sabato 27 aprile 2024

Historia Mongalorum di Giovanni Pian del Carpine

Nell'edizione che ho letto del Milione di Marco Polo era presente anche un altro testo legato ai viaggi in Oriente, l'Historia Mongalorum, un'opera di frate Giovanni da Pian del Carpine che narra del suo viaggio alla corte dell'imperatore mongolo. 

In questo caso, non troviamo l'atmosfera più "rilassata" che si respirava nel libro di Marco Polo ma toni più cupi mentre la civiltà mongola è descritta non come quella avanzata che si trova nel Milione ma come una popolazione di selvaggi, guerrieri violenti di cui non ci si può fidare. 

Questo resoconto, scritto dopo il ritorno del frate dal Karakorum, è stato scritto qualche anno prima del testo del mercante veneziano per rispondere ad una esigenza di carattere politico: viene analizzato al suo interno il popolo mongolo, all'epoca una grande minaccia per il mondo occidentale, con dettagliate analisi sulla sua forza e sulla sua organizzazione sociale e militare.

Frate Giovanni partì nel 1245 quando Papa Innocenzo IV decise di affrontare la "questione mongola", inviando per tramite di frate Giovanni una lettera al Gran Khan Güyük; la lettera non era accomodante, e la paura che i Tatari volessero distruggere il vecchio continente sottraendolo al dominio politico e culturale del Vaticano pervade la missiva indirizzata al Gran Khan.

Da questi timori nascono la missione del francescano e la stesura di un'opera che contiene avvertimenti, considerazioni e riflessioni sul mondo mongolo analizzato sotto numerosi suoi aspetti: cultura, tradizioni, organizzazione sociale e militare. Questo per permettere all'Europa di rispondere al meglio un nuovo eventuale attacco dei Tartari. Il punto di vista è quello di un religioso medievale che si trova a trattare con una popolazione che ha usanze completamente diverse da quelle europee e cristiane e narra di storie che ora possono far sorridere, come battaglie con diversi tipi di mostri. 



Eccone un estratto:

Per quanto non abbiano nessuna legge che definisca il modo di fare giustizia o che impedisca la consumazione dei delitti, hanno tuttavia varie norme tradizionali, che vennero stabilite da loro o dai loro predecessori. (...) Non bisogna appoggiarsi al frustino con cui si percuotono i cavalli, (...) nè catturare o uccidere giovani uccelli, nè percuotere il cavallo con il morso, nè ancora rompere un osso contro un altro nè versare a terra del latte o altra bevanda o cibo nè mingere entro la tenda. Quando ciò sia fatto volontariamente, il colpevole è ucciso; altrimenti è necessario che egli paghi una forte somma a uno stregone perchè questi lo purifichi e faccia passare la tenda e tutti gli oggetti che si trovano in essa tra due fuochi. 



venerdì 26 aprile 2024

Alessandro Magno nel Milione di Marco Polo

Sapete quanto mi appassioni la storia di Alessandro Magno, visto che vi ho parlato diverse volte del mio libro "Peritas" in cui il condottiero è una figura centrale. Devo dire anche che mi emoziono sempre quando trovo citazioni riguardanti il guerriero nelle opere che leggo. Questa volta è il caso de "Il Milione" di Marco Polo, dove incontriamo in Grande Alessandro in diverse occasioni. La visione che ne dà il mercante veneziano è quella tipicamente medievale, che rispecchia solo in parte quella storica, ma è pur sempre molto affascinante. 



Ecco i brani dedicati.

