lunedì 11 marzo 2024

Gabriele D'Annunzio inventore di parole

 Gabriele D'Annunzio (Pescara, 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1 marzo 1938) oltre essere uno dei più importanti scrittori e poeti del Novecento (qui un articolo dedicato a una mostra al Vittoriale), ha creato dei veri e propri neologismi entrati nell’italiano corrente. 

Per la maggior parte, i termini che andremo a scoprire derivavano da un tentativo di non accogliere nella nostra lingua termini stranieri: erano quindi il frutto di un’ideologia fortemente conservatrice. Un esempio di queste creazioni è tramezzino. Dall'altra parte, alcune “invenzioni” di D’Annunzio si riferivano a invenzioni che si stavano diffondendo in quel periodo, come velivolo e fusoliera. 

Ecco otto neologismi coniati da D'Annunzio, tra cui due nomi di marchi molto famosi: 

Tramezzino. Come anticipato poco sopra, fu proprio D'Annunzio a inventare il termine corrispondente all'inglese sandwich.

Velivolo. Diventato aviatore, il poeta coniò diversi termini legati al mondo dell'aviazione, che si stava diffondendo proprio in quel periodo. "Che va e par volare con le vele": questo è il significato della parola, perfetta, secondo D'Annunzio, per indicare il nuovo mezzo di trasporto. 

Fusoliera. Questo termine compare per la prima volta nel romanzo "Forse che sì, forse che no" del 1910.

Scudetto. Il simbolo col tricolore applicato sulle maglie della squadra che ha vinto il campionato italiano di calcio fu inventato da D'Annunzio. Questo triangolino si ispira allo scudetto che lo scrittore aveva fatto applicare alla divisa indossata dalla squadra italiana in una partita di calcio organizzata durante l'occupazione di Fiume.

Vigili del fuoco. Per questo termine il poeta Vate si ispirò ai "vigiles" dell'antica Roma e lo coniò nel 1938 in piena autarchia culturale. Quando il corpo fu istituito nel 1935 fu chiamato con un nome derivante dall'analogo francese, pompieri. 

Milite Ignoto. Alcuni attribuiscono a d'Annunzio anche la definizione di Milite Ignoto con cui, dal 1921, venne indicato il militare italiano non identificato, caduto nella Prima Guerra mondiale, sepolto presso l'Altare della Patria a Roma. 

La Rinascente. Il nome risale al 1917, quando un grande magazzino di Milano fu distrutto dalle fiamme.

Saiwa. Si tratta dell'acronimo di Società Accomandita Industria Wafer e Affini. Il nome fu inventato per l'azienda nata dallo sviluppo di una piccola pasticceria di Genova, diventata negli anni una delle prime produzioni industriali di prodotti da forno nel nostro Paese. 

Questi sono solo alcuni esempi della creatività di D'Annunzio nell'invenzione di nuovi termini. Inoltre, fu lui a stabilire in Italia, che la parola "automobile" fosse di genere femminile. Lo fece in una lettera inviata a Giovanni Agnelli che gli aveva chiesto un suo parere sul genere di questo termine, all'epoca usato anche al maschile.

Ancora una curiosità: tra i neologismi coniati dallo scrittore troviamo anche nomi propri di persona, come Cabiria e Ornella, derivati da alcune sue celebri opere, un colossal del cinema muto e la tragedia La figlia di Iorio. Fu sempre lui a battezzare con il nome di Liala la celebre scrittrice di romanzi rosa Amalia Liana Negretti Odelaschi.




11 marzo 1544, nasce Torquato Tasso

 Oggi, 11 marzo, ricorre l'anniversario della nascita di Torquato Tasso, come già sapete, uno dei miei autori preferiti (vi ho parlato diverse volte anche dei personaggi di Lo specchio di Giano ispirati a quelli della Gerusalemme Liberata). 

Nato nel 1544, è considerato il primo autore moderno. Artista dall'animo tormentato, venne particolarmente apprezzato dai romantici poiché incarna il personaggio del letterato che per via della sua sensibilità entra in conflitto con la società: Tasso era quindi per i romantici l'immagine del conflitto tra genialità e limiti posti dalla realtà. 

La sua figura ha alimentato in passato un vero e proprio culto, suscitando l’ammirazione da parte di altri “grandi” della letteratura come Goethe, che firmò la tragedia dal titolo Torquato Tasso, e Leopardi. E' proprio dall'operetta morale dedicata al Tasso che è partito il mio amore per questo scrittore e poeta, che non mi ha mai abbandonato nel corso degli anni. 

Per questo, se di solito celebro un autore citando una sua opera, questa volta riporto un lavoro a lui dedicato: dalle Operette Morali di Leopardi, il Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio, che si riferisce al periodo di prigionia dell'autore nell'Ospedale Sant'Anna, nella celebre cella detta poi "del Tasso", dove rimase per sette anni. A seguire l'incompiuta Canzone al Metauro, in cui Torquato esprime tutto il suo tormento. 

