lunedì 28 agosto 2023

Guido Cavalcanti, Perch'io no spero di tornar giammai

 Guido Cavalcanti, nato a Firenze nel 1258 e morto sempre nella città toscana il 29 agosto 1300 è stato un poeta e filosofo, esponente di spicco della corrente poetica del Dolce stil novo, amico di Dante. Partecipò attivamente, tra le fila dei guelfi bianchi, alla vita politica fiorentina della fine del XIII secolo. Nelle descrizioni degli scrittori a lui contemporanei viene sottolineata la sua personalità aristocraticamente sdegnosa.

Il suo corpus poetico consta di cinquantadue componimenti, di cui due canzoni, undici ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti composti da una stanza ciascuno. La ballata appare congeniale alla sua poetica, poiché incarna la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si risolvono poi in costruzioni armoniose

I temi delle sue opere sono quelli cari agli stilnovisti, come gli effetti prodotti dall'amore. L'incontro con questo sentimento, nei componimenti del poeta, conduce al dolore, all'angoscia e al desiderio di morire. 

Fra i testi più noti, si ricordano: Donna me prega, L'anima mia e Perch'i no spero di tornar giammai. Quest'ultimo è decisamente il componimento di Cavalcanti che preferisco e che mi ha colpito alla prima lettura e che riporto quindi nel giorno dell'anniversario della morte del poeta.

È la più celebre ballata dell'autore, scritta durante un periodo di allontanamento da Firenze, colto da una malattia e con il presentimento angoscioso della morte imminente: il poeta si rivolge direttamente alla lirica e la prega di recarsi dalla donna amata, per portarle tristi notizie sul suo conto.


Perch'io no spero di tornar giammai


Perch’i’ no spero di tornar giammai,

ballatetta, in Toscana,

va’ tu, leggera e piana,

dritt’a la donna mia,

che per sua cortesia

ti farà molto onore.


Tu porterai novelle di sospiri

piene di dogli’ e di molta paura;

ma guarda che persona non ti miri

che sia nemica di gentil natura:

ché certo per la mia disaventura

tu saresti contesa,

tanto da lei ripresa

che mi sarebbe angoscia;

dopo la morte, poscia,

pianto e novel dolore.


Tu senti, ballatetta, che la morte

mi stringe sì, che vita m’abbandona;

e senti come ’l cor si sbatte forte

per quel che ciascun spirito ragiona.

Tanto è distrutta già la mia persona,

ch’i’ non posso soffrire:

se tu mi vuoi servire,

mena l’anima teco

(molto di ciò ti preco)

quando uscirà del core.


Deh, ballatetta, a la tu’ amistate

quest’anima che trema raccomando:

menala teco, nella sua pietate,

a quella bella donna a cu’ ti mando.

Deh, ballatetta, dille sospirando,

quando le se’ presente:

«Questa vostra servente

vien per istar con voi,

partita da colui

che fu servo d’Amore».


Tu, voce sbigottita e deboletta

ch’esci piangendo de lo cor dolente,

coll’anima e con questa ballatetta

va’ ragionando della strutta mente.

Voi troverete una donna piacente,

di sì dolce intelletto

che vi sarà diletto

starle davanti ognora.

Anim’, e tu l’adora

sempre, nel su’ valore.


Giambattista Casti, Prima la musica poi le parole

 Il 29 agosto del 1724 nacque ad Acquapendente uno dei più acclamati librettisti d'opera del Settecento, Giambattista Casti, che ho avuto il piacere di studiare in occasione della tesi. 

Dalla vita avventurosa, fu un letterato di grido all'epoca e approdò alla carriera di librettista quando era già un poeta affermato. Rivale di Lorenzo da Ponte alla corte di Giuseppe II, fu autore di "Le novelle galanti", "Gli animali parlanti", "Il poema tartaro". Fu apprezzato da Leopardi che nel comporre la "Batracomiomachia" tiene presente "Gli animali parlanti".

