venerdì 31 maggio 2024

Scipione Maffei

 Scipione Maffei (Verona, 1 giugno 1675 – Verona, 11 febbraio 1755) è stato uno storico, drammaturgo, diplomatista, paleografo ed erudito italiano, un personaggio che con la sua passione per le arti e la scienza, ha lasciato un segno nella cultura italiana, soprattutto nelle generazioni successive alla sua.

E' stato autore di trattati su vari argomenti, tra cui la politica, le scienze, la storia, la paleografia e il teatro, come il Discorso intorno al teatro italiano, dove afferma la necessità di una rinascita della tragedia in Italia, che secondo lui doveva avere uno scopo morale, oltre a essere di facile lettura e chiara interpretazione. Fu autore anche di diverse opere poetiche, come le Rime, di stampo petrarchesco, e opere teatrali.

Vi lascio con due curiosità. Maffei ha contribuito alla scoperta di importanti manoscritti alla Biblioteca Capitolare di Verona ed ebbe un ruolo anche in ambito scientifico. Fu lui il primo a comprendere che i fulmini visibili dal nostro occhio si formano dal basso e poi ascendono verso le nubi. 



Ecco una poesia tratta dalle Rime.


Que' fieri lacci, onde il mio cuore avvolsi

Quando nella prigion sì lieto entrai,

Tanto con la Ragion feroce oprai,

Che per man dello sdegno alfin disciolsi.

Ma appena indietro a rimirar mi volsi

Gl’infranti nodi ed i fuggiti guai,

Che a mio dispetto ancora io sospirai,

Ed or di sua vittoria il cor già duolsi.

Qual’infelice augel, che in gabbia adorna

Trasse i lunghi suoi dì, s’avvien che n’esca,

All’antica prigion da se ritorna.

Tal’ io nel carcer, che sì dolce ha l’esca,

Ritornerò, s’altri non mi frastorna;

Così già par, che libertà m’incresca.


venerdì 24 maggio 2024

La polena Atalanta

 Torno sulle leggende della mia regione di origine che ho ritrovato nel libro di Aldo Rossi "Liguria magica". Si tratta della storia inquietante e affascinante che chiude il volume e che risale a un passato abbastanza recente, ossia nel XX secolo. 

I marinai di una nave che stava navigando nell'Atlantico trovarono un particolare relitto: una polena bellissima, realizzata con tale maestria da sembrare vera. Un oggetto dal fascino sottile, da cui fu stregato il capitano del veliero, che impazzì d'amore per lei. Arrivata a La Spezia, la polena, chiamata Atalanta o La Fuggitiva, fu collocata nel Museo Navale, dove si trova tutt'ora, e qui fece accendere di passione un operaio dell'Arsenale, che arrivò a togliersi la vita per lei. La stessa sorte toccò a un ufficiale tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale, che la fece trasportare in un alloggio privato per poterla adorare in privato. Il militare si suicidò lasciando questo biglietto: "Poiché nessuna donna oltre a te può darmi la vita dei sogni, o Atalanta, io ti sacrifico la mia vita".



giovedì 23 maggio 2024

Liguria magica

"Gualberto, un cavaliere che amava la poesia più che le armi, aveva avuto l'ordine dal feudatario di cui era seguace di custodire e difendere il Castello della Pietra. Il giovane era innamorato di Francesca, figlia di un barone, nemico del suo feudatario, che non ricambiava i suoi sentimenti a causa della sua condizione sociale meno elevata. Dopo un periodo di tensione tra i due nobili, il barone decise di assediare il castello, ma con poco successo. Allora, giocò d'astuzia usando proprio la figlia come esca: la ragazza venne mandata sotto le mura e alla sua vista Gualtiero corse subito fuori, lasciando aperto l'ingresso del maniero. Gli assedianti, fino a quel momento nascosti, irruppero nel castello, facendo strage dei suoi abitanti".