Ritratto anonimo del Tasso - Web Gallery of Art: Immagine  Info about artwork, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15418320

Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio

Genio: Come stai, Torquato?

Tasso: Ben sai come si può stare in una prigione, e dentro ai guai fino al collo.

Genio: Via, ma dopo cenato non è tempo da dolersene. Fa buon animo, e ridiamone insieme.

Tasso: Ci son poco atto. Ma la tua presenza e le tue parole sempre mi consolano. Siedimi qui accanto.

Genio: Che io segga? La non è già cosa facile a uno spirito. Ma ecco: fa conto ch’io sto seduto.

Tasso: Oh potess’io rivedere la mia Leonora. Ogni volta che ella mi torna alla mente, mi nasce un brivido di gioia, che dalla cima del capo mi si stende fino all’ultima punta de’ piedi; e non resta in me nervo né vena che non sia scossa. Talora, pensando a lei, mi si ravvivano nell’animo certe immagini e certi affetti, tali, che per quel poco tempo, mi pare di essere ancora quello stesso Torquato che fui prima di aver fatto esperienza delle sciagure e degli uomini, e che ora io piango tante volte per morto. In vero, io direi che l’uso del mondo, e l’esercizio de’ patimenti, sogliono come profondare e sopire dentro a ciascuno di noi quel primo uomo che egli era: il quale di tratto in tratto si desta per poco spazio, ma tanto più di rado quanto è il progresso degli anni; sempre più poi si ritira verso il nostro intimo, e ricade in maggior sonno di prima; finché durando ancora la nostra vita, esso muore. In fine, io mi maraviglio come il pensiero di una donna abbia tanta forza, da rinnovarmi, per così dire, l’anima, e farmi dimenticare tante calamità. E se non fosse che io non ho più speranza di rivederla, crederei non avere ancora perduta la facoltà di essere felice.

Genio: Quale delle due cose stimi che sia più dolce: vedere la donna amata, o pensarne?

Tasso: Non so. Certo che quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare una dea.

Genio: Coteste dee sono così benigne, che quando alcuno vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divinità, si spiccano i raggi d’attorno, e se li pongono in tasca, per non abbagliare il mortale che si fa innanzi.

Tasso: Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pare egli cotesto un gran peccato delle donne; che alla prova, elle ci riescano così diverse da quelle che noi le immaginavamo?

Genio: Io non so vedere che colpa s’abbiano in questo, d’esser fatte di carne e sangue, piuttosto che di ambrosia e nettare. Qual cosa del mondo ha pure un’ombra o una millesima parte della perfezione che voi pensate che abbia a essere nelle donne? E anche mi pare strano, che non facendovi maraviglia che gli uomini sieno uomini, cioè creature poco lodevoli e poco amabili; non sappiate poi comprendere come accada, che le donne in fatti non sieno angeli.

Tasso: Con tutto questo, io mi muoio dal desiderio di rivederla, e di riparlarle.

Genio: Via, questa notte in sogno io te la condurrò davanti; bella come la gioventù; e cortese in modo, che tu prenderai cuore di favellarle molto più franco e spedito che non ti venne fatto mai per l’addietro: anzi all’ultimo le stringerai la mano; ed ella guardandoti fiso, ti metterà nell’animo una dolcezza tale, che tu ne sarai sopraffatto; e per tutto domani, qualunque volta ti sovverrà di questo sogno, ti sentirai balzare il cuore dalla tenerezza.

Tasso: Gran conforto: un sogno in cambio del vero.

Genio: Che cosa è il vero?

Tasso: Pilato non lo seppe meno di quello che lo so io.

Genio: Bene, io risponderò per te. Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello non può mai.

Tasso: Dunque tanto vale un diletto sognato, quanto un diletto vero?

Genio: Io credo. Anzi ho notizia di uno che quando la donna che egli ama, se gli rappresenta dinanzi in alcun sogno gentile, esso per tutto il giorno seguente, fugge di ritrovarsi con quella e di rivederla; sapendo che ella non potrebbe reggere al paragone dell’immagine che il sonno gliene ha lasciata impressa, e che il vero, cancellandogli dalla mente il falso, priverebbe lui del diletto straordinario che ne ritrae. Però non sono da condannare gli antichi, molto più solleciti, accorti e industriosi di voi, circa a ogni sorta di godimento possibile alla natura umana, se ebbero per costume di procurare in vari modi la dolcezza e la giocondità dei sogni; né Pitagora è da riprendere per avere interdetto il mangiare delle fave, creduto contrario alla tranquillità dei medesimi sogni, ed atto a intorbidarli2; e sono da scusare i superstiziosi che avanti di coricarsi solevano orare e far libazioni a Mercurio conduttore dei sogni, acciò ne menasse loro di quei lieti; l’immagine del quale tenevano a quest’effetto intagliata in su’ piedi delle lettiere3. Così, non trovando mai la felicità nel tempo della vigilia, si studiavano di essere felici dormendo: e credo che in parte, e in qualche modo, l’ottenessero; e che da Mercurio fossero esauditi meglio che dagli altri Dei.