Ricordo di lui il libretto che ho analizzato per la tesi, "Prima la musica poi le Parole", un'opera metateatrale, che ha come oggetto proprio il teatro lirico di quel periodo, dove viene analizzata con spregiudicatezza ma anche con ironia, l'abitudine di allestire opere in fretta, tenendo conto delle esigenze di cantanti e protettori e utilizzando musica da baule. Nelle spoglie del poeta è rappresentato il rivale Lorenzo da Ponte. L'opera, musicata da Antonio Salieri, fu rappresentata per la prima volta il 7 febbraio del 1786.


Qui sotto una parte della terza scena, con il discorso tra il poeta e il musicista.

MAESTRO Ebben, tenete:
eccovi carta, calamaio, e penna;
(li accosta ad un tavolino, e gli dà da scrivere)
ponetevi costì a tavolino.
Trovate qualche idea, qualche pensiero
per porli entrambo insieme:
cotest'aria aggiustate,
acciò provar si possa
quando verrà la buffa.
POETA E così su due piedi...
MAESTRO Su due piedi, o su tre, convien sbrigarsi.
Su, su, coraggio: intanto
a quest'altr'aria io le parole adatto.
POETA Ma...
MAESTRO Spicciatevi voi, che anch'io mio spiccio.
POETA Un pasticcio si vuol? Sarà un pasticcio.
(si pongono a sedere, il maestro al cembalo, e il poeta al tavolino)
MAESTRO (col cembalo)
«Se questo mio pianto
il cor non ti tocca»...
Qui v'è fin l'istessa rima,
a puntin tutto convien.
POETA (pensando)
Quel che comico era prima,
farlo eroico convien.
MAESTRO «Se questo mio canto
che m'esce di bocca»...
Ciò benissimo confronta
e ne son contento appien.
POETA Ecco qua l'idea già pronta
e ne son contento appien.
MAESTRO «Ancor non espugna
quel barbaro sen»...
Io mi sento alquanto sete.
Un sorsetto farà ben.
(va al tavolino, ove son le bottiglie, empie un bicchiere, e beve; poi torna al cembalo)
POETA Dove leggesi «affliggete»,
«ammazzate»... ed andrà ben.
MAESTRO (leggendo la scrittura del poeta)
Che carattere bisbetico!
Proprio stizza mi ci vien.
POETA Ho un cervel proprio poetico,
tutto facile mi vien.
MAESTRO «Via sfodera, impugna
quel ferro spietato»...
Cosa diavolo qui dice?
POETA Il pensiero è pur felice!
MAESTRO Non v'è a dir: dice «castrato».
POETA Ecco tutto terminato.
Rileggiamolo un pochino.
MAESTRO Ah! sì sì: Giulio Sabino
è un soprano: or mi sovvien.
«E questo castrato
trafiggimi almen.»
POETA «Castrato»! cosa diavolo mai dite?
MAESTRO Dico come sta scritto.
POETA (sentendo gli ultimi versi cantati dal maestro, si leva e bruscamente se gli accosta)
Oibò! «costato»
sta scritto, e non «castrato».
MAESTRO «Castrato» va benissimo, e non cangio.
POETA Eh, che burlate?
MAESTRO Quel che scrissi, scrissi.
POETA Ma che? Siete impazzato?
MAESTRO «Castrato» scrissi, e resterà «castrato».
POETA E poscia si dirà che fu il poeta
che fe' tal scioccheria.
MAESTRO Né la prima, né l'ultima saria.

mercoledì 23 agosto 2023

Le nuvole e il fulmine. Gli Etruschi interpreti del volere divino

 Chi si recherà a Reggio Calabria potrà visitare al Museo Archeologico Nazionale della città, dove sono conservati i bronzi di Riace, la mostra "Le nuvole e il fulmine. Gli Etruschi interpreti del volere divino", curata da Carmelo Malacrino, Mario Iozzo e Barbara Arbeid.

