giovedì 8 maggio 2025

Il Morgante di Luigi Pulci

 Dopo un sacco di tempo, eccomi finalmente a raccontarvi una delle mie ultime letture... una rilettura, per la verità. Si tratta di un libro che ho amato la prima volta quando lo incontrai anni fa e che ora ho apprezzato con maggiore consapevolezza.

E' il Morgante, capolavoro del poeta Luigi Pulci (Firenze, 15 agosto 1432 – Padova, 11 novembre 1484). Il volume è una storia epica e parodistica di un gigante che si mette al seguito di Orlando.

Il libro è uno dei poemi più singolari della letteratura italiana, dato il tono giocoso e le avventure mirabolanti di alcuni personaggi, Morgante, il gigante buono armato del battaglio di una campagna, e Margutte in primis. Si tratta di un poema epico-cavalleresco, a volte definito poema eroicomico, in ottave, suddiviso in cantari, che recupera la materia del ciclo carolingio

La trama è ricca di colpi di scena, con l'opera caratterizzata da una gran fantasia animata da spirito burlesco, talvolta spregiudicato, espresso in un linguaggio pungente, tipico dei cantari popolari, ossia componimenti cavallereschi del '400 e '500 accompagnati dalla musica e destinati ad un'esecuzione in pubblico.

I personaggi del ciclo carolingio di fatto vengono completamenti trasformati, comportandosi spesso da furfanti, in preda alle più intese passioni corporee (molto divertenti sono le scene legate al cibo). Carlo Magno è descritto quasi come un vecchio rimbambito che non riesce a comprendere i tradimenti di Gano di Maganza. C’è poi Morgante, un gigante buono, che dà il titolo al poema, scudiero di Orlando che viene presentato come un Ercole dalla forza smisurata. Con lui, il mezzogigante Margutte, una figura paradossale che si presenta come peccatore incallito.

Il Morgante fu iniziato per sollecitazione di Lucrezia Tornabuoni (madre di Lorenzo il Magnifico): ella avrebbe desiderato dal Pulci un poema cavalleresco, in linea con la tendenza alla rifeudalizzazione che in quel tempo era presente in Firenze. Il poeta invece dimentica ben presto l'impegno affidatogli e lascia spazio per larga parte dell'opera a toni comici.

Cosa colpisce di più il lettore di oggi di questo poema? Certamente lo stile giocoso e la lingua, piena di termini popolari e modi di dire, e le situazioni raccontate, frutto di una fantasia strabordante soprattutto nelle parti in cui Pulci si discosta dalle fonti per narrare episodi inventati da lui stesso. Uno di questi è una delle parti più famose dell'opera, quella di Margutte.

Ecco i versi che rappresentano uno dei momenti in cui Morgante e Margutte litigano per il cibo, scena che si ripete diverse volte nel poema:

Cosse la bestia, e pongonsi poi a cena:

     Morgante quasi intera la pilucca,

     sì che Margutte n’assaggiava appena;

     e disse: - Il sal ci avanza nella zucca!

     Per Dio, tu mangeresti una balena!

     Non è cotesta gola mai ristucca:

     io ti vorrei per mio compagno avere

     a ogni cosa, eccetto ch’al tagliere. -


Disse Morgante: - Io vedevo la fame

     in aria come un nugol d’acqua pregno;

     e certo una balena con le squame

     arei mangiato sanz’alcun ritegno,

     ovvero un lïofante con lo stame.

     Io rido che tu vai leccando il legno. -

     Disse Margutte: - S’ tu ridi, ed io piango,

     ché con la fame in corpo mi rimango.


Quest’altra volta io ti ristorerò, -

     dicea Morgante - per la fede mia! -

     Dicea Margutte: - Anzi ne spiccherò

     la parte ch’io vedrò che giusta sia,

     e poi l’avanzo innanzi ti porrò,

     sì che e’ possi durar la compagnia.

     Nell’altre cose io t’arò riverenza,

     ma della gola io non v’ho pazïenza:


chi mi toglie il boccon non è mio amico,

     ma ogni volta par mi cavi un occhio.