Questa è una delle leggende tratte da "Liguria Magica" di Aldo Rossi, che narra delle storie popolari della regione italiana. Sono davvero tanti i racconti che hanno attratto la mia attenzione come quello sopra, che riguarda il Castello della Pietra di Vobbia, costruito, come si vede dalla foto , in un luogo impervio e accessibile soltanto tramite un sentiero. Si tratta di un luogo che ho visitato anni fa e mi ha molto affascinato. Questo piccolo maniero è al centro di diverse storie che raccontano di diavoli, streghe e fantasmi ma in questo caso Aldo Rossi racconta una storia che non avevo mai ascoltato o letto. 


Mi sono ispirata a questo castello per l'ambientazione di uno dei passi più significativi di Lo specchio di Giano, in un capitolo in cui riprendo anche le leggende che lo vedono come protagonista.

Ecco la mia interpretazione di una delle storie sul Castello nelle parole della strega Saberia (qui altri estratti): 

"Qui anche il tempo è come sospeso e corre con leggi tutte sue. In tanti hanno provato a raggiungere il castello in questo modo ma si sono persi e non sono mai più tornati indietro. Dovrai guardare la Luna e andare nella sua direzione. In questo modo arriverai al ponte di Zan. Questa struttura ha preso il nome dal cavaliere che chiese al dio Calus di costruirlo per salvare la sua amata, rimasta bloccata alla fortezza per la distruzione portata dallo Scontro degli Eterni. Il dio gli chiese in cambio che chi fosse passato per primo sulla struttura avrebbe dovuto andare per sempre con lui a Tufulta, nel regno dell'Orco. Cercava così di avere l'anima di Zan, per far crescere il suo regno. Il ragazzo riuscì a ingannarlo con un'astuzia: dalla Beserga, lanciò al suo cane sul ponte un pezzo di formaggio e l'animale lo rincorse, passando per primo. Calus, gabbato, portò l'animale con sé, dandogli il nome di Ortro e ponendolo a fianco del suo trono. Il dio maledisse Zan, che una volta riunitosi con la sua amata e tornato al suo villaggio fu travolto, con lei, da una frana. Attraversando questo ponte, sarai alla Rocca. Questo è quello che ci hanno tramandato i racconti dei nostri avi. Spero che ti possa essere di aiuto”.



domenica 19 maggio 2024

I Motti di Pietro Bembo

 E anche l'insospettabile Pietro Bembo, di cui oggi ricorre l'anniversario della nascita, avvenuta il 20 maggio 1470, si è lasciato sedurre da componimenti di natura ironica e licenziosa. Lui, nella questione della lingua, sostenitore della teoria secondo cui la poesia doveva seguire le orme di Petrarca e la prosa quelle di Boccaccio, lui una delle persone che ha influenzato maggiormente la poesia italiana dei secoli successivi al Cinquecento, guidandola nell'uso delle forme trecentesche usate dal poeta fiorentino, è infatti l'autore di un'opera che con la sua "dottrina" non ha molto a che fare.

Si tratta dei Motti, che il principe del classicismo rinascimentale italiano, per ovvie ragioni non ha pubblicato in vita e che sono stati tramandati per via manoscritta.

L'opera è stata composta durante il soggiorno a Urbino, dove l'autore si trovò dal 1506 al 1508, grazie al clima raffinatamente giocoso della corte di Guidubaldo da Montefeltro ed Elisabetta Gonzaga.

I Motti sono composti da 156 distici di endecasillabi a rima baciata, per un totale di 312 versi, irriducibili ai canoni poetici codificati da lui stesso.

