martedì 2 gennaio 2024

Pietro Metastasio

 Oggi torno a parlarvi del melodramma e di uno dei suoi protagonisti, il librettista Pietro Metastasio, nato a Roma il 3 gennaio 1698 e morto a Vienna il 12 aprile 1782, che con i suoi lavori ha rinnovato profondamente l'opera lirica.

Pietro Trapassi, di umile famiglia, viene accolto dal nobiluomo Gian Vincenzo Gravina che lo avvia agli studi giuridici e letterari, inducendolo anche a mutare il suo cognome nella forma grecizzante di Metastasio. Il poeta cresce quindi seguendo l'educazione classicista fino al 1718, anno della morte del suo tutore. Da quel momento si apre anche ad altri tipi di letteratura, da quella barocca a quella manierista. 

Nel 1720 si trasferisce a Napoli, dove conosce la nobildonna Marianna Pignatelli, vicina all'Imperatrice, e la cantante Marianna Benti Bulgarelli, cui dedica la Didone abbandonata, suo primo melodramma e suo primo grandissimo successo. Così nel 1729, per intercessione della Pignatelli, viene chiamato a Vienna alla corte dell’imperatore Carlo VI, dove diventa poeta di corte sostituendo Apostolo Zeno, dove rimane fino alla morte. Da qui le sue opere si diffondono in tutta Europa. I suoi testi sono stati musicati da numerosi musicisti, come Mozart, Gluck e Handel, e hanno influenzato l'opera lirica del suo tempo.

La caratteristica principale della Didone abbandonata è l'attenzione che l'autore dedica alla descrizione psicologia dei protagonisti. Tra le altre numerosissime opere, citiamo l'Olimpiade, scritta nel 1733, che può essere indicata come modello del melodramma del Settecento. 

Tra i temi principali delle opere di Metastasio troviamo amore, virtù, onore e passione, dilemmi morali e complessità umane: le emozioni sono rappresentate in maniera profonda ed espressiva con i personaggi che spesso devono compiere scelte difficili per preservare la loro integrità morale.  

Nei lavori dell'autore spesso vengono riflesse le gerarchie sociali dell'epoca, con personaggi aristocratici e figure di ceto più basso. 

La scrittura di Metastasio si caratterizza per chiarezza, eleganza e musicalità.

Nel suo lavoro di riforma del melodramma va ad affinare il processo avviato da Apostolo Zeno: riduce il numero di intrecci della trama a uno solo e i rapporti tra i vari personaggi vengono definiti dal susseguirsi delle varie scene. L'autore introduce l'alternanza tra recitativi e arie, affidando ai primi la funzione più strettamente narrativa, ed alle seconde quella lirica, fissandole in corrispondenza della fine della scena o dell'uscita di scena dei personaggi che descrivono il proprio stato d'animo o i propri pensieri.  

Metastasio auspicava un profondo cambiamento del teatro poetico, partendo dalla necessità di dover coniugare parole e musica in una chiave nuova rispetto a melodramma secentesco.  

Se i suoi versi più famosi sono quelli tratti dal Demetrio, "È la fede degli amanti | come l'Araba Fenice | che vi sia ciascun lo dice | ove sia nessun lo sa", e ci sono altre numerosissime citazioni degne di nota, segnalo una sua opera non appartenente al melodramma ma una canzone di stampo arcadico, la celebre Libertà, in cui il poeta racconta il suo stato d'animo dopo l'essersi liberato da una passione amorosa tossica.


La libertà

Grazie agl'inganni tuoi,

al fin respiro, o Nice,

al fin d'un infelice

ebber gli dei pietà:


sento da' lacci suoi,

sento che l'alma è sciolta;

non sogno questa volta,

non sogno libertà.


Mancò l'antico ardore,

e son tranquillo a segno,

che in me non trova sdegno

per mascherarsi amor.


Non cangio più colore

quando il tuo nome ascolto;

quando ti miro in volto

più non mi batte il cor.


Sogno, ma te non miro

sempre ne' sogni miei;

mi desto, e tu non sei

il primo mio pensier.


Lungi da te m'aggiro

senza bramarti mai;

son teco, e non mi fai

né pena, né piacer.


Di tua beltà ragiono,

né intenerir mi sento;

i torti miei rammento,

e non mi so sdegnar.


Confuso più non sono

quando mi vieni appresso;

col mio rivale istesso

posso di te parlar.


Volgimi il guardo altero,

parlami in volto umano;

il tuo disprezzo è vano,

è vano il tuo favor;


che più l'usato impero

quei labbri in me non hanno;

quegli occhi più non sanno

la via di questo cor.


Quel, che or m'alletta, o spiace.

se lieto o mesto or sono,

già non è più tuo dono,

già colpa tua non è:


che senza te mi piace

la selva, il colle, il prato;

ogni soggiorno ingrato

m'annoia ancor con te.


Odi, s'io son sincero;

ancor mi sembri bella,

ma non mi sembri quella,

che paragon non ha.


E (non t'offenda il vero)

nel tuo leggiadro aspetto

or vedo alcun difetto,

che mi parea beltà.


Quando lo stral spezzai,

(confesso il mio rossore)

spezzar m'intesi il core,

mi parve di morir.


Ma per uscir di guai,

per non vedersi oppresso,

per racquistar se stesso

tutto si può soffrir.


Nel visco, in cui s'avvenne

quell'augellin talora,

lascia le penne ancora,

ma torna in libertà:


poi le perdute penne

in pochi dì rinnova,

cauto divien per prova

né più tradir si fa.


So che non credi estinto

in me l'incendio antico,

perché sì spesso il dico,

perché tacer non so:


quel naturale istinto,

Nice, a parlar mi sprona,

per cui ciascun ragiona

de' rischi che passò.


Dopo il crudel cimento

narra i passati sdegni,

di sue ferite i segni

mostra il guerrier così.


Mostra così contento

schiavo, che uscì di pena,

la barbara catena,

che strascinava un dì.


Parlo, ma sol parlando

me soddisfar procuro;

parlo, ma nulla io curo

che tu mi presti fé


parlo, ma non dimando

se approvi i detti miei,

né se tranquilla sei

nel ragionar di me.


Io lascio un'incostante;

tu perdi un cor sincero;

non so di noi primiero

chi s'abbia a consolar.


So che un sì fido amante

non troverà più Nice;

che un'altra ingannatrice

è facile a trovar.


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