Tasso: Per tanto, poiché gli uomini nascono e vivono al solo piacere, o del corpo o dell’animo; se da altra parte il piacere è solamente o massimamente nei sogni, converrà ci determiniamo a vivere per sognare: alla qual cosa, in verità, io non mi posso ridurre.

Genio: Già vi sei ridotto e determinato, poiché tu vivi e che tu consenti di vivere. Che cosa è il piacere?

Tasso: Non ne ho tanta pratica da poterlo conoscere che cosa sia.

Genio: Nessuno lo conosce per pratica, ma solo per ispeculazione: perché il piacere è un subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l’uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto, e non un sentimento. Non vi accorgete voi che nel tempo stesso di qualunque vostro diletto, ancorché desiderato infinitamente, e procacciato con fatiche e molestie indicibili; non potendovi contentare il goder che fate in ciascuno di quei momenti, state sempre aspettando un goder maggiore e più vero, nel quale consista in somma quel tal piacere; e andate quasi riportandovi di continuo agl’istanti futuri di quel medesimo diletto? Il quale finisce sempre innanzi al giunger dell’istante che vi soddisfaccia; e non vi lascia altro bene che la speranza cieca di goder meglio e più veramente in altra occasione, e il conforto di fingere e narrare a voi medesimi di aver goduto, con raccontarlo anche agli altri, non per sola ambizione, ma per aiutarvi al persuaderlo che vorreste pur fare a voi stessi. Però chiunque consente di vivere, nol fa in sostanza ad altro effetto né con altra utilità che di sognare; cioè credere di avere a godere, o di aver goduto; cose ambedue false e fantastiche.

Tasso: Non possono gli uomini credere mai di godere presentemente?

Genio: Sempre che credessero cotesto, godrebbero in fatti. Ma narrami tu se in alcun istante della tua vita, ti ricordi aver detto con piena sincerità ed opinione: io godo. Ben tutto giorno dicesti e dici sinceramente: io godrò; e parecchie volte, ma con sincerità minore: ho goduto. Di modo che il piacere è sempre o passato o futuro, e non mai presente.

Tasso: Che è quanto dire e sempre nulla.

Genio: Così pare.

Tasso: Anche nei sogni.

Genio: Propriamente parlando.

Tasso: E tuttavia l’obbietto e l’intento della vita nostra, non pure essenziale ma unico, è il piacere stesso; intendendo per piacere la felicità; che debbe in effetto esser piacere; da qualunque cosa ella abbia a procedere.

Genio: Certissimo.

Tasso: Laonde la nostra vita, mancando sempre del suo fine, è continuamente imperfetta: e quindi il vivere è di sua propria natura uno stato violento.

Genio: Forse.

Tasso: Io non ci veggo forse. Ma dunque perché viviamo noi? voglio dire, perché consentiamo di vivere?

Genio: Che so io di cotesto? Meglio lo saprete voi, che siete uomini.

Tasso: Io per me ti giuro che non lo so.

Genio: Domandane altri de’ più savi, e forse troverai qualcuno che ti risolva cotesto dubbio.

Tasso: Così farò. Ma certo questa vita che io meno, è tutta uno stato violento: perché lasciando anche da parte i dolori, la noia sola mi uccide.

Genio: Che cosa è la noia?

Tasso: Qui l’esperienza non mi manca, da soddisfare alla tua domanda. A me pare che la noia sia della natura dell’aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non si dà vòto alcuno; così nella vita nostra non si dà vòto; se non quando la mente per qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero. Per tutto il resto del tempo, l’animo considerato anche in se proprio e come disgiunto dal corpo, si trova contenere qualche passione; come quello a cui l’essere vacuo da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di noia; la quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e il diletto.

Genio: E da poi che tutti i vostri diletti sono di materia simile ai ragnateli; tenuissima, radissima e trasparente; perciò come l’aria in questi, così la noia penetra in quelli da ogni parte, e li riempie. Veramente per la noia non credo si debba intendere altro che il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non offeso apertamente dal dispiacere. Il qual desiderio, come dicevamo poco innanzi, non è mai soddisfatto; e il piacere propriamente non si trova. Sicché la vita umana, per modo di dire, è composta e intessuta, parte di dolore, parte di noia; dall’una delle quali passioni non ha riposo se non cadendo nell’altra. E questo non è tuo destino particolare, ma comune di tutti gli uomini.

Tasso: Che rimedio potrebbe giovare contro la noia?

Genio: Il sonno, l’oppio, e il dolore. E questo è il più potente di tutti: perché l’uomo mentre patisce, non si annoia per niuna maniera.

Tasso: In cambio di cotesta medicina, io mi contento di annoiarmi tutta la vita. Ma pure la varietà delle azioni, delle occupazioni e dei sentimenti, se bene non ci libera dalla noia, perché non ci reca diletto vero, contuttociò la solleva ed alleggerisce. Laddove in questa prigionia, separato dal commercio umano, toltomi eziandio lo scrivere, ridotto a notare per passatempo i tocchi dell’oriuolo, annoverare i correnti, le fessure e i tarli del palco, considerare il mattonato del pavimento, trastullarmi colle farfalle e coi moscherini che vanno attorno alla stanza, condurre quasi tutte le ore a un modo; io non ho cosa che mi scemi in alcun parte il carico della noia.