Questo lavoro, infatti, mette insieme varie forme espressive molto diffuse all'epoca, come centone, frottola, proverbio e indovinello, e attinge a fonti disparate: dalla tradizione dei proverbi greco-latina a Petrarca, da Dante (!) agli umanisti del circolo di Lorenzo il Magnifico. Queste fonti sono interpretate in chiave ironico-grottesca, a volte oscena, come accade a inizio e conclusione dell'opera (se volete approfondire, qui un articolo dedicato) . Se volete leggere i Motti, li trovate qui


Ecco qualche esempio, in cui si intravede la distanza dalla lingua teorizzata dallo stesso Bembo per la poesia: 

Chi ama et sofferenza in sè non aue,

piglia senza gouerno a regger naue.


Non ben si corre sempre a quel che piace,

et spesso in mezzo i fior la serpe giace.


Non corre bene un cane ad ogni caccia,

et poco stringe quel che tutto abbraccia.


Nostro ben, nostro mal uien nelle fasce,

sua ventura ha ciascun dal dì che nasce.


Non ti doler se gran beltà non hai:

chi piace ad uno amante è bella assai.


Quel peso che fortuna imposto t'haue

porta ridendo, et s'il farai men graue.


Ogni bestia che pasce non è toro,

nè tutti i gialli son topatj et oro.


giovedì 16 maggio 2024

Bianca Laura Saibante

 E' nata il 17 maggio 1723 a Rovereto la poetessa Bianca Laura Saibante, cofondatrice dell’Accademia Roveretana degli Agiati, di cui la scrittrice disegnò il simbolo. Il nome indicava come gli studiosi e le studiose si dedicassero alla letteratura comodamente e senza fretta. L'accademia esiste tuttora: è un’importante associazione culturale che ospita convegni, conferenze, progetti di ricerca, collezioni e mostre.

Dopo essersi dedicata alla poesia petrarchesca - un esempio è quello che vedete nella foto - e alla novella giocosa passò ai più seri ragionamenti in prosa, dove parla anche della condizione femminile dell'epoca. 

La poetessa era convinta che tra donne e uomini vi fosse una perfetta eguaglianza dello spirito. Attaccò anche la consuetudine di dare la precedenza alle donne: "Come le agevolezze, che s’usano verso gli infermi, così le cortesie verso le donne, non significano riverenza, ma compassione", afferma nei Discorsi e lettere, p. 51. Mise dunque in guardia le donne dall’accettare alcuni gesti degli uomini: assecondarli non faceva altro che confermare il pensiero che la donna non fosse in grado di fare da sé.

Non hommi bianco il volto e l’alma nera,

Lettor gentil, nè sotto vario aspetto
So pinger ciò che nutro o celo in petto,
Nè villana già sono o menzognera.

Ciò che fuggo il mattin spregio la sera;
D’ombre vane non pasco l’intelletto;
Son nemica mortal di rio sospetto;
Ed ho candido il cor, la fè sincera.

Il conversar mi piace, il giuoco, il riso;
Non son soverchio allegra, non ritrosa;
     E al retto e saggio oprar ho il cor sol fiso.

Or venga, chiunque vuol, il mio ritratto
A riguardar, ch'è pur mirabil cosa,
Com’esso mi assomiglia affatto affatto.

sabato 11 maggio 2024

Poesie per la Festa della Mamma

 Si avvicina la festa della mamma 2023, che quest'anno si festeggia domenica 14 maggio. Un modo originale per fare gli auguri a una delle persone più importanti della propria vita è dedicarle una poesia. Eccone una lista per grandi e piccini!


"Per la mamma" di Gianni Rodari

 Filastrocca delle parole:

si faccia avanti chi ne vuole.

Di parole ho la testa piena,

come dentro ‘la luna’ e ‘la balena’.

Ma le più belle che ho nel cuore,

le sento battere: ‘mamma’, ‘amore’.

"La parola più bella" di Marino Moretti

 Mamma. Nessuna parola è più bella.

La prima che si impara,

la prima che si capisce e che s’ama.

La prima di una lunga serie di parole

con cui s’è risposto alle infinite,

alle amorose, timorose domande

della maternità.

