Ho da poco terminato la lettura di una delle opere medievali più famose, Il Milione di Marco Polo. Sono partita con aspettative basse, visto che sono abituata a leggere libri di tutt'altro genere, ma capitolo dopo capitolo, il testo mi ha conquistato. In uno stile asciutto, il mercante veneziano ha descritto minuziosamente ogni aspetto delle civiltà con cui è venuto in contatto nel suo lungo viaggio in Oriente.
Con gli occhi di un uomo dell'epoca si possono carpire numerose informazioni e curiosità, che a volte, a distanza di diversi secoli ci fanno sorridere: l'autore, ad esempio, descrive l'orango tango come un uomo, seguendo le credenze medievali, parla del carbone e del petrolio con toni quasi magici e si stupisce dell'uso della moneta di carta. Nel testo, si possono trovare racconti di battaglie, usanze diverse da quelle europee, racconti legati ai luoghi attraversati o incontrare personaggi a cavallo tra storia e leggenda, come il Prete Gianni.
Il Milione di Marco Polo
L'opera fu scritta intorno al 1298 da tale Rustichello da Pisa, autore di romanzi cavallereschi, prigioniero a Genova insieme a Marco Polo, mercante veneziano che dettò il lavoro allo scrittore, e racconta i viaggi in Oriente del veneziano in qualità di mercante e ambasciatore. Il testo fu composto originariamente in lingua d'oïl mista a termini veneziani e italiani. Fu in seguito trascritto e tradotto in molte lingue e diffuso tramite innumerevoli edizioni.
Il libro descrive l’Oriente dell'epoca, con civiltà evolute che si alternavano con popolazioni ancora selvagge, contribuendo alla crescita di un nuovo atteggiamento di curiosità verso quelle terre lontane.
Il centro del racconto è rappresentato dall’arrivo di Marco Polo, assieme al padre e allo zio, in Mongolia alla corte di Kublai Khan, il più grande sovrano orientale dell'epoca, del quale Marco fu al servizio per quasi 17 anni.
L'autore racconta gli aspetti produttivi e commerciali di questi luoghi, le usanze, le varie religioni, gli animali e le coltivazioni. Nelle intenzioni di Marco Polo, il libro si rivolge a tutti quelli che vogliono sapere, per curiosità o per necessità, cosa c'è nelle terre a cui si arriva tramite la via della seta.
Rispetto ad altre relazioni di viaggio scritte nel corso del XIII secolo, come l'Historia Mongalorum di Giovanni da Pian del Carpine, di cui vi parlerò a breve, e l'Itinerarium di Guglielmo di Rubruck, Il Milione vanta descrizioni di terre che vanno ben oltre il Karakorum e arrivano fino al Catai. Marco Polo testimoniò l'esistenza di una civiltà mongola stanziale e molto sofisticata, paragonabile alle civiltà europee.
Ma perché il libro si intitola Il Milione? Nei secoli si sono avvicendate diverse teorie su questo nome. Sembra che il titolo derivi da “Emilione”, nome che l’autore e la sua famiglia usavano per distinguersi dalle diverse altre famiglie Polo che esistevano nel Duecento a Venezia. Il libro, inizialmente, fu diffuso con diversi titoli in francese o latino: Divisament dou monde, Livres des merveilles du monde, De mirabilibus mundi. Purtroppo, il manoscritto originale è andato perduto.
Ecco alcuni estratti.
Il petrolio:
Della grande Ermenia. (...) Di verso tramontana confina con Giorges: e in questo confine è una fontana, ove surge tanto olio in tanta abbondanza, che cento navi se ne caricherebbono alla volta; ma egli non è buono da mangiare, ma si da ardere; è buono da rogna e ad altre cose; e vengono gli uomini molto dalla lunga per questo olio, e per tutta quella contrada non s’arde altro olio.
Il carbone:
Delle pietre ch’ardono. Egli è vero che per tutta la provincia del Catai hae una maniera di pietre nere che si cavano delle montagne come vena, che ardono come bucce, e tengono piú lo fuoco che non fanno le legna. E mettendole la sera nel fuoco, s’elle s’aprendono bene, tutta notte mantengono lo fuoco; e per tutta la contrada del Catai non ardono altro. Bene hanno lagne, ma queste pietre costan meno, e sono gran risparmio di legna. Or vi dirò come il gran sire fa acciochè le biade non siano troppo care.
Gli incantatori:
Ancora della provincia di Tebet. (...) E hanno li piú savi incantatori e astrolagi che sieno in questi paesi. Egli fanno tali cose per opere di diavoli, che non si vuole contare in questo libro, perochè troppo se ne maraviglierebboro le persone; e sono male costumati. Egli hanno grandissimi cani, [e] mastini grandi come asini, che sono buoni da pigliare bestie salvatiche.
Una delle prime descrizioni dello yak:
Del reame di Erguil (Erguiul). (...) E havvi buoi salvatichi che sono grandi come leonfanti, e sono molto begli a vedere, ch’egli sono pilosi, salvo che lo dosso, e sono bianchi e neri, e ’l pelo è lungo tre palmi, e sono sì begli ch’èe una maraviglia a vedere. E di questi buoi medesimi hanno di dimestichi, perchè hanno presi de’ salvatichi e liannogli dimesticati. Egli gli caricano e lavorano con essi, e hanno forza due cotanti che gli altri.