Del re di Giordania

In Giorgia hae uno re il quale si chiama sempre David Melic, cioè a dire, in francesco, David re. È sottoposto al Tarlero. E anticamente a tutti gli re, che nascono in quella provincia, nasceva un segno d’aguglia sotto la spalla diritta. Egli sono bella gente e prodi d’arme e buoni arcieri; egli sono cristiani e tengono legge di greci; e1 i cavagli hanno piccoli al modo de’ greci. E questa è la provincia che Alessandro grande non potè passare, perchè dall’uno lato èe il mare e dall’altro le montagne; dall’altro lato èe la via si stretta che non si può cavalcare, e dura questa via istretta piue di quattro leghe, cioè dodici miglia, sí che pochi uomeni terrebbono lo passo a tutto il mondo: perciò non vi passò Alessandro. E quivi fece fare Alessandro una torre con gran fortezza, perchè coloro non potessono passare per venire sopra lui, e chiamasi la «porta del ferro». E questo è lo luogo che dice il libro d’Alessandro, che dice che rinchiuse gli tarteri dentro dalle montagne; ma eglino non furono tarteri, anzi furono una gente e’ hanno nome Cumanni (Comani), e altre generazioni assai, che tarteri non erano a quel tempo. Egli hanno cittadi e castella assai; e hanno seta assai, e fanno drappi di seta e d’oro assai, li piú belli del mondo: egli hanno astori gli piú belli e gli migliori del mondo; e hanno abbondanza d’ogni cosa da vivere.

D’uno diserto

Quando l’uomo si parte di Gobiam (Cobinan), l’uomo va per un diserto bene otto giornate, nel quale hae grande secchitade, e non v’ha frutti nè acqua se non amara, come in quel di sopra che vi ho detto; e quegli che vi passano portano1 da bere e da mangiare, se no che gli cavalli beono di quell’acqua mal volentieri. E di capo delle otto giornate è una provincia chiamata Tonocan (Tonocain), e havvi castella e cittadi assai, e confina con Persia verso tramontana. E quivi è una grandissima provincia tutta piana, ov’è l’albero «solo», lo quale gli cristiani lo chiamano l'«albero secco»: e dirovvi com’egli è fatto. Egli è grande e grosso: le sue foglie sono dall’una parte verdi e dall’altra bianche,2 e fa cardi come di castagne; ma non v’ha entro nulla: egli è forte legno, e giallo come bossio. E non v’ha albero3 presso a cento miglia, salvo che dall’una parte, a dieci miglia. E quivi dicono, quegli di quelle parti, che fu la battaglia tra Alessandro e Dario. Le ville e le castella hanno grande abondanza d’ogni buona cosa; lo paese è temperato;4 e adorano Malcometto. Quivi hae bella gente e le femmine sono belle oltra misura. Di qui ci partiamo; e dirovvi di una contrada che si chiama Milice (Mulchet), ove il veglio della montagna solea dimorare.

Di Balac (Baie)

Balac fu una grande cittá e nobile piú che non è oggi, che gli tarteri l’hanno guasta e fatto gran danno1. In questa cittá prese Alessandro per moglie la figliuola di Dario, sí come dicono quelli di quella contrada. E adorano Malcometto. E sappiate che infino a questa terra dura la terra del signore degli tarteri del levante. E a questa cittá sono gli confini di Persia intra greco e levante2. Quando si passa questa terra, l’uomo cavalca bene dodici giornate tra levante e greco, che non si truova nulla abitazione, però che gli uomini, per paura degli osti e di mala gente, sono tutti ritratti alle fortezze delle montagne. In questa via hae acqua assai e cacciagioni e lioni. In tutte queste dodici giornate non trovasi vivande da mangiare, anzi conviene che vi si porti.

Di Balascam (Badascian)

Balascan è una provincia, che le genti adorano Malcometto, e hanno linguaggio per loro. Egli è grande reame; e discende lo re per ereditá; e scese del legnaggio d’Alessandro e della figliuola di Dario, lo grande re di Persia. E tutti quegli re si chiamano «Zulcarney» (Zulcarniain) in Saracino, cioè a dire Alessandro, per amore del grande Alessandro. E quivi nascono le pietre preziose che si chiamano «balasci», che sono molto care,1 e cavansi delle montagne come l’altre vene; ed è pena la testa chi cavasse di quelle pietre fuori del reame, perciò che ve n’è tante che diventerebbono vile. E quivi è un’altra montagna,2 ove si cava l’azzurro, ed è lo migliore e lo piú fine del mondo. 