E anche se diventassimo vecchi,

come chiameremmo la mamma

più vecchia di noi?

Mamma.

Non c’è un altro nome.

"La madre" di Edmondo De Amicis

 Vi è un nome soave in tutte le

o lingue, venerato fra tutte le genti.

Il primo a che suona sul labbro

del bambino con lo svegliarsi

della coscienza. L’ultimo che mormora

il giovinetto in faccia alla morte;

un nome che l’uomo maturo e il vecchio

invocano ancora, con tenerezza

di fanciulli, nelle ore solenni della vita,

anche molti anni dopo che non è più

sulla terra chi lo portava; un nome

che pare abbia in sé una virtù misteriosa

di ricondurre al bene. Di consolare e

di proteggere. Un nome con cui si dice

quanto c’è di più dolce. Di più forte.

Di più sacro all’anima umana.

La madre.

"A mia madre" di Eugenio Montale

Ora che il coro delle coturnici

ti blandisce nel sonno eterno, rotta

felice schiera in fuga verso i clivi

vendemmiati del Mesco, or che la lotta

dei viventi più infuria, se tu cedi

come un’ombra la spoglia

(e non è un’ombra,

o gentile, non è ciò che tu credi)

chi ti proteggerà? La strada sgombra

non è una via, solo due mani, un volto,

quelle mani, quel volto, il gesto d’una

vita che non è un’altra ma se stessa,

solo questo ti pone nell’eliso

folto d’anime e voci in cui tu vivi;

e la domanda che tu lasci è anch’essa

un gesto tuo, all’ombra delle croci.

"La madre" di Victor Hugo

La madre è un angelo

che ci guarda che ci insegna ad amare!

Ella riscalda le nostre dita,

il nostro capo fra le sue ginocchia,

la nostra anima nel suo cuore:

ci dà il suo latte quando siamo piccini,

il suo pane quando siamo grandi

e la sua vita sempre.

mercoledì 8 maggio 2024

Lemuria o Lemuralia

 Il 9 maggio nell'antica Roma iniziavano le celebrazioni dei Lemuralia o Lemuria, che si prolungavano fino al 13 del mese. Si tratta di una festa nata per esorcizzare i  lemuri, ossia spiriti dei morti che non riuscivano a trovare pace poiché deceduti a causa di una morte violenta. Secondo la tradizione, a istituire queste celebrazioni fu il primo re di Roma, Romolo, per placare lo spirito di Remo, il fratello morto per mano sua. In questi giorno, il pater familias gettava alle sue spalle alcune fave nere per il numero simbolico di nove volte, recitando formule propiziatorie. Durante queste festività era proibito sposarsi.

Come tante altre tradizioni antiche, anche per quanto riguarda i Lemuralia qualcosa è sopravvissuto fino a noi. Nel 609 papa Bonifacio IV sostituì questa festa con il giorno di Ognissanti, che fu celebrato il 13 maggio fino al 732, anno in cui papa Gregorio III ne trasferì la celebrazione al 1 novembre. Bonifacio IV consacrò il Pantheon a Roma per la Beata Vergine e gli altri martiri. 

Il passaggio dal Paganesimo al Cristianesimo mi ha sempre affascinato soprattutto per quanto riguarda quello che degli antichi rituali e credenze è rimasto nelle epoche successive. Attualmente sono impegnata in un lavoro sul tema. Spero di aggiornarvi presto!




mercoledì 1 maggio 2024

La festa dei serpari e il culto di Angizia

Il 1 maggio di ogni anno a Cocullo, un borgo in provincia dell’Aquila, si tiene uno degli eventi folcloristici più famosi d’Abruzzo. Si tratta della “festa dei serpari”, dedicata a San Domenico ma con origini ben più antiche, in particolare, dal culto della dea italica Angizia, secondo alcuni studiosi. 