L’esposizione temporanea nasce dalla collaborazione con la Direzione Regionale Musei della Toscana e il Museo Archeologico Nazionale di Firenze.

Più di un centinaio le opere in esposizione, tra cui statue, oggetti in oro, argento e bronzo, ceramiche figurate e le caratteristiche urne cinerarie decorate con i più distintivi motivi etruschi, tra cui quello dei defunti sul coperchio.

La mostra illustra al pubblico il fascino della civiltà etrusca, vista attraverso gli aspetti della vita quotidiana, dei culti e dei rituali funerari. Un’attenzione particolare è stata rivolta alle pratiche religiose della divinazione, evidenziando l’abitudine degli Etruschi di trarre presagi dal volo degli uccelli, dalle viscere degli animali e dall’osservazione del cielo con i suoi fenomeni atmosferici.



domenica 20 agosto 2023

Guittone d’Arezzo

 Guittone d’Arezzo è il nome di Guido di Michele del Viva, nato ad Arezzo intorno al 1235 e morto il 21 agosto 1294, uno dei poeti più importanti prima di Dante, influente dal punto di vista tecnico, da cui prese ispirazione anche il giovane Alighieri. 

Il suo canzoniere è particolarmente corposo, con 50 canzoni e 251 sonetti, conservati nei manoscritti italiani delle origini ed è affiancato da circa lettere di argomento civile e cortese.

Il poeta si colloca in un'ottica piuttosto critica nei confronti dell'eredità trobadorica e della poesia siciliana, dovuta all'inconciliabilità fra la visione cortese dell'amore e la morale cristiana. A suo avviso, infatti, tutta la poetica amorosa provenzale era semplicemente un espediente per ottenere la soddisfazione del proprio desiderio sessuale.

Fino alla sua entrata nell'ordine dei frati gaudenti, si può identificare un periodo nel quale la denuncia verso l'amor cortese assume toni sarcastici e dissacratori, e l'amore viene visto come una malattia mentre nella fase della maturità il poeta assume un contegno più moraleggiante. 

Critico quanto Dante della situazione politica coeva, Guittone, di parte guelfa, vedeva nella creazione di uno stato regionale toscano forte l'unica possibilità di pace per la sua terra. 

La sua produzione è stata influenzata da diversi stili, dalla koinè letteraria pan-toscana a quello più aristocratico, fedele alla grande tradizione occitana e francese, per arrivare a un trobar clus e a uno sperimentalismo molto spinto nella modifica delle forme metriche canoniche.

Tra i suoi meriti quello di aver ideato il sonetto comico e di aver superato la frammentarietà del singolo sonetto come espressione di un momento lirico inventando la catena dei sonetti con una tensione narrativa. 

Ecco la sua canzone più famosa, dedicata alla battaglia di Montaperti.



Ahi lasso, or è stagion de doler tanto


Ahi lasso, or è stagion de doler tanto

a ciascun om che ben ama Ragione,

ch’eo meraviglio u’ trova guerigione,

ca morto no l’ha già corrotto e pianto,

vedendo l’alta Fior sempre granata

e l’onorato antico uso romano

ch’a certo pèr, crudel forte villano,

s’avaccio ella no è ricoverata:

ché l’onorata sua ricca grandezza

e ’l pregio quasi è già tutto perito

e lo valor e ’l poder si desvia.

Oh lasso, or quale dia

fu mai tanto crudel dannaggio audito?

Deo, com’hailo sofrito,

deritto pèra e torto entri ’n altezza?


Altezza tanta êlla sfiorata Fiore

fo, mentre ver’ se stessa era leale,

che ritenëa modo imperïale,

acquistando per suo alto valore

provinci’ e terre, press’o lunge, mante;

e sembrava che far volesse impero

sì como Roma già fece, e leggero

li era, c’alcun no i potea star avante.

