità. Un attributo, quello delle serpi, che richiama chiaramente alla figura di una Dea Madre, alla Terra, e più in generale alla Natura. Angizia, come molte delle antiche Dee Madri era anche una maga, capace quindi di compiere guarigioni miracolose. I Marsi le attribuivano una conoscenza superiore dell’uso delle erbe salvifiche, in particolare quelle contro i morsi di serpente. Tra i suoi vari poteri, aveva quello di uccidere i rettili col suo solo tocco. Così scrive Silio Italico (Punicae libro VIII, 495-501) “Angitia, figlia di Eeta, per prima scoprì le male erbe, così dicono, e maneggiava da padrona i veleni e traeva giù la luna dal cielo; con le grida i fiumi tratteneva e, chiamandole, spogliava i monti delle selve“. Sembra che le sacerdotesse dedite al culto di Angizia sapessero preparare antidoti contro i veleni di serpenti.
Ci sono altre tradizioni che richiamano l'antico culto di Angizia, oltre a quella di Cocullo. Tra queste, la cerimonia che si svolge a Luco dei Marsi il giorno di Pentecoste che prevede la presenza degli zampognari con sosta presso i ruderi del tempio di Angizia.
Angizia è uno dei personaggi chiave dell'ebook ispirato ai popoli antichi e agli Etruschi Lo specchio di Giano. Ecco il brano dell'incontro tra la protagonista Steleth e la dea:
Da punto dove si trovava in quel momento, si intravedeva l'ingresso della Rocca della Pietra. Uno stretto sentiero ripido la portò sotto la grossa porta di ferro, con borchie dorate. Tra lei e l'entrata però c'era un salto di almeno quattro metri: la scala per entrare, molto probabilmente doveva essere calata dall'interno del castello o forse c'era qualche struttura invisibile anche in quel caso? Cercando ancora a tastoni, la strega non trovava nulla e stava per risolversi a costruire una piccola scala a pioli aiutandosi con la magia, quando la porta si aprì e apparve sulla soglia, in alto, una Arath, bellissima, dall'espressione triste e con un occhio dalla pupilla bianca. I capelli corvini e mossi le scendevano sulle spalle e ondeggiavano alla brezza fino alle ginocchia, contrastando con la sua pelle chiarissima. Le sopracciglia erano folte e ben distanziate. La bocca era carnosa e scura, sormontata da un naso fine e regolare, incastonati in un volto ovale. Il suo peplo senza maniche in lino del colore della nocciola accompagnava leggero le sue forme slanciate ed era fermato in vita da una cintura dorata. A coprirla un insolito mantello, sempre nocciola, maculato di marrone scuro, a riprodurre la pelle di un serpente. E una serpe vera che stava appoggiata sopra le sue spalle, bianca con macchie ocra, ogni tanto muoveva la testa nell'atto di osservarsi intorno. La portava come se fosse un gioiello mentre i suoi monili erano composti di bronzo, pietre dure e pasta vitrea nei toni neutri del grigio e della terra.
"Non c'è nessuna scala invisibile e nessun incantesimo che può portarti qui sopra. Sono io a decidere se puoi passare. Sono Angizia, la signora dei serpenti, dea adorata un tempo dai popoli della regione centrale dei monti di Penn. Ho insegnato alle Arath a curare il morso dei serpenti e a padroneggiare l'uso delle buone e delle male erbe e a realizzare i primi incantesimi. Poi sono stata dimenticata. Sono stata posta dal dio reggente a guardia di questo luogo in modo che nessun malevolo possa passare".
Steleth si emozionò a quelle parole, riconoscendo nella dea la madre di tutte le streghe di terra.
Senza aggiungere altro, con un cenno della mano, Angizia fece apparire una scala in muratura da cui la mortale potè salire. Si trovarono in un ingresso stretto, tra il muro e uno spazio spoglio sulla destra dove un tempo forse erano lasciati i cavalli. Un'altissima scala a pioli portava al livello superiore. Angizia salì per prima e invitò Steleth a seguirla.
Arrivarono quindi alla grande sala del castello dalla cui apertura si poteva controllare l'intera valle e che faceva sentire fragili mostrando lo strapiombo che scendeva a picco dai due costoni di roccia e che rendeva quel luogo inespugnabile. Nella stanza non c'era nulla ma i muri erano affrescati ancora con i dipinti originari, che apparivano un po' consumati dal tempo, con le storie degli eroi dei Ligi.
Steleth e Angizia si misero una di fronte all'altra accanto alla finestra, da cui soffiava un vento leggero.
“Mia signora, il sapere e le doti delle Arath hanno origine da te e noi tutte studiamo e ci appassioniamo alla magia studiando la tua storia”, disse Steleth un po' intimorita. “Negli anni ho approfondito la nostra disciplina seguendo l'insegnamento di maestri e libri illustri. Le ultime esperienze che ho avuto, però, mi hanno mostrato che spesso tradizione e realtà non corrispondono. Ti prego, puoi raccontarmi di te?”