Il culto di Angizia

Angizia, il cui nome deriva da anguis, serpente, era una divinità italica adorata principalmente da Marsi, Peligni e da altri popoli di origine osco-umbra ed era associata soprattutto al culto dei serpenti e alla fecondità. Un attributo, quello delle serpi, che richiama chiaramente alla figura di una Dea Madre, alla Terra, e più in generale alla Natura. Angizia, come molte delle antiche Dee Madri era anche una maga, capace quindi di compiere guarigioni miracolose. I Marsi le attribuivano una conoscenza superiore dell’uso delle erbe salvifiche, in particolare quelle contro i morsi di serpente. Tra i suoi vari poteri, aveva quello di uccidere i rettili col suo solo tocco. Così scrive Silio Italico (Punicae libro VIII, 495-501) “Angitia, figlia di Eeta, per prima scoprì le male erbe, così dicono, e maneggiava da padrona i veleni e traeva giù la luna dal cielo; con le grida i fiumi tratteneva e, chiamandole, spogliava i monti delle selve“. Sembra che le sacerdotesse dedite al culto di Angizia sapessero preparare antidoti contro i veleni di serpenti.

Ci sono altre tradizioni che richiamano l'antico culto di Angizia, oltre a quella di Cocullo. Tra queste, la cerimonia che si svolge a Luco dei Marsi il giorno di Pentecoste che prevede la presenza degli zampognari con sosta presso i ruderi del tempio di Angizia.

Angizia è uno dei personaggi chiave dell'ebook ispirato ai popoli antichi e agli Etruschi Lo specchio di Giano. Ecco il brano dell'incontro tra la protagonista Steleth e la dea

Da punto dove si trovava in quel momento, si intravedeva l'ingresso della Rocca della Pietra. Uno stretto sentiero ripido la portò sotto la grossa porta di ferro, con borchie dorate. Tra lei e l'entrata però c'era un salto di almeno quattro metri: la scala per entrare, molto probabilmente doveva essere calata dall'interno del castello o forse c'era qualche struttura invisibile anche in quel caso? Cercando ancora a tastoni, la strega non trovava nulla e stava per risolversi a costruire una piccola scala a pioli aiutandosi con la magia, quando la porta si aprì e apparve sulla soglia, in alto, una Arath, bellissima, dall'espressione triste e con un occhio dalla pupilla bianca. I capelli corvini e mossi le scendevano sulle spalle e ondeggiavano alla brezza fino alle ginocchia, contrastando con la sua pelle chiarissima. Le sopracciglia erano folte e ben distanziate. La bocca era carnosa e scura, sormontata da un naso fine e regolare, incastonati in un volto ovale. Il suo peplo senza maniche in lino del colore della nocciola accompagnava leggero le sue forme slanciate ed era fermato in vita da una cintura dorata. A coprirla un insolito mantello, sempre nocciola, maculato di marrone scuro, a riprodurre la pelle di un serpente. E una serpe vera che stava appoggiata sopra le sue spalle, bianca con macchie ocra, ogni tanto muoveva la testa nell'atto di osservarsi intorno. La portava come se fosse un gioiello mentre i suoi monili erano composti di bronzo, pietre dure e pasta vitrea nei toni neutri del grigio e della terra.

"Non c'è nessuna scala invisibile e nessun incantesimo che può portarti qui sopra. Sono io a decidere se puoi passare. Sono Angizia, la signora dei serpenti, dea adorata un tempo dai popoli della regione centrale dei monti di Penn. Ho insegnato alle Arath a curare il morso dei serpenti e a padroneggiare l'uso delle buone e delle male erbe e a realizzare i primi incantesimi. Poi sono stata dimenticata. Sono stata posta dal dio reggente a guardia di questo luogo in modo che nessun malevolo possa passare".

Steleth si emozionò a quelle parole, riconoscendo nella dea la madre di tutte le streghe di terra.