E ciò li stava ben certo a ragione,

ché non se ne penava per pro tanto,

como per ritener giustizi’ e poso;

e poi folli amoroso

de fare ciò, si trasse avante tanto,

ch’al mondo no ha canto

u’ non sonasse il pregio del Leone.


Leone, lasso, or no è, ch’eo li veo

tratto l’onghie e li denti e lo valore,

e ’l gran lignaggio suo mort’a dolore,

ed en crudel pregio[n] mis’ a gran reo.

E ciò li ha fatto chi? Quelli che sono

de la schiatta gentil sua stratti e nati,

che fun per lui cresciuti e avanzati

sovra tutti altri, e collocati a bono;

e per la grande altezza ove li mise

ennantîr sì, che ’l piagâr quasi a morte;

ma Deo di guerigion feceli dono,

ed el fe’ lor perdono;

e anche el refedier poi, ma fu forte

e perdonò lor morte:

or hanno lui e soie membre conquise.


Conquis’è l’alto Comun fiorentino,

e col senese in tal modo ha cangiato,

che tutta l’onta e ’l danno che dato

li ha sempre, como sa ciascun latino,

li rende, e i tolle il pro e l’onor tutto:

ché Montalcino av’abattuto a forza,

Montepulciano miso en sua forza,

e de Maremma ha la cervia e ’l frutto;

Sangimignan, Pog[g]iboniz’ e Colle

e Volterra e ’l paiese a suo tene;

e la campana, le ’nsegne e li arnesi

e li onor tutti presi

ave con ciò che seco avea di bene.

E tutto ciò li avene

per quella schiatta che più ch’altra è folle.


Foll’è chi fugge il suo prode e cher danno,

e l’onor suo fa che vergogna i torna,

e di bona libertà, ove soggiorna

a gran piacer, s’aduce a suo gran danno

sotto signoria fella e malvagia,

e suo signor fa suo grand’ enemico.

A voi che siete ora in Fiorenza dico,

che ciò ch’è divenuto, par, v’adagia;

e poi che li Alamanni in casa avete,

servite·i bene, e faitevo mostrare

le spade lor, con che v’han fesso i visi,

padri e figliuoli aucisi;

e piacemi che lor dobiate dare,

perch’ebber en ciò fare

fatica assai, de vostre gran monete.


Monete mante e gran gioi’ presentate

ai Conti e a li Uberti e alli altri tutti

ch’a tanto grande onor v’hano condutti,

che miso v’hano Sena in podestate;

Pistoia e Colle e Volterra fanno ora

guardar vostre castella a loro spese;

e ’l Conte Rosso ha Maremma e ’l paiese,

Montalcin sta sigur senza le mura;

de Ripafratta temor ha ’l pisano,

e ’l perogin che ’l lago no i tolliate,

e Roma vol con voi far compagnia.

Onor e segnoria

adunque par e che ben tutto abbiate:

ciò che desïavate

potete far, cioè re del toscano.


Baron lombardi e romani e pugliesi

e toschi e romagnuoli e marchigiani,

Fiorenza, fior che sempre rinovella,

a sua corte v’apella,

che fare vol de sé rei dei Toscani,

dapoi che li Alamani

ave conquisi per forza e i Senesi.


venerdì 18 agosto 2023

Lo specchio di Giano, rassegna stampa

 Ringrazio chi ha dedicato uno spazio e una segnalazione al romanzo fantasy Lo specchio di Giano sui suoi blog o sui social network!

Ecco i link e i post:

Le due ultime segnalazioni di Libri dal cuore su Instagram:

Qui si cita una frase del libro.

Qui la segnalazione:

Bokononisti.it:


Libri dal cuore:


Libri.doc:


Infiniti Universi Fantastici 

Buona Lettura

Debbie_Soncini

Ecco la sua recensione: 

Un romanzo fantasy che ricorda sotto vari aspetti un romanzo storico. La storia è ricca di vicende piene di azione, miti da scoprire, descrizioni curate di divinità e delle loro discendenze che ci vengono svelate pian piano. La scrittura è accurata, molto precisa e con una buona leggibilità. Se amante la scoperta di nuovi mondi o la storia, questo libro sicuramente vi piacerà!