Genio: Dimmi: quanto tempo ha che tu sei ridotto a cotesta forma di vita?

Tasso: Più settimane, come tu sai.

Genio: Non conosci tu dal primo giorno al presente, alcuna diversità nel fastidio che ella ti reca?

Tasso: Certo che io lo provava maggiore a principio: perché di mano in mano la mente, non occupata da altro e non isvagata, mi si viene accostumando a conversare seco medesima assai più e con maggior sollazzo di prima, e acquistando un abito e una virtù di favellare in se stessa, anzi di cicalare, tale, che parecchie volte mi pare quasi avere una compagnia di persone in capo che stieno ragionando, e ogni menomo soggetto che mi si appresenti al pensiero, mi basta a farne tra me e me una gran diceria.

Genio: Cotesto abito te lo vedrai confermare e accrescere di giorno in giorno per modo, che quando poi ti si renda la facoltà di usare cogli altri uomini, ti parrà essere più disoccupato stando in compagnia loro, che in solitudine. E quest’assuefazione in sì fatto tenore di vita, non credere che intervenga solo a’ tuoi simili, già consueti a meditare; ma ella interviene in più o men tempo a chicchessia. Di più, l’essere diviso dagli uomini e, per dir così, dalla vita stessa, porta seco questa utilità; che l’uomo, eziandio sazio, chiarito e disamorato delle cose umane per l’esperienza; a poco a poco assuefacendosi di nuovo a mirarle da lungi, donde elle paiono molto più belle e più degne che da vicino, si dimentica della loro vanità e miseria; torna a formarsi e quasi crearsi il mondo a suo modo; apprezzare, amare e desiderare la vita; delle cui speranze, se non gli è tolto o il potere o il confidare di restituirsi alla società degli uomini, si va nutrendo e dilettando, come egli soleva a’ suoi primi anni. Di modo che la solitudine fa quasi l’ufficio della gioventù; o certo ringiovanisce l’animo, ravvalora e rimette in opera l’immaginazione, e rinnuova nell’uomo esperimentato i beneficii di quella prima inesperienza che tu sospiri. Io ti lascio; che veggo che il sonno ti viene entrando; e me ne vo ad apparecchiare il bel sogno che ti ho promesso. Così, tra sognare e fantasticare, andrai consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla; che questo e l’unico frutto che al mondo se ne può avere, e l’unico intento che voi vi dovete proporre ogni mattina in sullo svegliarvi. Spessissimo ve la conviene strascinare co’ tarla in sul dosso. Ma, in fine, il tuo tempo non è più lento a correre in questa carcere, che sia nelle sale e negli orti quello di chi ti opprime. Addio.

Tasso: Addio. Ma senti. La tua conversazione mi riconforta pure assai. Non che ella interrompa la mia tristezza: ma questa per la più parte del tempo è come una notte oscurissima, senza luna né stelle; mentre son teco, somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto. Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare.

Genio: Ancora non l’hai conosciuto? In qualche liquore generoso.

La canzone al Metauro

O del grand’Apennino

figlio picciolo sì ma glorioso,

e di nome più chiaro assai che d’onde;

fugace peregrino

a queste tue cortesi amiche sponde

per sicurezza vengo e per riposo.

L'alta Quercia che tu bagni e feconde

con dolcissimi umori, ond’ella spiega

i rami sì ch’i monti e i mari ingombra,

mi ricopra con l’ombra.

L’ombra sacra, ospital, ch’altrui non niega

al suo fresco gentil riposo e sede,

entro al piú denso mi raccoglia e chiuda,

sì ch’io celato sia da quella cruda

e cieca dèa, ch’è cieca e pur mi vede,

ben ch’io da lei m’appiatti in monte o ‘n valle

e per solingo calle

notturno io mova e sconosciuto il piede;

e mi saetta sì che ne’ miei mali

mostra tanti occhi aver quanti ella ha strali.


Ohimè! dal dì che pria

trassi l’aure vitali e i lumi apersi

in questa luce a me non mai serena,

fui de l’ingiusta e ria

trastullo e segno, e di sua man soffersi

piaghe che lunga età risalda a pena.

Sàssel la gloriosa alma sirena,

appresso il cui sepolcro ebbi la cuna:

così avuto v’avessi o tomba o fossa

a la prima percossa!

Me dal sen de la madre empia fortuna

pargoletto divelse. Ah! di quei baci,

ch’ella bagnò di lagrime dolenti,

con sospir mi rimembra e degli ardenti

preghi che se ‘n portár l’aure fugaci:

ch’io non dovea giunger più volto a volto

fra quelle braccia accolto

con nodi così stretti e sì tenaci.

Lasso! e seguii con mal sicure piante,

qual Ascanio o Camilla, il padre errante.