Senza aggiungere altro, con un cenno della mano, Angizia fece apparire una scala in muratura da cui la mortale potè salire. Si trovarono in un ingresso stretto, tra il muro e uno spazio spoglio sulla destra dove un tempo forse erano lasciati i cavalli. Un'altissima scala a pioli portava al livello superiore. Angizia salì per prima e invitò Steleth a seguirla.

Arrivarono quindi alla grande sala del castello dalla cui apertura si poteva controllare l'intera valle e che faceva sentire fragili mostrando lo strapiombo che scendeva a picco dai due costoni di roccia e che rendeva quel luogo inespugnabile. Nella stanza non c'era nulla ma i muri erano affrescati ancora con i dipinti originari, che apparivano un po' consumati dal tempo, con le storie degli eroi dei Ligi.

Steleth e Angizia si misero una di fronte all'altra accanto alla finestra, da cui soffiava un vento leggero.

“Mia signora, il sapere e le doti delle Arath hanno origine da te e noi tutte studiamo e ci appassioniamo alla magia studiando la tua storia”, disse Steleth un po' intimorita. “Negli anni ho approfondito la nostra disciplina seguendo l'insegnamento di maestri e libri illustri. Le ultime esperienze che ho avuto, però, mi hanno mostrato che spesso tradizione e realtà non corrispondono. Ti prego, puoi raccontarmi di te?”

“Le storie e le tradizioni sono spesso tramandate dai vincitori per coprirsi di gloria, giustificare le loro azioni inique e far sì che il popolo li segua senza ribellarsi, pensandoli nel giusto. Nacqui dall'amore tra il dio Giano e l'Arath Arunthia e dopo un'infanzia nella foresta delle martore, tra le cime più alte dei monti di Penn, dove imparai a dominare i serpenti, mio padre mi mandò a Ianua, la città sul mare qui vicino. Qui insegnai ai terrestri le arti della guarigione e a come realizzare medicine dal veleno delle angui e grazie alle erbe. Con la devozione dei fedeli, i miei poteri crebbero. Sarei stata in grado di trarre giù la Luna dal cielo, trattenere il  corso dei fiumi con un solo grido e spogliare i monti dallo loro selve, solo chiamandole. Ma non lo feci mai perché il mio amore per la natura è sempre stato sconfinato. Accade però che spesso anche gli dei, come i mortali, cadano in balia della passione. Successe anche a me. Quando lo vidi la prima volta, Argos correva nella foresta a caccia di un cinghiale, aiutato dai cani. La preda corse da me perché lo proteggessi e così fu. Non concessi la vittima al cacciatore ma caddi vittima io stessa. L'uomo, grazie alla sua intelligenza e alla sua arguzia, associate a una bellezza fuori dal comune, catturò il mio amore. Il suo scopo, però, non era quello di ricambiare il mio sentimento ma quello di usarmi per avere il Bracciale delle Fiere, un gioiello in elettro e pietre dure di diversi colori legati ognuno alle diverse specie, che donava a chi ne entrava in possesso la possibilità di comprendere il linguaggio degli animali. Giano lo aveva affidato a me e io lo custodivo con attenzione e gelosia. Il suo intento non era quello di usarlo per sostenersi e nutrirsi ma per arricchirsi, catturando e uccidendo quante più prede possibile. Dapprima me lo chiese in nome del nostro amore poi prese a mettermi di fronte a piccoli ricatti. Infine, si mostrò per quello che era: un opportunista pronto a passare sopra ogni cosa pur di arrivare alla sua meta. Stavamo stesi nella foresta dopo i nostri atti d'amore e approfittando di quel momento di dolcezza, mi chiese ancora il bracciale. Io nuovamente glielo negai e lui decise di prendermelo con la forza. Nella lotta, lui usò contro di me le sue armi e fu in quella contingenza che rimasi con un solo occhio. Alla fine, ferita e angosciata, fui io a soccombere e Argos prese dal mio braccio il gioiello e scappò. Le Lase dei boschi e gli animali accorsero ai miei lamenti e mi aiutarono. Una volta ripresa, la sete di vendetta e una furia incontrollabile contro tutto e tutti presero nel mio animo il posto del sentimento più nobile. Lasciai le terre di Ianua per inseguire quell'uomo, portando carestia e devastazione ovunque passassi. Alla fine lo trovai e lo punii, riprendendomi il bracciale e rinchiudendolo per il resto nei suoi giorni in fondo ad un pozzo. Ma il sapore della mia rivincita fu amaro.  Le regioni che avevo attraversato erano brulle e prive di vita. Tornata a Ianua, gli abitanti erano disperati per la carestia che avevo causato e per il fatto che non rispondessi più alle loro preghiere. Fortunatamente riuscii a rimediare,  ripristinando boschi e foreste e richiamando gli animali che erano fuggiti in cerca di cibo altrove e chiedendo alla dea Semia di aiutare gli uomini nella gestione dei campi. Vennero poi altre dee più belle e più potenti e anche io, come Mefite e Satres, fui dimenticata dai terrestri. Il bracciale delle fiere fu donato a una di queste. Nel conflitto degli eterni ho combattuto al fianco di Maris, che mi diede in cambio la possibilità di tornare a proteggere le selve di Ianua. Poi quando Culsu fu cacciata mi mise a guardia di questo posto, per respingere gli indegni e lasciare il passo a chi merita di arrivare all'antro di Tufulta”.