giovedì 25 aprile 2024

Il Milione di Marco Polo

 Ho da poco terminato la lettura di una delle opere medievali più famose, Il Milione di Marco Polo. Sono partita con aspettative basse, visto che sono abituata a leggere libri di tutt'altro genere, ma capitolo dopo capitolo, il testo mi ha conquistato. In uno stile asciutto, il mercante veneziano ha descritto minuziosamente ogni aspetto delle civiltà con cui è venuto in contatto nel suo lungo viaggio in Oriente. 

Con gli occhi di un uomo dell'epoca si possono carpire numerose informazioni e curiosità, che a volte, a distanza di diversi secoli ci fanno sorridere: l'autore, ad esempio, descrive l'orango tango come un uomo, seguendo le credenze medievali, parla del carbone e del petrolio con toni quasi magici e si stupisce dell'uso della moneta di carta. Nel testo, si possono trovare racconti di battaglie, usanze diverse da quelle europee, racconti legati ai luoghi attraversati o incontrare personaggi a cavallo tra storia e leggenda, come il Prete Gianni. 

Il Milione di Marco Polo

L'opera fu scritta intorno al 1298 da tale Rustichello da Pisa, autore di romanzi cavallereschi, prigioniero a Genova insieme a Marco Polo, mercante veneziano che dettò il lavoro allo scrittore, e racconta i viaggi in Oriente del veneziano in qualità di mercante e ambasciatore. Il testo fu composto originariamente in lingua d'oïl mista a termini veneziani e italiani. Fu in seguito trascritto e tradotto in molte lingue e diffuso tramite innumerevoli edizioni.

Il libro descrive l’Oriente dell'epoca, con civiltà evolute che si alternavano con popolazioni ancora selvagge, contribuendo alla crescita di un nuovo atteggiamento di curiosità verso quelle terre lontane. 

Il centro del racconto è rappresentato dall’arrivo di Marco Polo, assieme al padre e allo zio, in Mongolia alla corte di Kublai Khan, il più grande sovrano orientale dell'epoca, del quale Marco fu al servizio per quasi 17 anni. 

L'autore racconta gli aspetti produttivi e commerciali di questi luoghi, le usanze, le varie religioni, gli animali e le coltivazioni. Nelle intenzioni di Marco Polo, il libro si rivolge a tutti quelli che vogliono sapere, per curiosità o per necessità, cosa c'è nelle terre a cui si arriva tramite la via della seta. 

Rispetto ad altre relazioni di viaggio scritte nel corso del XIII secolo, come l'Historia Mongalorum di Giovanni da Pian del Carpine, di cui vi parlerò a breve, e l'Itinerarium di Guglielmo di Rubruck, Il Milione vanta descrizioni di terre che vanno ben oltre il Karakorum e arrivano fino al Catai. Marco Polo testimoniò l'esistenza di una civiltà mongola stanziale e molto sofisticata, paragonabile alle civiltà europee.

Ma perché il libro si intitola Il Milione? Nei secoli si sono avvicendate diverse teorie su questo nome. Sembra che il titolo derivi da “Emilione”, nome che l’autore e la sua famiglia usavano per distinguersi dalle diverse altre famiglie Polo che esistevano nel Duecento a Venezia. Il libro, inizialmente, fu diffuso con diversi titoli in francese o latino: Divisament dou monde, Livres des merveilles du monde, De mirabilibus mundi. Purtroppo, il manoscritto originale è andato perduto.


Ecco alcuni estratti.


Il petrolio:

Della grande Ermenia. (...) Di verso tramontana confina con Giorges: e in questo confine è una fontana, ove surge tanto olio in tanta abbondanza, che cento navi se ne caricherebbono alla volta; ma egli non è buono da mangiare, ma si da ardere; è buono da rogna e ad altre cose; e vengono gli uomini molto dalla lunga per questo olio, e per tutta quella contrada non s’arde altro olio. 