In aspro essiglio e ‘n dura

povertà crebbi in quei sì mesti errori;

intempestivo senso ebbi a gli affanni:

ch’anzi stagion, matura

l’acerbità de’ casi e de’ dolori

in me rendé l’acerbità de gli anni.

L’egra spogliata sua vecchiezza e i danni

narrerò tutti. Or che non sono io tanto

ricco de’ propri guai che basti solo

per materia di duolo?

Dunque altri ch’io da me dev’esser pianto?

Già scarsi al mio voler sono i sospiri,

e queste due d’umor sì larghe vene

non agguaglian le lagrime a le pene.

Padre, o buon padre, che dal ciel rimiri,

egro e morto ti piansi, e ben tu il sai,

e gemendo scaldai

la tomba e il letto: or che ne gli alti giri

tu godi, a te si deve onor, non lutto:

a me versato il mio dolor sia tutto.


domenica 10 marzo 2024

Lo specchio di Giano, una fonte di ispirazione... inaspettata

 Ripeto praticamente in ogni blog post e il tutti i contenuti che propongo su Facebook e Instagram che "Lo Specchio di Giano" è ispirato agli Etruschi e ai popoli antichi. Potete quindi immaginare come le mie principali fonti di ispirazione siano le opere greche e latine. Ma ce ne è una a cui forse nessuno pensa e che mi accompagna da quando sono ragazza: La Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, a cui mi sono appassionata grazie a un "suggerimento" illustre. Sono stati infatti i testi di Leopardi dedicati a Tasso a farmi decidere di intraprendere quella lettura.

Ho letto il poema eroico diverse volte, tutte in momenti abbastanza particolari della mia vita, caratterizzati da diverse difficoltà. La costruzione della trama, il finale, i personaggi sono sempre riusciti da una parte ad emozionarmi dall'altra a rasserenarmi, nonostante la distanza linguistica di diversi secoli. L'ultima volta che ho sfogliato queste fantastiche pagine è stato proprio durante la scrittura dell'ebook, per prendere qualche spunto, per scenari e caratteri ma anche per la descrizione di duelli e battaglie. 


Per descrivere Ataris sono stata molto influenzata dalla figura di Ismeno, tanto che all'inizio avevo scelto questo nome per il personaggio. Thanaquil guarda in parte a Clorinda, Armida è uno dei modelli delle due streghe Erichto e Picatrix, mentre Turno, nonostante il nome di chiara ascendenza virgiliana, ricalca Solimano, secondo me uno dei personaggi più affascinanti e moderni di tutto il poema (all'inizio Turno avrebbe dovuto chiamarsi Solman poi ho preferito un nome di ascendenza latina). Ho mantenuto il nome tassiano a un solo personaggio, che non ricalca però l'originale: si tratta di Vafrino, il servo di Turno.


Ecco un passo dal canto nono che parla del sultano di Nicea, che nel poema combatte valorosamente contro l'esercito cristiano, finché cade per mano di Rinaldo.

     A costui viene Aletto: e da lei tolto

È ’l sembiante d’un uom d’antica etade.

Vota di sangue, empie di crespe il volto,

Lascia barbuto il labbro, e ’l mento rade:

Dimostra il capo in lunghe tele avvolto;

La veste oltra ’l ginocchio al piè gli cade,

La scimitarra al fianco, e ’l tergo carco

Della faretra, e nelle mani ha l’arco.

     Noi, gli dice ella, or trascorriam le vote

Piaggie, e le arene sterili e deserte:

Ove nè far rapina omai si puote,

Nè vittoria acquistar che loda merte.

Goffredo intanto la Città percuote,

E già le mura ha con le torri aperte:

E già vedrem, s’ancor si tarda un poco,

Insin di qua le sue ruine, e ’l foco.

     Dunque accesi tugurj, e gregge, e buoi

Gli alti trofei di Soliman saranno?

Così racquisti il regno? e così i tuoi

Oltraggj vendicar ti credi, e ’l danno?

Ardisci, ardisci: entro ai ripari suoi,

Di notte, opprimi il barbaro Tiranno.

Credi al tuo vecchio Araspe, il cui consiglio

E nel regno provasti, e nell’esiglio.

     Non ci aspetta egli e non ci teme, e sprezza

Gli Arabi, ignudi in vero e timorosi:

Nè creder mai potrà che gente avvezza

Alle prede alle fughe, or cotanto osi:

Ma fieri gli farà la tua fierezza

Contra un campo che giaccia inerme, e posi.

Così gli disse; e le sue furie ardenti

Spirogli al seno, e si mischiò tra’ venti.

     Grida il Guerrier, levando al Ciel la mano,

O tu, che furor tanto al cor m’irriti,

Ned uom sei già, sebben sembiante umano

Mostrasti; ecco io ti seguo ove m’inviti.

Verrò, farò là monti ov’ora è piano;

Monti d’uomini estinti, e di feriti:

Farò fiumi di sangue. Or tu sia meco,

E reggi l’arme mie per l’aer cieco.