     Per tutte l’altre volte te lo dico:

     ch’io vo’ la parte mia insino al finocchio,

     se s’avessi a divider solo un fico,

     una castagna, un topo o un ranocchio. -

     Morgante rispondea: - Tu mi chiarisci

     di bene in meglio, e come oro affinisci.





martedì 28 gennaio 2025

Febbraio, la dea della febbre, Giunone e la Candelora

 Febbraio e febbre: queste due parole suonano simili e in effetti hanno un'origine comune. Derivano, infatti dal latino februus, "purificante", "che purifica". Gli antichi romani, infatti, vedevano nei sintomi della febbre un processo di purificazione all'interno del corpo e secondo il calendario romano, febbraio veniva dedicato a Febris, dea della febbre e versione latina del dio etrusco Februus.

In questo periodo, che nell'età più arcaica coincideva con l'inizio dell'anno, i romani svolgevano riti e funzioni religiose volti alla purificazione del corpo e dello spirito, celebrando dei come Febris, Giunone Februa o Lupercolo (qui vi parlo di Gennaio).

Febris, Febbre, nella mitologia romana, era associata alla guarigione dalla malaria. Si deve al re Numa Pompilio l'associazione del mese a questa divinità, a cui nella Urbe erano dedicati diversi templi. Il più importante era quello sul Palatino, lungo la Via Sacra e offriva cure medicinali e remedia, cioè amuleti o incantesimi. A lei i fedeli facevano offerte, per evitare la malaria o per ottenere la guarigione. 

Le celebrazioni in onore di Febris toccavano il loro culmine il giorno 14 del mese, con le Februalia, feste che coincidevano con i Lupercalia, ricorrenze di radice arcaica legate al ciclo di morte e rinascita della natura, alla sovversione delle regole e alla distruzione dell'ordine per permettere al mondo e alla società di purificarsi e rinascere, riti che sono "sopravvissuti" fino a noi con il Carnevale. Alcune pratiche arcaiche della fertilità prevedevano che le donne di Roma si sottoponessero ai colpi vibrati da gruppi di giovani uomini nudi, armati di fascine di rami strette da spaghi. Queste usanze  furono criticate già nel tardo Impero Romano, e furono definitivamente bandite dai cristiani. In particolare, sembra che fu il papa Gelasio I a istituire, al posto dei Lupercali, una festività dedicata all'amore, dedicando questo giorno al santo martire Valentino.



La candelora, Giunone e la presentazione al tempio di Gesù

Non solo San Valentino e il Carnevale sono feste con legami arcaici che "uniscono" Cristianesimo e riti pagani: un'altra ricorrenza di febbraio ha queste caratteristiche e questa volta non ha a che fare con Febris ma Giunone. 

Nel VII secolo d.C. la chiesa portò al 2 febbraio la festa della presentazione al tempio di Gesù. Questo evento si accompagnava alla celebrazione della purificazione della Vergine. Questo rituale doveva avvenire a quaranta giorni dal parto, quindi parlando di Maria venne fissato il 2 febbraio, a 40 giorni dal 25 dicembre, data a cui per convenzione è stata fissata la nascita di Cristo. 

Successivamente, la purificazione della Vergine acquistò maggiore importanza rispetto alla presentazione al tempio e divenne il giorno della Candelora. Si tratta anche in questo caso di una contaminazione con una celebrazione più antica e pagana: era, infatti, usanza dei romani percorrere la città con fiaccole accese durante i festeggiamenti del 2 febbraio a Giunone Purificata e Giunone Salvatrice. Gli epiteti Februa, Februlis, Februata o Februalis erano infatti epiteti di Giunone come Dea che purifica.

Per questa ricorrenza, nel VII secolo, a Roma dopo la processione notturna con ceri accesi, di svolgeva la benedizione delle candele, che venivano donate ai fedeli che le accendevano in caso di pericolo, per violenti temporali e in altri momenti difficili.

lunedì 20 gennaio 2025

Lo specchio di Giano, il sacerdote Tarchun

 Nell'ultimo post che ho dedicato al mio libro, "Lo specchio di Giano", ho pubblicato la descrizione di uno dei personaggi che ho inventato per il volume e che va ad affiancarsi ai caratteri che rappresentano i miei familiari. Si tratta di Tarchun, il sacerdote devoto al dio Maris che custodisce riti tradizionali e misteri della religione del popolo dei Rasna. La sua descrizione riprende, infatti, quella dei religiosi etruschi.