Il carbone:

Delle pietre ch’ardono. Egli è vero che per tutta la provincia del Catai hae una maniera di pietre nere che si cavano delle montagne come vena, che ardono come bucce, e tengono piú lo fuoco che non fanno le legna. E mettendole la sera nel fuoco, s’elle s’aprendono bene, tutta notte mantengono lo fuoco; e per tutta la contrada del Catai non ardono altro. Bene hanno lagne, ma queste pietre costan meno, e sono gran risparmio di legna. Or vi dirò come il gran sire fa acciochè le biade non siano troppo care.

Gli incantatori:

Ancora della provincia di Tebet. (...) E hanno li piú savi incantatori e astrolagi che sieno in questi paesi. Egli fanno tali cose per opere di diavoli, che non si vuole contare in questo libro, perochè troppo se ne maraviglierebboro le persone; e sono male costumati. Egli hanno grandissimi cani, [e] mastini grandi come asini, che sono buoni da pigliare bestie salvatiche. 

Una delle prime descrizioni dello yak:

Del reame di Erguil (Erguiul). (...) E havvi buoi salvatichi che sono grandi come leonfanti, e sono molto begli a vedere, ch’egli sono pilosi, salvo che lo dosso, e sono bianchi e neri, e ’l pelo è lungo tre palmi, e sono sì begli ch’èe una maraviglia a vedere. E di questi buoi medesimi hanno di dimestichi, perchè hanno presi de’ salvatichi e liannogli dimesticati. Egli gli caricano e lavorano con essi, e hanno forza due cotanti che gli altri.

L'orango tango:

Del reame di Lambri. Lambri èe reame per sè, e richiamansi per lo Gran Cane, e sono idoli. Egli hanno molti berci e canfora e altre care ispezie. Del seme de’ berci recai io a Vinegia, e non vi nacque per lo freddo luogo. In questo reame sono uomeni che hanno coda lunga piú d’un palmo, e sono la maggiore parte; e dimorano nelle montagne di lungi dalla cittá. Le code sono grosse come di cane; egli hanno unicorni assai, cacciagioni e uccellagioni assai. Contato v’ho di Lambri: ora conterovvi di Fransur.

