Guido Cavalcanti, nato a Firenze nel 1258 e morto sempre nella città toscana il 29 agosto 1300 è stato un poeta e filosofo, esponente di spicco della corrente poetica del Dolce stil novo, amico di Dante. Partecipò attivamente, tra le fila dei guelfi bianchi, alla vita politica fiorentina della fine del XIII secolo. Nelle descrizioni degli scrittori a lui contemporanei viene sottolineata la sua personalità aristocraticamente sdegnosa.
Il suo corpus poetico consta di cinquantadue componimenti, di cui due canzoni, undici ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti composti da una stanza ciascuno. La ballata appare congeniale alla sua poetica, poiché incarna la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si risolvono poi in costruzioni armoniose.
I temi delle sue opere sono quelli cari agli stilnovisti, come gli effetti prodotti dall'amore. L'incontro con questo sentimento, nei componimenti del poeta, conduce al dolore, all'angoscia e al desiderio di morire.
Fra i testi più noti, si ricordano: Donna me prega, L'anima mia e Perch'i no spero di tornar giammai. Quest'ultimo è decisamente il componimento di Cavalcanti che preferisco e che mi ha colpito alla prima lettura e che riporto quindi nel giorno dell'anniversario della morte del poeta.
È la più celebre ballata dell'autore, scritta durante un periodo di allontanamento da Firenze, colto da una malattia e con il presentimento angoscioso della morte imminente: il poeta si rivolge direttamente alla lirica e la prega di recarsi dalla donna amata, per portarle tristi notizie sul suo conto.
Perch'io no spero di tornar giammai
Perch’i’ no spero di tornar giammai,
ballatetta, in Toscana,
va’ tu, leggera e piana,
dritt’a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.
Tu porterai novelle di sospiri
piene di dogli’ e di molta paura;
ma guarda che persona non ti miri
che sia nemica di gentil natura:
ché certo per la mia disaventura
tu saresti contesa,
tanto da lei ripresa
che mi sarebbe angoscia;
dopo la morte, poscia,
pianto e novel dolore.
Tu senti, ballatetta, che la morte
mi stringe sì, che vita m’abbandona;
e senti come ’l cor si sbatte forte
per quel che ciascun spirito ragiona.
Tanto è distrutta già la mia persona,
ch’i’ non posso soffrire:
se tu mi vuoi servire,
mena l’anima teco
(molto di ciò ti preco)
quando uscirà del core.
Deh, ballatetta, a la tu’ amistate
quest’anima che trema raccomando:
menala teco, nella sua pietate,
a quella bella donna a cu’ ti mando.
Deh, ballatetta, dille sospirando,
quando le se’ presente:
«Questa vostra servente
vien per istar con voi,
partita da colui
che fu servo d’Amore».
Tu, voce sbigottita e deboletta
ch’esci piangendo de lo cor dolente,
coll’anima e con questa ballatetta
va’ ragionando della strutta mente.
Voi troverete una donna piacente,
di sì dolce intelletto
che vi sarà diletto
starle davanti ognora.
Anim’, e tu l’adora
sempre, nel su’ valore.