Voto 4/5

Libri & Libri

Sognare in punta di penna

Les fleurs du mal

I mondi fantastici

La Bottega Dei Libri

Libera_Mente:


lunedì 14 agosto 2023

Luigi Pulci e Il Morgante

 Nel giorno della battaglia di Roncisvalle che ha descritto con toni epici nella sua opera principale, è nato a Firenze, il 15 agosto del 1432, Luigi Pulci, poeta italiano famoso soprattutto per il Morgante.

Il Morgante, indubbiamente il capolavoro di questo scrittore, è uno dei poemi più singolari della letteratura italiana, dato il tono giocoso e le avventure mirabolanti di alcuni personaggi, Morgante, il gigante buono armato del battaglio di una campagna, e Margutte in primis. Si tratta di un poema epico-cavalleresco, a volte definito poema eroicomico, in ottave, suddiviso in cantari, che recupera la materia del ciclo carolingio. Il titolo deriva dal nome del suo personaggio più popolare, un gigante che Orlando converte alla fede cristiana e le cui avventure costituiscono gran parte della trama. Uscì nel 1478 in 23 cantàri e nel 1483, nell'edizione definitiva, in 28 cantari. Gli ultimi cinque canti dell'edizione del 1483 hanno uno stile molto diverso dalla prima parte del poema e narrano la morte di Orlando a Roncisvalle.

La trama è ricca di colpi di scena, con l'opera caratterizzata da una gran fantasia animata da spirito burlesco, talvolta spregiudicato, espresso in un linguaggio pungente, tipico dei cantari popolari, ossia componimenti cavallereschi del '400 e '500 accompagnati dalla musica e destinati ad un'esecuzione in pubblico.

I personaggi del ciclo carolingio di fatto vengono completamenti trasformati, comportandosi spesso da furfanti, in preda alle più intese passioni corporee. C’è poi Morgante, un gigante buono, che dà il titolo al poema, scudiero di Orlando che viene presentato come un Ercole dalla forza smisurata. Con lui, il mezzogigante Margutte, una figura paradossale che si presenta come peccatore incallito e che dichiara un bizzarro “credo” culinario, in cui sono presenti diversi elementi blasfemi. Astuto e maligno dalle membra "strane, orride e brutte", presentatosi a Morgante vantandosi di tutte le sue bravure, viene da costui assunto come scudiero.

La morte di Margutte avviene in modo paradossale in maniera conforme al suo personaggio (ve ne parlo qui). La sua morte precede di poco quella di Morgante, che verrà morso da un granchio mentre guada un fiume, ma diverso sarà il loro destino ultraterreno (Morgante finirà in Cielo, Margutte all'inferno).

Il Morgante fu iniziato per sollecitazione di Lucrezia Tornabuoni (madre di Lorenzo il Magnifico): ella avrebbe desiderato dal Pulci un poema cavalleresco, in linea con la tendenza alla rifeudalizzazione che in quel tempo era presente in Firenze. Il poeta invece dimentica ben presto l'impegno affidatogli e lascia spazio per larga parte dell'opera a toni comici.


Ecco l'inizio del poema:


In principio era il Verbo appresso a Dio,

     Ed era Iddio il Verbo, e il Verbo Lui1:

     Quest'era nel principio, al parer mio,

     E nulla si può far sanza costui:

     Però, giusto Signor, benigno e pio,

     Mandami solo un degli Angeli tui,

     Che m’accompagni, e rechimi a memoria

     Una famosa, antica e degna storia.