La moneta di carta

Della moneta del Gran Cane. Egli è vero che in questa cittá di Camblau (Cambaluc) èe la tavola del gran sire: èe ordinata in tal maniera, che l’uomo puote ben dire che il gran sire hae l’archimia perfettamente, e mostrerollovi incontanente. Or sappiate ch’egli fa fare una cotale moneta, com’io vi dirò. E’ fa prendere iscorza d’uno albore e’ ha nome «gelso»; e è l’albore le cui foglie mangiano gli vermini che fanno la seta. E colgono la buccia sottile, ch’è tra la buccia grossa e l’albore, [o vogli tu legno dentro], e di quella buccia fa fare carte, come di bambagia, e sono tutte nere. Quando queste carte sono fatte cosí, egli ne fa delle piccole, che vagliono una medaglia di tornesello piccolo, e l’altra vale un tornesello, e l’altra vale un grosso d’argento da Vinegia, e l’altra un mezzo, e l’altra due grossi, e l’altra cinque, e l’altra dieci, e l’altra un bisante d’oro, e l’altra due, e l’altra tre; e cosí va infino in dieci bisanti. E tutte queste carte sono sugiellate col sugiello del gran sire, e hanne fatte fare tante, che tutto il suo tesoro ne pagherebbe. E quando queste carte son fatte, egli ne fa fare tutti gli pagamenti, e fagli ispandere per tutte le provincie e regni e terre dov’egli hae signoria; e nessuno gli osa rifiutare, a pena della vita. E sí vi dico che tutte le genti e regni che sono sotto sua signoria si pagano di questa moneta, d’ogni mercatanzia di perle, d’oro e d’ariento e di pietre preziose, e generalmente d’ogni altra cosa. E sí vi dico che la carta, che si mette per dieci bisanti, non ne pesa uno; e si vi dico che gli mercatanti le piú volte cambiano questa moneta a perle o a oro e altre cose rare. E molte volte è recato al gran sire per gli mercatanti tanta mercatanzia in oro e in ariento, che vale quattrocentomila di bisanti; e ’l gran sire fa tutto pagare di quelle carte, e’ mercatanti le pigliano volentieri, perchè le spendono per tutto il paese. E molte volte fa bandire il Gran Cane che ogni uomo che hae oro e ariento o perle o pietre preziose o alcuna altra cara cosa, che incontanente la debbiano avere apresentata alla tavola del gran sire, ed egli lo fa pagare di queste carte; e tanto gliene viene di questa mercatanzia, ch’èe un miracolo. E quando ad alcuno si rompe o guastasi niuna di queste carte, egli va alla tavola del gran sire, e incontanente gliele cambia, e ègli data bella e nuova; ma si gliene lascia tre per cento. Ancora sappiate che, se alcuno vuol fare vasellamenta d’ariento o cinture, egli va alla tavola del gran sire, ed ègli dato per queste carte ariento quant’e’ ne vuole, contandosi le carte secondo che si ispendono. E questa è la ragione perchè il gran sire dee avere piú oro e piú ariento che signore del mondo. E sí vi dico che tra tutti gli signori del mondo non hanno tanta ricchezza quanto hae il Gran Cane solo. 

Gli incantatori di pesci:

Della provincia di Maabar. Si parla della pesca delle perle, ndr: E vanno nel mare sessanta miglia, e quivi gettano loro áncora, ed entrano in barche piccole, e pescano com’io vi dirò. E sono molti mercatanti, e fanno compagnia insieme, e alluogano molti uomeni per questi due mesí che dura la pescagione. E i mercatanti donano al re delle dieci parte l’una di ciò che pigliano. E ancora ne donano a coloro che incantano i pesci, che non faccino male agli uomeni che vanno sotto acqua per trovare le perle: a costoro donano delle venti parti l’una; e questi sono «abrinamani» («abraiaman»), incantatori. E questo incantesimo non vale se none il die, sí che di notte nessuno non pesca; e costoro ancora incantano ogni bestia e uccello. Quando questi uomeni allogati vanno sott’acqua, due passi o quattro o sei infino in dodici, egli vi stanno tanto quantunque egliono possono; e pigliano cotali pesci, che noi chiamiamo «aringhe», e in queste aringhe si pigliano le perle grosse e minute d’ogni fatta. E sappiate che le perle che si truovano in questo mare si spandono per tutto il mondo, e questo re n’ha grande tesoro.


domenica 7 aprile 2024

8 aprile 1692: nasce Giuseppe Tartini, il musicista che ha sognato il diavolo

 L'8 aprile del 1692 nasce a Pirano il violinista e compositore italiano Giuseppe Tartini, noto soprattutto per la sonata in Sol minore "Il trillo del diavolo" a cui si ispira una scena del mio secondo libro, Peritas. Il musicista è famoso, inoltre, per la scoperta, che sembra vada a lui attribuita, del terzo suono o suono di combinazione per differenza o suono di Tartini

Il sogno di Tartini e "Il trillo del diavolo"

"Il trillo del diavolo" è una sonata per violino e basso continuo nei quattro tempi tipici della sonata barocca, caratterizzato da numerosi passi virtuosistici. Fu composta nel 1713 e prende il nome dalla leggenda a cui è legato il brano. Tempo dopo aver composto la sonata, infatti, il compositore raccontò all’astronomo francese Jérôme Lalande di aver sognato il diavolo. Questi gli avrebbe offerto di esaudire qualunque suo desiderio e così Tartini gli chiese di suonare il violino. Il diavolo accettò, e dallo strumento scaturì una melodia straordinaria e difficilissima. Svegliatosi Tartini provò a riprodurla ma senza riuscire mai ad ottenere lo stesso effetto del sogno. Probabilmente continuò ad elaborarla per anni, fino al 1740. 