Il nome, invece, che all'inizio doveva riprendere quello di Ismeno, mago della Gerusalemme Liberata, è quello dell'eroe etrusco Tarconte, a cui, assieme al fratello Tirreno, è attribuita la fondazione della dodecapoli etrusca, il cui nucleo centrale fu Tarquinia, che da lui prese il nome. Appare nell'Eneide come capo di tutti gli Etruschi e alleato di Enea nella guerra contro Mezenzio e Turno, dove abbatte il giovane tiburtino Venulo.

In Lo specchio di Giano, Tarchun, assieme al rivale Ataris, è uno dei caratteri più complessi. Sotto la sua integrità di facciata si celano segreti legati a una tragica storia d'amore, la sua superbia e un forte senso di superiorità rispetto agli altri. Tutti sentimenti che nello svolgersi degli accadimenti verranno superati mentre i suoi demoni saranno annientati, fino alla redenzione finale. 


Tarchun è depositario della disciplina dell'aruspicina e in una scena chiave del libro analizzerà il fegato di una vittima, capendo, unico personaggio in tutta la storia, a capire chi davvero è Steleth:

Si trovava nella cella destra del tempio di Maris, dove erano conservati in un baule chiuso i Libri del Cielo accanto a una statua d'oro del dio. Quella parte del tempio, con la caduta in disuso di certe usanze di culto era stata chiusa e nessuno ci era più entrato da tempo. Si era fatto lasciare lì solo con gli attrezzi per il sacrificio e con la sua vittima. Dopo una lunga preghiera al dio, aveva sgozzato una vecchia pecora nera. Le pareti scure e polverose per il passare del tempo si erano riscaldate con il sangue dell'animale, che il sacerdote vi aveva cosparso sopra. Aveva poi estratto dal cadavere della bestia il cuore e il fegato. Quell'atto sanguinoso che non si perpetrava ormai da secoli aveva richiamato nel tempio i demoni del fuoco del Regno dell'Orco che sibilavano e si lamentavano, facendo aumentare in Tarchun la rabbia e la disperazione.

Lui, in quanto Aruth, era l'unico depositario dell'antica disciplina dell'aruspicina, tramanda di guida in guida, mentre quelle degli auguri e dell'interpretazione dei fulmini, essendo non cruente, erano sempre state mantenute in vita. Per risolvere la situazione, per capire il da farsi con la guerra, per sapere qualcosa del futuro, aveva provato a interpretare il volere del dio e del destino tramite le sue invocazioni e tramite lo scrutamento di diversi segnali. Ma questi ultimi non erano arrivati, al contrario delle altre volte in cui aveva sempre ottenuto una qual forma di risposta, anche dopo diversi tentativi. Maris evidentemente lo aveva abbandonato. Gli rimanevano soltanto le antiche arti divinatorie dei suoi antenati, affidate ormai solo alla massima carica religiosa dei mortali. Non si aspettava di essere proprio lui a doverle far rivivere. Quando era stato nominato guida dei Ministri del Destino, gli si prospettava un futuro di gloria, con il suo regno in pace e una certa prosperità che poteva consentire lo sviluppo delle scienze e del commercio. E invece ecco la guerra, un terribile imprevisto che faceva saltare tutto all'aria, e i fantasmi del passato che tornavano da lui. Eccolo, nel tempio del dio che non lo ascoltava più, a sentirsi feroce e ridicolo allo stesso tempo, nel sventrare un povero animale per cercare di comprendere il volere degli dei e sapere se quello che lo aspettava fosse favorevole o sfavorevole.

Prese quindi il fegato della pecora e lo pose ancora caldo davanti a Maris, mettendosi con le spalle a Nord, e predisponendosi quindi a ispezionarne la forma e i segni particolari, per leggerne indicazioni di buono o cattivo auspicio.