La festa dei serpari

I serpenti, rigorosamente non velenosi, vengono catturati a marzo e allevati fino al giorno della festa. Il 1 maggio la folla tira con i denti la campanella della cappella del Santo all'interno della chiesa omonima. Secondo la tradizione, questa cerimonia servirebbe a proteggere i denti dalle malattie che li potrebbero affliggere, essendo l'Abate Domenico protettore del mal di denti. 

A mezzogiorno, dopo la Santa Messa, inizia la processione della statua del Santo invasa dalle serpi tra le stradine del cento storico. Se il viso di San Domenico viene coperto, questo sarà un segno infausto, come anche la caduta di uno o più serpenti a terra. Ai fianchi della statua, due ragazze vestite con abiti tradizionali, portano sulla testa un cesto contenenti cinque pani sacri chiamati ciambellani in memoria di un miracolo che fece san Domenico. Questi pani vengono donati per antico diritto ai portatori della Sacra Immagine e del gonfalone.

Al termine della festa, la statua è riportata in chiesa, si assiste allo sparo dei mortaretti, si mangiano i pani sacri e i rettili vengono riportati al loro habitat naturale dai serpari. I fedeli raccolgono una manciata di terra da dietro alla nicchia del Santo per portarla nella propria casa in segno di buon auspicio.

San Domenico e i serpenti

Di Ewa hermanowicz - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=68708528

San Domenico, nato a Foligno intorno al 915, dopo molti spostamenti in tutto il centro Italia si stabilì in Abruzzo, prima a Villalago, poi, dopo alcune persecuzioni, a Cocullo. Qui le persone vivevano per lo più all’aperto ed erano frequentemente vittime di morsi di serpenti e di vipere, di cui la zona era piena.

Il Santo guarì gli abitanti del villaggio dal veleno e salvò delle donne a cui, si dice, dormendo in aperta campagna le vipere avevano succhiato il latte materno o erano penetrate nello stomaco. San Domenico, taumaturgo e guaritore, viene evocato per proteggersi dal morso dei serpenti e dei cani rabbiosi, contro le intemperie, per scacciare malattie come la malaria e per curare il mal di denti.


Lo specchio di Giano e gli dei

 Avendo deciso di scrivere un romanzo ispirato agli Etruschi e ai popoli antichi non ho potuto fare a meno, in Lo specchio di Giano , di da...