 E tu, Vergine, figlia, e madre, e sposa

     Di quel Signor, che ti dette la chiave

     Del cielo, e dell’abisso, e d’ogni cosa;

     Quel dì che Gabriel tuo ti disse Ave;

     Perchè tu se’ de’ tuoi servi pietosa,

     Con dolce rime e stil grato e soave

     Aiuta i versi miei benignamente,

     E ’nsino al fine allumina la mente.


 Era nel tempo quando Filomena

     Con la sorella si lamenta e plora,

     Che si ricorda di sua antica pena,

     E pe’ boschetti le ninfe innamora;

     E Febo il carro temperato mena,

     Chè ’l suo Fetonte l’ammaestra ancora;

     Ed appariva appunto all’orizzonte,

     Tal che Titon si graffiava la fronte:


 Quand’io varai la mia barchetta, prima

     Per ubbidir chi sempre ubbidir debbe

     La mente, e faticarsi in prosa e in rima,

     E del mio Carlo imperador m’increbbe;

     Che so quanti la penna ha posto in cima,

     Che tutti la sua gloria prevarrebbe:

     È stata questa istoria, a quel ch’ i’ veggio,

     Di Carlo male intesa, e scritta peggio.


La battaglia di Roncisvalle

 Il 15 di agosto ricorre l'anniversario di una delle battaglie più famose della storia, non tanto per l'importanza che ha avuto a livello strategico quanto per i risvolti che ha avuto nei secoli successivi nella letteratura europea. Si tratta della battaglia di Roncisvalle del 778 che ha visto la morte del celebre guerriero Rolando o Orlando, protagonista di numerose opere tra cui la Chanson de Roland e i poemi epico-cavallereschi come il Morgante di Luigi Pulci, L'Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo e L'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto.

La battaglia si inserisce nelle operazioni militari con cui Carlo Magno cercò di ampliare il suo impero.  

Lo scontro fu un episodio bellico anomalo, amplificato in Occidente dalle chansons des gestes composte in langue d'oïl dai trovieri e in langue d'oc dai trovatori, anche se all'iter creativo del genere letterario dettero comunque il loro apporto anche giullari, giocolieri e uomini di cultura, che eternarono così sia il mito di un grande sovrano che espressamente si richiamava ai valori della fede cristiana e che se ne proclamava come autorevole difensore, sia il mito dell'eroe impavido (Orlando) e del traditore (Gano di Maganza).

Il fatto si svolse in appendice al fallito tentativo del re franco di proporsi come difensore dei cristiani spagnoli, che vivevano sotto il giogo politico degli emiri musulmani omayyadi di al-Andalus.

Secondo un'ipotesi, Carlo Magno potrebbe aver risposto all'invito di qualche esponente musulmano che, potrebbe aver invitato il futuro Imperatore del Sacro Romano Impero ad affacciarsi nella Penisola iberica per disfarsi di qualche nemico politico. Attraversati i Pirenei nella primavera del 778, Carlo conquistò Pamplona e Barcellona, quindi, vista la mancata attuazione della promessa fattagli dal Wālī di Saragozza di aprirgli le porte della città, assediò Saragozza.

Alla notizia di un'insurrezione dei Sassoni, da poco sottomessi, Carlo abbandonò il campo e si mise di nuovo in marcia per rientrare in patria, lasciando Orlando e la guardia reale con il bottino ottenuto durante la campagna militare. Durante il ritorno valicò col suo esercito le gole pirenaiche di Roncisvalle, dove vivevano popolazioni basche. I Baschi, solo in parte cristiani, desideravano avere buoni rapporti anche coi vicini musulmani. I Baschi, al suo arrivo, fecero atto di omaggio al re franco, ma poi aggredirono la sua retroguardia, annientandola, e ne depredarono gli averi e i carriaggi. 

Riporto uno dei momenti più drammatici dello scontro, Orlando che suona l'olifante, nella versione del Pulci e della Chancon de Roland e a seguire la morte di Orlando in quest'ultima.