Era un organo pieno di imperfezioni e tanto diverso da quelli che aveva studiato sui libri a cui solo i Sians avevano accesso.  Ma quali aree guardare? Dopo lo scontro degli eterni, ogni parte dell'organo era stata riservata agli dei reggenti e ai gruppi di immortali che si facevano carico dei diversi regni. Ma tra gli dei ne erano tornati degli altri e altri ancora stavano per riprendere la loro forma. Era necessaria quindi una lettura doppia, con i vecchi e i nuovi riferimenti.  Le aree di Maris e dei Chechanar erano irregolari e piene di venature, segno della loro debolezza, che però non sembrava un segnale di un crollo imminente. Inoltre, quello spazio era come circondato da un cordone, come se fosse isolato dagli altri. Le divinità che avevano governato il mondo negli ultimi secoli si erano asserragliate nelle loro posizioni, allontanandosi sia dai mortali sia dagli altri dei. Le antiche parti di Aplu, Ani, Voltumna, Vesta, Nethuns e molti altri, erano, invece, piene e carnose di un colore carico: gli dei nuovi avrebbero mantenuto la loro forza, ma erano di due fazioni differenti. Poteva essere un segno che prospettava la pace oppure uno sconvolgimento delle parti tra i divini. La sezione rivolta a occidente, rossa e tonica, era quella degli dei infernali divisa da quella degli altri dall'area centrale, quella di Giano, caratterizzata da un rosso scurissimo e rilevata rispetto agli altri, con un aspetto più pieno e sano. Che ruolo aveva il padre degli dei in tutto questo? Sembrava essere un ruolo rilevante, ma quale?

Ma osservò quella parte con più attenzione. Un punto nell'area degli dei di Tufulta era forato: in quella particolare area cosa mancava? No, non poteva essere! Si ripulì velocemente le mani e andò a consultare i testi. Il suo cuore quasi si fermò: era la sezione dedicata a una delle dee più potenti, da cui ci si aspettava un grande appoggio in quella guerra! Ecate non c'era! E Steleth? Intorno a lei c'era sempre stato un alone di mistero, qualcosa sembrava non coincidere con il Mysterii Liber e lei era restia ad accettare il suo stato. Ma aveva dato la dimostrazione di poteri forti e imperfetti, ancora in grado di crescere. Chi si celava in lei? Un'altra dea? Cercò freneticamente una conferma, un nuovo dato, qualcosa che non conosceva e che potesse dargli un qualche aiuto confrontando i testi sacri con l'organo degli animali. Quand'ecco, un quasi impercettibile rigonfiamento accompagnato a un alone bianco sempre nell'area degli infernali! Tarchun rimase immobile a contemplare quel piccolo dettaglio: ora tutto gli era più chiaro ma quello che aveva capito doveva rimanere un segreto! Il suo respiro prese a diventare meno affannoso: le sorti del mondo sembravano ancora bilanciate e il futuro ancora da definire e soprattutto, probabilmente, non ci sarebbe stata una disfatta per Vestres.

L'ebook è disponibile su Amazon e su altre piattaforme.

martedì 7 gennaio 2025

Lo Specchio di Giano, il mago Ataris

 In "Lo specchio di Giano", Tarchun, il sacerdote devoto al dio Maris che custodisce riti tradizionali e misteri della religione del popolo dei Rasna, è contrapposto al nemico di Vestres, Ataris, creatore di Alos, l'Isola di Sale, realizzata per trovare un potere infinito ma prima di tutto la sua vendetta.

Il potente mago è il personaggio del libro più contrastato, assieme proprio al rivale Tarchun. All'inizio avrebbe dovuto chiamarsi Ismeno, come il crudele mago della Gerusalemme Liberta, ma poi ho preferito un nome di ascendenza antica, come per quasi tutti i personaggi principali del romanzo fantasy ispirato al mondo degli Etruschi. 

Ecco l'inizio del canto II del poema tassiano in cui si introduce la figura del mago:

Mentre il Tiranno s’apparecchia all’armi,

Soletto Ismeno un dì gli s’appresenta:

Ismen, che trar di sotto ai chiusi marmi

Può corpo estinto, e far che spiri e senta:

Ismen, che al suon de’ mormoranti carmi

Fin nella reggia sua Pluto spaventa,

E i suoi Demon negli empj uficj impiega

Pur come servi, e gli discioglie, e lega.

Questi or Macone adora, e fu Cristiano,

Ma i primi riti anco lasciar non puote;

Anzi sovente in uso empio e profano

Confonde le due leggi a sè mal note.

Ed or dalle spelonche, ove, lontano

Dal volgo, esercitar suol l’arti ignote,

Vien nel pubblico rischio al suo Signore;

A Re malvagio consiglier peggiore.