L'orango tango:
Del reame di Lambri. Lambri èe reame per sè, e richiamansi per lo Gran Cane, e sono idoli. Egli hanno molti berci e canfora e altre care ispezie. Del seme de’ berci recai io a Vinegia, e non vi nacque per lo freddo luogo. In questo reame sono uomeni che hanno coda lunga piú d’un palmo, e sono la maggiore parte; e dimorano nelle montagne di lungi dalla cittá. Le code sono grosse come di cane; egli hanno unicorni assai, cacciagioni e uccellagioni assai. Contato v’ho di Lambri: ora conterovvi di Fransur.
La moneta di carta
Della moneta del Gran Cane. Egli è vero che in questa cittá di Camblau (Cambaluc) èe la tavola del gran sire: èe ordinata in tal maniera, che l’uomo puote ben dire che il gran sire hae l’archimia perfettamente, e mostrerollovi incontanente. Or sappiate ch’egli fa fare una cotale moneta, com’io vi dirò. E’ fa prendere iscorza d’uno albore e’ ha nome «gelso»; e è l’albore le cui foglie mangiano gli vermini che fanno la seta. E colgono la buccia sottile, ch’è tra la buccia grossa e l’albore, [o vogli tu legno dentro], e di quella buccia fa fare carte, come di bambagia, e sono tutte nere. Quando queste carte sono fatte cosí, egli ne fa delle piccole, che vagliono una medaglia di tornesello piccolo, e l’altra vale un tornesello, e l’altra vale un grosso d’argento da Vinegia, e l’altra un mezzo, e l’altra due grossi, e l’altra cinque, e l’altra dieci, e l’altra un bisante d’oro, e l’altra due, e l’altra tre; e cosí va infino in dieci bisanti. E tutte queste carte sono sugiellate col sugiello del gran sire, e hanne fatte fare tante, che tutto il suo tesoro ne pagherebbe. E quando queste carte son fatte, egli ne fa fare tutti gli pagamenti, e fagli ispandere per tutte le provincie e regni e terre dov’egli hae signoria; e nessuno gli osa rifiutare, a pena della vita. E sí vi dico che tutte le genti e regni che sono sotto sua signoria si pagano di questa moneta, d’ogni mercatanzia di perle, d’oro e d’ariento e di pietre preziose, e generalmente d’ogni altra cosa. E sí vi dico che la carta, che si mette per dieci bisanti, non ne pesa uno; e si vi dico che gli mercatanti le piú volte cambiano questa moneta a perle o a oro e altre cose rare. E molte volte è recato al gran sire per gli mercatanti tanta mercatanzia in oro e in ariento, che vale quattrocentomila di bisanti; e ’l gran sire fa tutto pagare di quelle carte, e’ mercatanti le pigliano volentieri, perchè le spendono per tutto il paese. E molte volte fa bandire il Gran Cane che ogni uomo che hae oro e ariento o perle o pietre preziose o alcuna altra cara cosa, che incontanente la debbiano avere apresentata alla tavola del gran sire, ed egli lo fa pagare di queste carte; e tanto gliene viene di questa mercatanzia, ch’èe un miracolo. E quando ad alcuno si rompe o guastasi niuna di queste carte, egli va alla tavola del gran sire, e incontanente gliele cambia, e ègli data bella e nuova; ma si gliene lascia tre per cento. Ancora sappiate che, se alcuno vuol fare vasellamenta d’ariento o cinture, egli va alla tavola del gran sire, ed ègli dato per queste carte ariento quant’e’ ne vuole, contandosi le carte secondo che si ispendono. E questa è la ragione perchè il gran sire dee avere piú oro e piú ariento che signore del mondo. E sí vi dico che tra tutti gli signori del mondo non hanno tanta ricchezza quanto hae il Gran Cane solo.
Gli incantatori di pesci:
Della provincia di Maabar. Si parla della pesca delle perle, ndr: E vanno nel mare sessanta miglia, e quivi gettano loro áncora, ed entrano in barche piccole, e pescano com’io vi dirò. E sono molti mercatanti, e fanno compagnia insieme, e alluogano molti uomeni per questi due mesí che dura la pescagione. E i mercatanti donano al re delle dieci parte l’una di ciò che pigliano. E ancora ne donano a coloro che incantano i pesci, che non faccino male agli uomeni che vanno sotto acqua per trovare le perle: a costoro donano delle venti parti l’una; e questi sono «abrinamani» («abraiaman»), incantatori. E questo incantesimo non vale se none il die, sí che di notte nessuno non pesca; e costoro ancora incantano ogni bestia e uccello. Quando questi uomeni allogati vanno sott’acqua, due passi o quattro o sei infino in dodici, egli vi stanno tanto quantunque egliono possono; e pigliano cotali pesci, che noi chiamiamo «aringhe», e in queste aringhe si pigliano le perle grosse e minute d’ogni fatta. E sappiate che le perle che si truovano in questo mare si spandono per tutto il mondo, e questo re n’ha grande tesoro.