“Le storie e le tradizioni sono spesso tramandate dai vincitori per coprirsi di gloria, giustificare le loro azioni inique e far sì che il popolo li segua senza ribellarsi, pensandoli nel giusto. Nacqui dall'amore tra il dio Giano e l'Arath Arunthia e dopo un'infanzia nella foresta delle martore, tra le cime più alte dei monti di Penn, dove imparai a dominare i serpenti, mio padre mi mandò a Ianua, la città sul mare qui vicino. Qui insegnai ai terrestri le arti della guarigione e a come realizzare medicine dal veleno delle angui e grazie alle erbe. Con la devozione dei fedeli, i miei poteri crebbero. Sarei stata in grado di trarre giù la Luna dal cielo, trattenere il corso dei fiumi con un solo grido e spogliare i monti dallo loro selve, solo chiamandole. Ma non lo feci mai perché il mio amore per la natura è sempre stato sconfinato. Accade però che spesso anche gli dei, come i mortali, cadano in balia della passione. Successe anche a me. Quando lo vidi la prima volta, Argos correva nella foresta a caccia di un cinghiale, aiutato dai cani. La preda corse da me perché lo proteggessi e così fu. Non concessi la vittima al cacciatore ma caddi vittima io stessa. L'uomo, grazie alla sua intelligenza e alla sua arguzia, associate a una bellezza fuori dal comune, catturò il mio amore. Il suo scopo, però, non era quello di ricambiare il mio sentimento ma quello di usarmi per avere il Bracciale delle Fiere, un gioiello in elettro e pietre dure di diversi colori legati ognuno alle diverse specie, che donava a chi ne entrava in possesso la possibilità di comprendere il linguaggio degli animali. Giano lo aveva affidato a me e io lo custodivo con attenzione e gelosia. Il suo intento non era quello di usarlo per sostenersi e nutrirsi ma per arricchirsi, catturando e uccidendo quante più prede possibile. Dapprima me lo chiese in nome del nostro amore poi prese a mettermi di fronte a piccoli ricatti. Infine, si mostrò per quello che era: un opportunista pronto a passare sopra ogni cosa pur di arrivare alla sua meta. Stavamo stesi nella foresta dopo i nostri atti d'amore e approfittando di quel momento di dolcezza, mi chiese ancora il bracciale. Io nuovamente glielo negai e lui decise di prendermelo con la forza. Nella lotta, lui usò contro di me le sue armi e fu in quella contingenza che rimasi con un solo occhio. Alla fine, ferita e angosciata, fui io a soccombere e Argos prese dal mio braccio il gioiello e scappò. Le Lase dei boschi e gli animali accorsero ai miei lamenti e mi aiutarono. Una volta ripresa, la sete di vendetta e una furia incontrollabile contro tutto e tutti presero nel mio animo il posto del sentimento più nobile. Lasciai le terre di Ianua per inseguire quell'uomo, portando carestia e devastazione ovunque passassi. Alla fine lo trovai e lo punii, riprendendomi il bracciale e rinchiudendolo per il resto nei suoi giorni in fondo ad un pozzo. Ma il sapore della mia rivincita fu amaro. Le regioni che avevo attraversato erano brulle e prive di vita. Tornata a Ianua, gli abitanti erano disperati per la carestia che avevo causato e per il fatto che non rispondessi più alle loro preghiere. Fortunatamente riuscii a rimediare, ripristinando boschi e foreste e richiamando gli animali che erano fuggiti in cerca di cibo altrove e chiedendo alla dea Semia di aiutare gli uomini nella gestione dei campi. Vennero poi altre dee più belle e più potenti e anche io, come Mefite e Satres, fui dimenticata dai terrestri. Il bracciale delle fiere fu donato a una di queste. Nel conflitto degli eterni ho combattuto al fianco di Maris, che mi diede in cambio la possibilità di tornare a proteggere le selve di Ianua. Poi quando Culsu fu cacciata mi mise a guardia di questo posto, per respingere gli indegni e lasciare il passo a chi merita di arrivare all'antro di Tufulta”.
La festa dei serpari
I serpenti, rigorosamente non velenosi, vengono catturati a marzo e allevati fino al giorno della festa. Il 1 maggio la folla tira con i denti la campanella della cappella del Santo all'interno della chiesa omonima. Secondo la tradizione, questa cerimonia servirebbe a proteggere i denti dalle malattie che li potrebbero affliggere, essendo l'Abate Domenico protettore del mal di denti.
A mezzogiorno, dopo la Santa Messa, inizia la processione della statua del Santo invasa dalle serpi tra le stradine del cento storico. Se il viso di San Domenico viene coperto, questo sarà un segno infausto, come anche la caduta di uno o più serpenti a terra. Ai fianchi della statua, due ragazze vestite con abiti tradizionali, portano sulla testa un cesto contenenti cinque pani sacri chiamati ciambellani in memoria di un miracolo che fece san Domenico. Questi pani vengono donati per antico diritto ai portatori della Sacra Immagine e del gonfalone.
Al termine della festa, la statua è riportata in chiesa, si assiste allo sparo dei mortaretti, si mangiano i pani sacri e i rettili vengono riportati al loro habitat naturale dai serpari. I fedeli raccolgono una manciata di terra da dietro alla nicchia del Santo per portarla nella propria casa in segno di buon auspicio.
San Domenico e i serpenti
Di Ewa hermanowicz - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=68708528
San Domenico, nato a Foligno intorno al 915, dopo molti spostamenti in tutto il centro Italia si stabilì in Abruzzo, prima a Villalago, poi, dopo alcune persecuzioni, a Cocullo. Qui le persone vivevano per lo più all’aperto ed erano frequentemente vittime di morsi di serpenti e di vipere, di cui la zona era piena.
Il Santo guarì gli abitanti del villaggio dal veleno e salvò delle donne a cui, si dice, dormendo in aperta campagna le vipere avevano succhiato il latte materno o erano penetrate nello stomaco. San Domenico, taumaturgo e guaritore, viene evocato per proteggersi dal morso dei serpenti e dei cani rabbiosi, contro le intemperie, per scacciare malattie come la malaria e per curare il mal di denti.