In realtà se la prima idea era quella di riprendere la figura di Ismeno, il risultato è stato completamente diverso.

Se all'inizio, nel testo, si legge solo di un uomo malvagio e rabbioso che vuole conquistare Vestres e l'intero mondo, con il procedere della storia e con il disvelarsi di segreti e particolari, si comprende come in realtà anche nel suo cuore siano albergati e si trovino ancora sentimenti di amicizia e amore. Lo si vede ad esempio dal rapporto instaurato con le due allieve, Erichto e Picatrix, per cui era stato quasi come un padre e si manifesta nella scena della lotta con Tarchun. Se il sacerdote, però, saprà comprendere i suoi errori e arrivare a riprendere la giusta strada, Ataris si lascerà sopraffare dalla rabbia, confermandosi un assassino e dovendo abbandonare per sempre ogni sua ambizione e il suo tragico amore. 

Il romanzo è disponibile online e in libreria.

Ecco il passo del libro dove viene per la prima volta descritto Ataris:

Il mago, che si trovava a un tavolo intento ad analizzare un libro, udì la richiesta, o meglio l'ordine dell'uomo, e si avvicinò subito all'ingresso.

“Turno, salve! Che cosa ti porta nelle mie stanze?”, chiese con un sorriso beffardo. ”Entra”.

L'uomo entrò e dopo aver dato un rapido sguardo alla camera, tra libri, contenitori di vetro, oggetti di cui ignorava l'utilizzo in materiali preziosi venuti da chissà quale parte del mondo, disse: “Perché hai dato l'ordine dei due ultimi attacchi? Che cosa ti salta in testa? Le sirene e i tritoni sono stati quasi decimati e abbiamo perso alcuni degli uomini migliori grazie all'invio della scialuppa dell'altro giorno. Se, poi, al posto che star qui a studiare testi probabilmente inutili e realizzare intrugli ti affacciassi e guardassi il campo sotto di noi vedresti un panorama di desolazione. I nostri uomini sono allo stremo. Chi li addestra è un incapace. Pretendo di avere io in mano la preparazione dei soldati. Sono stato chiamato qui per aiutarvi nella strategia di attacco e per condurre l'esercito in battaglia ma non vengo ascoltato in nessun modo. Lascia che sio io ad addestrare i soldati e a pensare agli attacchi. Quando sarà l'ora, i soldati non seguiranno un condottiero di cui non conoscono quasi il viso e non si è mai preoccupato di loro. I militari in quel cortile non sono assolutamente in grado di formare dei soldati pronti per un combattimento. Sono solo capaci di massacrare quei ragazzi inutilmente. Non si può combattere così una guerra”.

Il mago rimase per qualche istante pensieroso, poi acconsentì: “Va bene, Turno. Avviserò i generali che da domani sarai tu ad occuparti degli addestramenti e alla supervisione delle operazioni.”

Seguì un attimo di silenzio in cui Ataris si aspettava la dipartita di Turno, ma l'uomo incalzò ancora: “Ho un'altra cosa da chiederti”.

“Dimmi pire”.

“Chi sarebbe questo Ofiuco, per cui hai mandato quei ragazzi a morire? Sai almeno se è sopravvissuto qualcuno?”.

“Non so se qualcuno è salvo, ma gli orux di solito non lasciano scampo. L'Ofiuco è qualcuno in grado di curare quasi tutti i mali e, soprattutto, è qualcuno di molto caro per il nostro Dio.”

“Che cosa intendi dire?”

“Lo saprai a suo tempo... Intanto, presto avremo qualcun altro nelle nostre file. Arriveranno due giovani Arath, mie allieve, di cui una abile nel realizzare cure per numerose malattie, e, se tutto va bene, anche il secondo dio”.

“Sono scettico su questo. Potrebbe allearsi con Maris o non voler comunque saperne della nostra guerra. Intanto a Vestres cosa sta succedendo? Gli uccelli delle tempeste cosa ti dicono?”.

“Sono spaventati dai nostri continui assalti. Credono che siamo forti e organizzati. Intanto il loro lavoro sugli Aisna sta proseguendo alacremente”.

“E come pensi di fermarli?”