     Tace, e senza indugiar le turbe accoglie,

E rincora parlando il vile e ’l lento:

E nell’ardor delle sue stesse voglie

Accende il campo a seguitarlo intento.

Dà il segno Aletto della tromba, e scioglie

Di sua man propria il gran vessillo al vento.

Marcia il campo veloce, anzi sì corre,

Che della fama il volo anco precorre.


venerdì 8 marzo 2024

Lo Specchio di Giano, il mago Ataris

 In "Lo specchio di Giano", Tarchun, il sacerdote devoto al dio Maris che custodisce riti tradizionali e misteri della religione del popolo dei Rasna, è contrapposto al nemico di Vestres, Ataris, creatore di Alos, l'Isola di Sale, realizzata per trovare un potere infinito ma prima di tutto la sua vendetta.

Il potente mago è il personaggio del libro più contrastato, assieme proprio al rivale Tarchun. All'inizio avrebbe dovuto chiamarsi Ismeno, come il crudele mago della Gerusalemme Liberta, ma poi ho preferito un nome di ascendenza antica, come per quasi tutti i personaggi principali del romanzo fantasy ispirato al mondo degli Etruschi. 

Ecco l'inizio del canto II del poema tassiano in cui si introduce la figura del mago:

Mentre il Tiranno s’apparecchia all’armi,

Soletto Ismeno un dì gli s’appresenta:

Ismen, che trar di sotto ai chiusi marmi

Può corpo estinto, e far che spiri e senta:

Ismen, che al suon de’ mormoranti carmi

Fin nella reggia sua Pluto spaventa,

E i suoi Demon negli empj uficj impiega

Pur come servi, e gli discioglie, e lega.

Questi or Macone adora, e fu Cristiano,

Ma i primi riti anco lasciar non puote;

Anzi sovente in uso empio e profano

Confonde le due leggi a sè mal note.

Ed or dalle spelonche, ove, lontano

Dal volgo, esercitar suol l’arti ignote,

Vien nel pubblico rischio al suo Signore;

A Re malvagio consiglier peggiore.


In realtà se la prima idea era quella di riprendere la figura di Ismeno, il risultato è stato completamente diverso.

Se all'inizio, nel testo, si legge solo di un uomo malvagio e rabbioso che vuole conquistare Vestres e l'intero mondo, con il procedere della storia e con il disvelarsi di segreti e particolari, si comprende come in realtà anche nel suo cuore siano albergati e si trovino ancora sentimenti di amicizia e amore. Lo si vede ad esempio dal rapporto instaurato con le due allieve, Erichto e Picatrix, per cui era stato quasi come un padre e si manifesta nella scena della lotta con Tarchun. Se il sacerdote, però, saprà comprendere i suoi errori e arrivare a riprendere la giusta strada, Ataris si lascerà sopraffare dalla rabbia, confermandosi un assassino e dovendo abbandonare per sempre ogni sua ambizione e il suo tragico amore. 

L'ebook è disponibile su Amazon e su altre piattaforme.

Foto di Patrick Hendry su Unsplash


Ecco il passo dell'ebook dove viene per la prima volta descritto Ataris:

Il mago, che si trovava a un tavolo intento ad analizzare un libro, udì la richiesta, o meglio l'ordine dell'uomo, e si avvicinò subito all'ingresso.

“Turno, salve! Che cosa ti porta nelle mie stanze?”, chiese con un sorriso beffardo. ”Entra”.

L'uomo entrò e dopo aver dato un rapido sguardo alla camera, tra libri, contenitori di vetro, oggetti di cui ignorava l'utilizzo in materiali preziosi venuti da chissà quale parte del mondo, disse: “Perché hai dato l'ordine dei due ultimi attacchi? Che cosa ti salta in testa? Le sirene e i tritoni sono stati quasi decimati e abbiamo perso alcuni degli uomini migliori grazie all'invio della scialuppa dell'altro giorno. Se, poi, al posto che star qui a studiare testi probabilmente inutili e realizzare intrugli ti affacciassi e guardassi il campo sotto di noi vedresti un panorama di desolazione. I nostri uomini sono allo stremo. Chi li addestra è un incapace. Pretendo di avere io in mano la preparazione dei soldati. Sono stato chiamato qui per aiutarvi nella strategia di attacco e per condurre l'esercito in battaglia ma non vengo ascoltato in nessun modo. Lascia che sio io ad addestrare i soldati e a pensare agli attacchi. Quando sarà l'ora, i soldati non seguiranno un condottiero di cui non conoscono quasi il viso e non si è mai preoccupato di loro. I militari in quel cortile non sono assolutamente in grado di formare dei soldati pronti per un combattimento. Sono solo capaci di massacrare quei ragazzi inutilmente. Non si può combattere così una guerra”.

Il mago rimase per qualche istante pensieroso, poi acconsentì: “Va bene, Turno. Avviserò i generali che da domani sarai tu ad occuparti degli addestramenti e alla supervisione delle operazioni.”

Seguì un attimo di silenzio in cui Ataris si aspettava la dipartita di Turno, ma l'uomo incalzò ancora: “Ho un'altra cosa da chiederti”.