Orlando suona l'Olifante, Il Morgante di Pulci

Orlando, sendo spirato il marchese,

parvegli tanto solo esser rimaso

che di sonar per partito pur prese,

acciò che Carlo sentissi il suo caso;

e sonò tanto forte che lo intese,

e ’l sangue uscì per la bocca e pel naso,

dice Turpino, e che il corno si fésse

la terza volta ch’a bocca sel messe.


Orlando suona l'Olifante, da La Chanson de Roland (trad. di S. Pellegrini, UTET, Torino, 1953)


Il conte Rolando vede il massacro dei suoi compagni.

[…]

Così disse Rolando: “Suonerò l’olifante e lo

sentirà Carlo, che sta passando i valichi. Vi

assicuro che subito torneranno indietro i Franchi.”

Rolando porta l’olifante alla bocca;

vi soffia bene dentro e lo suona con forza.

Alti sono i monti e il suono va molto lontano;

a 100 chilometri lo sentirono.

Carlo lo udì e così anche il suo esercito.

Così dice il re: “I nostri uomini stanno combattendo”.

Gano gli rispose: “Se lo dicesse qualcun altro sembrerebbe uno scherzo”.

Il conte Rolando suona l’olifante con pena,

affanno e gran dolore:

dalla sua bocca esce sangue vivo;

il suo cervello sta scoppiando dalle tempie per

lo sforzo. La potenza de corno è enorme:

Carlo lo sente dai valichi dei monti; il duca

Namo lo sentì; e lo udirono anche i Franchi.

Il conte Rolando ha la bocca sanguinante;

le sue tempie si sono rotte;

suona con dolore e pena l’olifante.

Carlo e i suoi francesi lo sentono.

Così disse il re: “Quel corno ha un suono

lungo!” Risponde il duca Namo: “Un guerriero

si sta sforzando per suonarlo”.

Presumo che vi sia una battaglia in corso.

Gano, che chiede di non preoccuparvi del

suono, vi ha tradito.


La morte di Orlando  da La Chanson de Roland


Lo sente Orlando che la morte l’afferra,

giù dalla testa fin sul cuore gli scende.

Fin sotto un pino se n’è andato correndo,

sull’erba verde ci si è accanto disteso,

la spada e il corno sotto sé si mette.

Volta ha la testa alla pagana gente,

e così ha fatto perché vuole davvero

che dica Carlo e con lui la sua gente

che morì il nobile conte da vincitore.

Confessa le sue colpe ripetutamente,

per i peccati in pegno offre a Dio il guanto.


Lo sente Orlando che il suo tempo è finito,                           

volto alla Spagna è in cima a un poggio aguzzo;

con una mano  il petto s’è battuto:

«Mea culpa, Dio!, verso le tue virtù,

dei miei peccati, dei grandi e dei minori

che ho commesso da quando venni al mondo

fino ad oggi, che qui son stato preso!».

Il guanto destro perciò ha teso a Dio,

angeli scendono giù dal cielo a lui.


Il conte Orlando giace sotto un pino,

verso la Spagna tiene volto il viso.

Di molte cose gli ritorna alla mente,

di tante terre quante ne prese il prode,

la dolce Francia, quelli del suo lignaggio,

Carlomagno che l’allevò, suo signore;

non può impedirsi di sospirare e piangere.

Ma non si vuole dimenticare di sé,

confessa le sue colpe, chiede a Dio pietà:

«Vero Padre, che non hai mai mentito,

san Lazzaro da morte risuscitasti,

e Daniele dai leoni salvasti,

a me l’anima salva da tutti i pericoli

dei miei peccati quanti ne ho fatti in vita!».

Il guanto destro porge in pegno a Dio:

San Gabriele dalla sua mano l’ha preso.

Sopra il braccio si tiene il capo chino,

le mani giunte è arrivato alla fine.

Dio gli manda il suo angelo Cherubino

e San Michele del mare del Pericolo;

insieme a loro viene lì san Gabriele,

portan del conte l’anima in paradiso.


Lo specchio di Giano e gli dei

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