“Con il generale Alanys abbiamo in mente un'altra incursione. Vieni ti mostro il piano”.

Il mago fece avvicinare Turno a una ricostruzione in miniatura di Vestres. Gli occhi del guerriero erano quasi spaventati nel vedere il compiacimento del mago: i suoi occhi verdi brillavano, quasi di pazzia, il suo ghigno dipinto su un volto magro ed emaciato era inquietante, i capelli ricci e crespi che componevano quasi un casco sopra il capo ondeggiavano leggermente ai suoi movimenti, mentre le mani ossute si muovevano con eleganza sulle figure per spiegare il da farsi. Era un uomo non più giovane, sempre vestito di abiti e mantelli ricchi, chitoni lunghi di diverse fogge fatti di broccato intessuto con oro proveniente dalle estreme regioni d'Oriente, spesso nelle tonalità più scure del verde, e arricchiti da spille e monili in metalli e pietre preziose. Quando ebbe finito la sua spiegazione, Turno non poté che acconsentire al piano di Ataris anche se il suo atteggiamento continuava a fargli paura.


giovedì 2 gennaio 2025

Pietro Metastasio

 Oggi torno a parlarvi del melodramma e di uno dei suoi protagonisti, il librettista Pietro Metastasio, nato a Roma il 3 gennaio 1698 e morto a Vienna il 12 aprile 1782, che con i suoi lavori ha rinnovato profondamente l'opera lirica.

Pietro Trapassi, di umile famiglia, viene accolto dal nobiluomo Gian Vincenzo Gravina che lo avvia agli studi giuridici e letterari, inducendolo anche a mutare il suo cognome nella forma grecizzante di Metastasio. Il poeta cresce quindi seguendo l'educazione classicista fino al 1718, anno della morte del suo tutore. Da quel momento si apre anche ad altri tipi di letteratura, da quella barocca a quella manierista. 

Nel 1720 si trasferisce a Napoli, dove conosce la nobildonna Marianna Pignatelli, vicina all'Imperatrice, e la cantante Marianna Benti Bulgarelli, cui dedica la Didone abbandonata, suo primo melodramma e suo primo grandissimo successo. Così nel 1729, per intercessione della Pignatelli, viene chiamato a Vienna alla corte dell’imperatore Carlo VI, dove diventa poeta di corte sostituendo Apostolo Zeno, dove rimane fino alla morte. Da qui le sue opere si diffondono in tutta Europa. I suoi testi sono stati musicati da numerosi musicisti, come Mozart, Gluck e Handel, e hanno influenzato l'opera lirica del suo tempo.

La caratteristica principale della Didone abbandonata è l'attenzione che l'autore dedica alla descrizione psicologia dei protagonisti. Tra le altre numerosissime opere, citiamo l'Olimpiade, scritta nel 1733, che può essere indicata come modello del melodramma del Settecento. 

Tra i temi principali delle opere di Metastasio troviamo amore, virtù, onore e passione, dilemmi morali e complessità umane: le emozioni sono rappresentate in maniera profonda ed espressiva con i personaggi che spesso devono compiere scelte difficili per preservare la loro integrità morale.  

Nei lavori dell'autore spesso vengono riflesse le gerarchie sociali dell'epoca, con personaggi aristocratici e figure di ceto più basso. 

La scrittura di Metastasio si caratterizza per chiarezza, eleganza e musicalità.

Nel suo lavoro di riforma del melodramma va ad affinare il processo avviato da Apostolo Zeno: riduce il numero di intrecci della trama a uno solo e i rapporti tra i vari personaggi vengono definiti dal susseguirsi delle varie scene. L'autore introduce l'alternanza tra recitativi e arie, affidando ai primi la funzione più strettamente narrativa, ed alle seconde quella lirica, fissandole in corrispondenza della fine della scena o dell'uscita di scena dei personaggi che descrivono il proprio stato d'animo o i propri pensieri.  

Metastasio auspicava un profondo cambiamento del teatro poetico, partendo dalla necessità di dover coniugare parole e musica in una chiave nuova rispetto a melodramma secentesco.  