“Dimmi pire”.

“Chi sarebbe questo Ofiuco, per cui hai mandato quei ragazzi a morire? Sai almeno se è sopravvissuto qualcuno?”.

“Non so se qualcuno è salvo, ma gli orux di solito non lasciano scampo. L'Ofiuco è qualcuno in grado di curare quasi tutti i mali e, soprattutto, è qualcuno di molto caro per il nostro Dio.”

“Che cosa intendi dire?”

“Lo saprai a suo tempo... Intanto, presto avremo qualcun altro nelle nostre file. Arriveranno due giovani Arath, mie allieve, di cui una abile nel realizzare cure per numerose malattie, e, se tutto va bene, anche il secondo dio”.

“Sono scettico su questo. Potrebbe allearsi con Maris o non voler comunque saperne della nostra guerra. Intanto a Vestres cosa sta succedendo? Gli uccelli delle tempeste cosa ti dicono?”.

“Sono spaventati dai nostri continui assalti. Credono che siamo forti e organizzati. Intanto il loro lavoro sugli Aisna sta proseguendo alacremente”.

“E come pensi di fermarli?”

“Con il generale Alanys abbiamo in mente un'altra incursione. Vieni ti mostro il piano”.

Il mago fece avvicinare Turno a una ricostruzione in miniatura di Vestres. Gli occhi del guerriero erano quasi spaventati nel vedere il compiacimento del mago: i suoi occhi verdi brillavano, quasi di pazzia, il suo ghigno dipinto su un volto magro ed emaciato era inquietante, i capelli ricci e crespi che componevano quasi un casco sopra il capo ondeggiavano leggermente ai suoi movimenti, mentre le mani ossute si muovevano con eleganza sulle figure per spiegare il da farsi. Era un uomo non più giovane, sempre vestito di abiti e mantelli ricchi, chitoni lunghi di diverse fogge fatti di broccato intessuto con oro proveniente dalle estreme regioni d'Oriente, spesso nelle tonalità più scure del verde, e arricchiti da spille e monili in metalli e pietre preziose. Quando ebbe finito la sua spiegazione, Turno non poté che acconsentire al piano di Ataris anche se il suo atteggiamento continuava a fargli paura.


martedì 5 marzo 2024

6 marzo: nell'Antica Roma era il giorno del Festum Vestae in cui veniva rinnovato il fuoco sacro

 Qualche giorno dopo l'inizio dell'anno presso l'antica Roma, che si celebrava il 1 marzo, nel momento in cui la natura si risveglia e si va verso la primavera (vedi il post dedicato), era a calendario un'altra importante ricorrenza, il Festum Vestae o Vestiae, dedicato alla dea Vesta

In questa occasione, festeggiata il 6 marzo, nel tempio di Vesta il fuoco sacro veniva rinnovato: veniva, infatti, spento e riacceso lo stesso giorno dalle sacerdotesse vestali. La fiamma era spenta con l'acqua ma prima un altro fuoco prendeva vita dalla stessa tramite una torcia perché la fiamma non doveva mai spegnersi. 

Il tempio veniva lavato e profumato con incensi ed erbe odorose, veniva ornato di serti e ghirlande, mentre la statua della Dea veniva addobbata e ingioiellata. Quindi, il nuovo fuoco sacro era portato nelle case per accendere i camini: iniziava la processione delle torce, con la sfilata delle sacerdotesse sulle strade, da cui le donne accendevano le proprie torce per riportare a casa il fuoco sacro. 

La festa terminava al tramonto del sole.

Il fuoco sacro, come dicevamo, non doveva mai spegnersi. Sarà Teodosio I, l'imperatore che aveva già emesso l'editto di Tessalonica nel 380 con cui si dichiarava il Cristianesimo religione ufficiale dell'Impero Romano (vedi il post dedicato), a obbligare la fine di questo rito nel 394 d.c. 


I resti del tempio di Vesta a Roma. Foto di Briana Tozour su Unsplash

Vesta è una delle divinità antiche che mi ha sempre affascinato tanto che è una dei personaggi del romanzo fantasy "Lo specchio di Giano", "incarnata" in Tatia mentre sulle vestali è incentrato il libro a cui sto lavorando in questi mesi. 

Ecco il passo dell'ebook, disponibile su Amazon e su altre piattaforme,  dove Vesta torna tra gli dei:

“Dobbiamo intervenire in una maniera incisiva”, disse Turan. Mentre la bellissima e collerica dea della guerra e dell'amore stava parlando con i Chechanar e Maris, il gruppo vide avvicinarsi una figura femminile, quasi un fantasma, tutta vestita con abito e mantello bianchi, che nascondevano quasi totalmente il viso e lasciavano solo immaginare i suoi lineamenti e la sua chioma.

I sei divini si stupirono a quella vista e si alzarono dai loro kline andando incontro alla nuova venuta sgranando gli occhi.

“Ecco la dea del focolare e del fuoco sacro, la dea non vista di cui non c'è nessuna effige“ annunciò Turms, incredulo, che le andava incontro a passi incerto, quasi tremante.

