Oggi voglio dare spazio nel giorno della sua nascita a uno dei poeti, umanisti e filologi quattrocenteschi più importanti: Agnolo (Angelo) Ambrogini, detto Poliziano, dal nome latino del paese d'origine, Mons Politianus (Montepulciano, 14 luglio 1454 – Firenze, 29 settembre 1494).
Fulcro del circolo di intellettuali radunatosi a Firenze al servizio di Lorenzo il Magnifico, scrisse opere in latino, in greco e in volgare, e raggiunse una grande competenza filologica oltre alla perfezione formale dei suoi componimenti.
L’attività letteraria di Angelo Poliziano viene tradizionalmente divisa in due periodi, anche se entrambe queste passioni sono state coltivate dall'autore nell'arco della sua vita: il primo è quello in cui si concentra la maggior parte della produzione poetica, la seconda, che comincia dopo la nomina di professore presso lo Studio Fiorentino, è caratterizzata da un maggiore impegno nello studio della filologia classica, in particolare quella latina.
La produzione di Poliziano segue i principi della "voluptas", il piacere provocato dall’oggetto trattato e dalla parola usata, e della "docta varietas", la capacità dello scrittore di rifarsi a modelli differenti. Nella lirica volgare, l'umanista si è rifatto a modelli che gli hanno consentito di rendere la poesia più delicata e facile da mettere in musica.
Le Stanze per il Magnifico Giuliano, la Fabula di Orfeo e le Rime sono le sue principali opere in italiano.
Nel Quattrocento non era ancora sorta la "questione della lingua" nei termini in cui sarebbe sarebbe stata affrontata nel Rinascimento, per cui le scelte linguistiche dei vari autori volgari sono frutto di posizioni personali. In generale, la lingua usata da Poliziano è varia e non di rado accanto a forme propriamente letterarie coesiste un lessico che deriva dal fiorentino contemporaneo o popolare. Non mancano termini classicheggianti e latinismi, soprattutto nelle Stanze.
Questa lingua così composita e varia non riscontrò l'approvazione di Bembo e degli altri intellettuali del Rinascimento ed è per questo che Poliziano finì per essere trascurato come possibile modello linguistico.
Ecco una parte della Fabula di Orfeo:
PLUTO
Chi è costui che con sua dolce nota
muove l'abisso, e con l'ornata cetra?
I' veggo fissa d'Issïon la rota,
Sisifo assiso sopra la sua petra
e le Belide star con l'urna vota,
né più l'acqua di Tantalo s'arretra;
e veggo Cerber con tre bocche intento
e le Furie aquietate al pio lamento.
ORFEO
O regnator di tutte quelle genti
ch'hanno perduto la superna luce,
al qual discende ciò che gli elementi,
ciò che natura sotto 'l ciel produce,
udite la cagion de' mie' lamenti.
Pietoso amor de' nostri passi è duce:
non per Cerber legar fei questa via,
ma solamente per la donna mia.
Una serpe tra' fior nascosa e l'erba
mi tolse la mia donna, anzi il mio core:
ond'io meno la vita in pena acerba,
né posso più resistere al dolore.
Ma se memoria alcuna in voi si serba
del vostro celebrato antico amore,
se la vecchia rapina a mente avete,
Euridice mie bella mi rendete.
Ogni cosa nel fine a voi ritorna,
ogni cosa mortale a voi ricade:
quanto cerchia la luna con suo corna
convien ch'arrivi alle vostre contrade.
Chi più chi men tra' superi soggiorna,
ognun convien ch'arrivi a queste strade;
quest'è de' nostri passi estremo segno:
poi tenete di noi più longo regno.
Così la ninfa mia per voi si serba
quando suo morte gli darà natura.
Or la tenera vite e l'uva acerba
tagliata avete colla falce dura.
Chi è che mieta la sementa in erba
e non aspetti che la sia matura?
Dunque rendete a me la mia speranza:
i' non vel cheggio in don, quest'è prestanza.
Io ve ne priego pelle turbide acque
della palude Stigia e d'Acheronte;
pel Caos onde tutto el mondo nacque
e pel sonante ardor di Flegetonte;
pel pomo ch'a te già, regina, piacque
quando lasciasti pria nostro orizonte.
E se pur me la nieghi iniqua sorte,
io non vo' su tornar, ma chieggio morte.
PROSERPINA
Io non credetti, o dolce mie consorte,
che Pietà mai venisse in questo regno:
or la veggio regnare in nostra corte
et io sento di lei tutto 'l cor pregno;
né solo i tormentati, ma la Morte
veggio che piange del suo caso indegno:
dunque tua dura legge a lui si pieghi,
pel canto, pell'amor, pe' giusti prieghi.
PLUTO
Io te la rendo, ma con queste leggi:
che la ti segua per la ceca via,
ma che tu mai la suo faccia non veggi
finché tra' vivi pervenuta sia;
dunque el tuo gran disire, Orfeo, correggi,
se non, che tolta subito ti fia.
I' son contento che a sì dolce plettro
s'inchini la potenza del mio scettro.