Se i suoi versi più famosi sono quelli tratti dal Demetrio, "È la fede degli amanti | come l'Araba Fenice | che vi sia ciascun lo dice | ove sia nessun lo sa", e ci sono altre numerosissime citazioni degne di nota, segnalo una sua opera non appartenente al melodramma ma una canzone di stampo arcadico, la celebre Libertà, in cui il poeta racconta il suo stato d'animo dopo l'essersi liberato da una passione amorosa tossica.


La libertà

Grazie agl'inganni tuoi,

al fin respiro, o Nice,

al fin d'un infelice

ebber gli dei pietà:


sento da' lacci suoi,

sento che l'alma è sciolta;

non sogno questa volta,

non sogno libertà.


Mancò l'antico ardore,

e son tranquillo a segno,

che in me non trova sdegno

per mascherarsi amor.


Non cangio più colore

quando il tuo nome ascolto;

quando ti miro in volto

più non mi batte il cor.


Sogno, ma te non miro

sempre ne' sogni miei;

mi desto, e tu non sei

il primo mio pensier.


Lungi da te m'aggiro

senza bramarti mai;

son teco, e non mi fai

né pena, né piacer.


Di tua beltà ragiono,

né intenerir mi sento;

i torti miei rammento,

e non mi so sdegnar.


Confuso più non sono

quando mi vieni appresso;

col mio rivale istesso

posso di te parlar.


Volgimi il guardo altero,

parlami in volto umano;

il tuo disprezzo è vano,

è vano il tuo favor;


che più l'usato impero

quei labbri in me non hanno;

quegli occhi più non sanno

la via di questo cor.


Quel, che or m'alletta, o spiace.

se lieto o mesto or sono,

già non è più tuo dono,

già colpa tua non è:


che senza te mi piace

la selva, il colle, il prato;

ogni soggiorno ingrato

m'annoia ancor con te.


Odi, s'io son sincero;

ancor mi sembri bella,

ma non mi sembri quella,

che paragon non ha.


E (non t'offenda il vero)

nel tuo leggiadro aspetto

or vedo alcun difetto,

che mi parea beltà.


Quando lo stral spezzai,

(confesso il mio rossore)

spezzar m'intesi il core,

mi parve di morir.


Ma per uscir di guai,

per non vedersi oppresso,

per racquistar se stesso

tutto si può soffrir.


Nel visco, in cui s'avvenne

quell'augellin talora,

lascia le penne ancora,

ma torna in libertà:


poi le perdute penne

in pochi dì rinnova,

cauto divien per prova

né più tradir si fa.


So che non credi estinto

in me l'incendio antico,

perché sì spesso il dico,

perché tacer non so:


quel naturale istinto,

Nice, a parlar mi sprona,

per cui ciascun ragiona

de' rischi che passò.


Dopo il crudel cimento

narra i passati sdegni,

di sue ferite i segni

mostra il guerrier così.


Mostra così contento

schiavo, che uscì di pena,

la barbara catena,

che strascinava un dì.


Parlo, ma sol parlando

me soddisfar procuro;

parlo, ma nulla io curo

che tu mi presti fé


parlo, ma non dimando

se approvi i detti miei,

né se tranquilla sei

nel ragionar di me.


Io lascio un'incostante;

tu perdi un cor sincero;

non so di noi primiero

chi s'abbia a consolar.


So che un sì fido amante

non troverà più Nice;

che un'altra ingannatrice

è facile a trovar.


martedì 31 dicembre 2024

Il mese di gennaio e Giano

Oggi inizia il nuovo anno, con il suo primo mese, gennaio, che anticamente era dedicato al dio Giano

Gennaio era il primo mese dopo il solstizio d’inverno e quindi quello che iniziava con il ciclo di ascesa del sole. A dedicare al dio il mese di gennaio fu Numa Pompilio, mentre con la riforma giuliana del 46 a.C. gennaio passò a essere il primo dell'anno.

Giano viene rappresentato e definito come Giano bifronte, ossia con due facce, spesso diverse tra loro, che si contrappongono unite per la nuca e che guardano al passato e al futuro. Giano è il custode di tutti i momenti di transito, di tutti i passaggi, di tutti gli inizi, di tutte le porte (che in latino si dice “ianua”).

Giano è una divinità esclusivamente romano-italica, la più antica tra gli dei maggiori italici, i Di indigetes, invocata spesso insieme a Iuppiter. Fu, insieme a Quirino, l'unico dio romano a non essere assimilato a divinità ellenistiche.