“Salve, a voi, Maris e Chechanar”.

“Salve a te, Vesta!”, risposero gli altri.

“Ci ho messo un po' a trovarvi. Non pensavo che il vostro rifugio fosse qui sull'Alba Arx, poi mi sono ricordata che era una delle cime sacre a Evan e che è un luogo strategico per osservare che cosa sta accedendo nei posti interessati dalla guerra. Ma vedendo il vostro stupore alla mia venuta, forse non avete seguito molto gli accadimenti tra i mortali”.

“Bentornata! Spero che tu sia qui per portare avanti con noi la nostra battaglia. Ci sarà modo poi per discutere e accordarci del futuro” Le disse Maris. “Vedo che sei riuscita ad arrivare prima del tempo!”.

“Ho lasciato improvvisamente la mia vita da mortale e ora voglio difendere Vestres e i miei. Sarò dalla vostra parte ma dovete essere pronti, una volta, terminato il conflitto, a venire incontro alle ragioni di chi vi ha aiutato. Raccontatemi ora che cosa è accaduto per voi e cosa avete intenzione di fare”.



Michelangelo Buonarroti poeta

 Michelangelo Buonarroti (Caprese, 6 marzo 1475 – Roma, 18 febbraio 1564) è riconosciuto in tutto il mondo come uno dei grandi maestri della storia dell’arte, capace di arrivare all'eccellenza in pittura, scultura e architettura. Non tutti sanno però che l'artista è stato anche un poeta e che sue Rime sono tra le opere letterarie più importanti del Cinquecento. Grazie ai suoi versi, numerosissimi e scritti in un arco molto ampio della sua esistenza, si impara a riconoscere il suo genio, le sue ambizioni ma anche i suoi tormenti. 

In un secolo dominato dal petrarchismo, Michelangelo rappresenta un caso particolare: il Buonarroti infatti prende come modello oltre Petrarca anche Dante, autore di cui si vedono gli influssi anche nella sua produzione artistica, come si vede nel Giudizio della Cappella Sistina, e guarda al neoplatonismo fiorentino di fine Quattrocento, che aveva influito su autori quali Agnolo Poliziano, Luigi Pulci, Lorenzo il Magnifico e che vedeva tra i suoi esponenti Marsilio Ficino. Non mancano infine i legami con la poesia stilnovista di Guinizzelli e Cavalcanti.

Con il passare degli anni, e con l'evoluzione della sua religiosità, Michelangelo si avvia a uno stile personale e riflessivo, in cui si specchia il suo carattere schivo e tenebroso. Al centro delle sue poesie, la sua sfera privata, con i suoi pensieri legati alla sfera religiosa, l'amore e il desiderio, tutto attraversato da una sottile malinconia. Non manca l'arte, tanto che le poesie di Michelangelo sono preziose anche per analizzare la sua produzione artistica.


Il ritratto di Michelangelo di Daniele da Volterra

Giunto è già ’l corso della vita mia

Ecco una delle poesie più famose e profonde di Michelangelo, Giunto è già ’l corso della vita mia

Dopo la morte dell'amica e confidente, Vittoria Colonna, con cui rifletteva su religione e spiritualità, l'autore affidò il suo sfogo a questo sonetto, in cui, in preda allo sconforto, giunse a mettere in discussione la sua stessa arte, che lo aveva allontanato dalla redenzione. Ecco il testo:

Giunto è già ’l corso della vita mia,

con tempestoso mar, per fragil barca,

al comun porto, ov’a render si varca

conto e ragion d’ogni opra trista e pia.


Onde l’affettüosa fantasia

che l’arte mi fece idol e monarca

conosco or ben com’era d’error carca

e quel c’a mal suo grado ogn’uom desia.


Gli amorosi pensier, già vani e lieti,

che fien or, s’a duo morte m’avvicino?

D’una so ’l certo, e l’altra mi minaccia.


Né pinger né scolpir fie più che quieti

l’anima, volta a quell’amor divino

c’aperse, a prender noi, ’n croce le braccia.


sabato 2 marzo 2024

D'annunzio e la Toscana al Vittoriale

 Gabriele D'annunzio e la Toscana: è dedicata a questo profondo legame la mostra che sarà inaugurata il 9 marzo al Vittoriale degli Italiani e che sarà visitabile fino al 15 settembre. Curata da Andrea Baldinotti, la rassegna comprenderà decine di opere delle Gallerie degli Uffizi e dello stesso Vittoriale oltre a importanti prestiti da altre istituzioni museali italiane ed estere

Obiettivo della mostra è mettere in luce aspetti meno conosciuti della vita di d'Annunzio del Vate e del suo immaginario culturale. In particolare, come dicevamo, verrà esplorato il legame tra d’Annunzio, il territorio toscano e la sua civiltà artistica. 



Lo specchio di Giano e gli dei

 Avendo deciso di scrivere un romanzo ispirato agli Etruschi e ai popoli antichi non ho potuto fare a meno, in Lo specchio di Giano , di da...