Lo stesso Lalande nel libro "Voyage d'un Français en Italie, fait dans les années 1765 et 1766" riporta l'aneddoto raccontato dal musicista: "Una notte sognai che avevo fatto un patto e che il diavolo era al mio servizio. Tutto mi riusciva secondo i miei desideri e le mie volontà erano sempre esaudite dal mio nuovo domestico. Immaginai di dargli il mio violino per vedere se fosse arrivato a suonarmi qualche bella aria, ma quale fu il mio stupore quando ascoltai una sonata così singolare e bella, eseguita con tanta superiorità e intelligenza che non potevo concepire nulla che le stesse al paragone. Provai tanta sorpresa, rapimento e piacere, che mi si mozzò il respiro. Fui svegliato da questa violenta sensazione e presi all'istante il mio violino, nella speranza di ritrovare una parte della musica che avevo appena ascoltato, ma invano. Il brano che composi è, in verità, il migliore che abbia mai scritto, ma è talmente al di sotto di quello che m'aveva così emozionato che avrei spaccato in due il mio violino e abbandonato per sempre la musica se mi fosse stato possibile privarmi delle gioie che mi procurava".

"Il sogno di Tartini" di Louis-Léopold Boilly 

La leggenda dopo la morte

Altre leggende sono legate al personaggio di Giuseppe Tartini e al luogo della sua sepoltura, la chiesa di Santa Caterina a Padova, dove riposa assieme alla moglie. Molti testimoni hanno riferito di aver visto in questo luogo, di notte, l'ombra di una figura femminile nell'atto di ballare al suono di una misteriosa musica. Altre volte, invece, è stata avvistata una figura incorporea dall'aspetto di un uomo vestito in abiti settecenteschi, mentre suona appassionatamente un violino. Poiché la tomba del compositore è stata aperta e trovata vuota, si è diffusa la convinzione che le figure viste nei pressi della chiesa siano i fantasmi di Tartini e della moglie. In realtà i resti del compositore furono distrutti da un acido, versato nella tomba per accelerarne la dissoluzione. Infatti, il particolare terreno su cui sorge la chiesa comprometterebbe i fenomeni putrefattivi.

mercoledì 3 aprile 2024

I Ludi Megalenses

 I Ludi Megalenses, detti anche Megalesia o Megalensia, erano feste dell'antica Roma in cui si celebraba Cibele. Nota anche come Magna Mater, era la dea della natura, degli animali e dei luoghi selvatici. 

La celebrazione aveva una durata di sei giorni, con inizio il 4 aprile, in un primo momento sul Palatino di fronte al tempio della dea, ma poi anche nei teatri, e prevedeva, tra le altre cose, corse di carri e rappresentazioni per cui scrissero anche autori del calibro di Terenzio e Plauto. 

La data scelta per la ricorrenza coincideva con l'arrivo della statua della dea a Roma da Pessinunte nella Frigia, nel 204 a.c. durante la II guerra punica. I Romani avevano interrogato i libri sibillini per volgere a proprio favore le sorti della guerra contro Annibale e, secondo l'interpretazione data, i testi avrebbero indicato di portare nella Urbe la statua di Cibele per ottenere la sua protezione e garantire la vittoria al popolo italico. Il tempio della Magna Mater fu fatto costruire nel 203 a.C.

Il pubblico arrivava da tutto l'impero per assistere all'evento, potevano partecipare anche le vestali mentre i magistrati indossavano una toga praetexta viola. Gli schiavi non potevano essere presenti ai giochi. 

La parte più attesa dei Ludi, dopo le piece teatrali, erano le corse di cavalli nel Circo Massimo, con gli spettatori che tifavano e scommettevano sull'uno o l'altro auriga. 