Il suo culto è probabilmente antichissimo e risale a un'epoca arcaica, in cui i culti dei popoli italici erano in gran parte ancora legati ai cicli naturali della raccolta e della semina, poi con il passare del tempo il suo mito divenne sempre più complesso. 

Quella di Giano è una figura che mi ha sempre affascinato tanto che a lui è intitolato il mio primo libro, "Lo specchio di Giano", un romanzo fantasy ispirato agli Etruschi. Questo popolo venerava Culsans, un dio simile a Giano nell’aspetto - era anch'egli bifronte - e probabilmente anche nella sfera d’azione. 

Entrambe le divinità prendono il nome dalla porta, detta culs in etrusco e ianua in latino. L’aspetto di Culsans è noto da pochi reperti, tutti ritrovati presso porte civiche, considerate luoghi vulnerabili da proteggere.



martedì 10 dicembre 2024

Lo specchio di Giano. Thanaquil e le Veggenti di Farthan

 Torno a parlarvi di "Lo specchio di Giano", il mio romanzo fantasy ispirato agli Etruschi, presentandovi uno dei personaggi principali, la sacerdotessa Thanaquil, amica di Steleth

Si tratta di una donna bellissima, forte, guerriera, caparbia ma che mostrerà il suo lato fragile e si lascerà vincere dall'amore quando incontrerà Turno, mettendo tutte le sue certezze in discussione. Ma poi prevarrà l'amore per la sua gente, con cui è cresciuta e che ha sempre protetto. Thanaquil è la guida delle Veggenti di Farthan, ordine sacro alla dea dell'amore e della guerra, per cui le sacerdotesse sono sia abili guerriere sia prostitute sacre.

Il nome è ripreso da una delle figure femminili etrusche secondo me più affascinanti: Thanaquil era infatti la moglie di Lauchume Tarkun, un lucumone etrusco che sarà chiamato a Roma Tarquinio Prisco.

Si narra che un giorno, lei e il marito passeggiassero nei pressi di Tarquinia, quando una maestosa aquila si posò sul capo dell'uomo portandogli via il copricapo. Dopo un rapido e ampio volo nel cielo, l'uccello ripose il copricapo sulla testa di Tarquinio.

La donna, esperta di prodigi, spiegò allo sposo che l’aquila, regina dei cieli, uccello sacro di Tina, re di tutti gli dèi, con quel gesto aveva predetto che egli sarebbe stato destinato alla gloria di un grande regno.

Tarquinio e Thanaquil esporteranno a Roma la cultura etrusca. Lei era na sorta di sibilla in grado di leggere il senso più profondo delle cose e cogliere i messaggi degli dei.

Qui il passo del libro  disponibile su Amazon e in libreria in cui si parla dell'amicizia tra Steleth e Thanaquil:

Le due donne erano amiche da tanto tempo. Erano cresciute insieme nella scuola del tempio di Turan, dove le Veggenti istruivano le bambine ai primi rudimenti delle diverse discipline, dalla lettura alla matematica, dalla geometria allo studio della natura, dalla tessitura alla medicina, dalla pesca e alla caccia a piccoli insegnamenti di arti magiche.

Thanaquil proseguì il suo percorso di vita nel tempio, tra ars amatoria e uso delle armi. Lei non aveva potuto scegliere la sua strada: essendo figlia di una Veggente di Farthan era stata predestinata fin dalla nascita a diventare una sacerdotessa della Dea dell'Amore e della Guerra, ricoprendo i ruoli di prostituta sacra e di  guerriera. La sua bravura l'aveva portata a diventare la guida dell'ordine, che era chiamato a proteggere i misteri divini, leggere le indicazioni che Maris impartiva tramite i fulmini, a difendere il regno e a celebrare la fertilità e la vitalità della natura, prestando il proprio corpo agli uomini che si recavano al tempio a farne richiesta. I figli che nascevano dai loro rapporti venivano destinati all'ordine se femmine, a diventare soldati o Ministri del Destino se maschi.




Il Morgante di Luigi Pulci

 Dopo un sacco di tempo, eccomi finalmente a raccontarvi una delle mie ultime letture... una rilettura, per la verità. Si tratta di un libro...