Seguiva una processione con musica e canti che terminava al tempio di Cibele dopo la quali ognuno tornava a casa per la festa serale, che consisteva nell'offerta sacra di un piatto di erbe chiamato “moretum”.

La devozione che i fedeli romani avevano per la dea Cibele è al centro del romanzo a cui sto lavorando, ambientato alla fine del IV sec. d.C. come vi ho già raccontato quando vi ho parlato di Festum Vestae ed Editto di Tessalonica.


lunedì 1 aprile 2024

2 aprile 742, nasce Carlo Magno

 Tra i personaggi storici che hanno ispirato in maniera considerevole il mondo letterario - e quindi croce e delizia di studenti e appassionati di letteratura - c'è Carlo Magno, di cui oggi ricorre l'anniversario della nascita, il 2 aprile del 742, anche se la data non è certa.

Il sovrano fu Re dei Franchi, Re dei Longobardi e primo imperatore del Sacro Romano Impero. Era un uomo incredibilmente grosso e possente, soprattutto per l'epoca e un combattente valoroso, che ha esercitato una grande influenza e fascino in tutto il millennio seguente.


Ispirandosi alla sua figura sono nate innumerevoli opere letterarie che ricordano le gesta dei cavalieri che hanno combattuto con lui. La più nota è la Chanson de Roland - con cui ha inizio, in Francia, la fioritura della letteratura - che narra delle vicende dei cavalieri erranti che hanno combattuto per proteggere il cristianesimo dai califfi musulmani. 

L'opera rientra nel Ciclo Carolingio o delle leggende di Carlo Magno, letteratura di carattere cavalleresco, che si sviluppò ed ebbe immediata fortuna subito dopo l’anno Mille.


Il Ciclo Carolingio si compone di un variegato complesso di versi incentrati sulla figura di Carlo Magno. Al centro, le sue imprese e quelle dei suoi paladini come Rolando (che in Italia diventa Orlando), Astolfo, Malagigi, Oliviero e Rinaldo solo per citarne alcuni dei più famosi.

Fanno parte delle leggende di Carlo Magno le “chansons de geste” composte per esaltare, sia la figura dell’imperatore sia i suoi paladini.

Nell’XI e XII secolo, grazie a poeti e giullari, la saga di Carlo ebbe un grandissimo successo che continuò, a fasi alterne, fino al XVI secolo quando arrivò in Italia, con l’Orlando Innamorato di Boiardo, il Morgante di Pulci e l’Orlando Furioso di Ariosto.

Ecco i tre bellissimi proemi, segnalati in ordine di tempo:

I primi versi del Morgante

In principio era il Verbo appresso a Dio,

ed era Iddio il Verbo e ’l Verbo Lui:

questo era nel principio, al parer mio,

e nulla si può far sanza Costui.

Però, giusto Signor benigno e pio,

mandami solo un degli angel tui,

che m’accompagni e rechimi a memoria

una famosa, antica e degna storia.


L'inizio dell'Orlando innamorato

Signori e cavallier che ve adunati

Per odir cose dilettose e nove,

Stati attenti e quïeti, ed ascoltati

La bella istoria che ’l mio canto muove;

E vedereti i gesti smisurati,

L’alta fatica e le mirabil prove

Che fece il franco Orlando per amore

Nel tempo del re Carlo imperatore.


Il proemio dell'Orlando Furioso

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,

le cortesie, l’audaci imprese io canto,

che furo al tempo che passaro i Mori

d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,

seguendo l’ire e i giovenil furori

d’Agramante lor re, che si diè vanto

di vendicar la morte di Troiano

sopra re Carlo imperator romano.


Lo specchio di Giano e gli dei

 Avendo deciso di scrivere un romanzo ispirato agli Etruschi e ai popoli antichi non ho potuto fare a meno, in Lo specchio di Giano , di da...