Nel post in cui mi sono presentata e ho spiegato il motivo del mio pseudonimo, vi ho accennato al fatto che in "Lo specchio di Giano" sia riassunta in versione fantastica la mia storia e quella dei rappresentanti della mia famiglia, a cui è dedicato il libro. Per questo il nome della protagonista, Steleth, deriva da una parola etrusca che significa “Insieme”. E altre parole di ispirazione etrusca danno il nome ad altri dei personaggi umani principali: Thefri, che significa fratello, Nacna, nonna, e Tatia, zia. Altri caratteri, invece hanno nomi di famose personalità dell'antico popolo italico, da Spurinna a Thanaquil. Holaie, invece, è la versione etrusca del vero nome di mia nonna paterna, Jolanda.
Essendo un romanzo di fantasia, sono tantissimi, comunque anche i personaggi inventati, per lo più nella parte degli antagonisti: il guerriero Turno, il cui nome è ripreso dall'Eneide ma il cui carattere guarda più al Solimano della Gerusalemme Liberata, il sacerdote Tarchun e il suo nemico Ataris, fino ad arrivare alle due allieve del mago, Erichto e Picatrix (il primo nome riprende la famosa strega della Pharsalia, il secondo dal titolo di un libro sull'occultismo).
Ne è venuto fuori un romanzo corale, in cui, tra i personaggi umani, emergono Steleth e Thefri ma in cui anche gli altri uomini e dei hanno un carattere ben definito e un ruolo preciso nello svolgimento della storia.
Ma perché gli Etruschi? Perché parte della mia famiglia è originaria di luoghi abitati un tempo da questo antico popolo italico, che mi ha sempre affascinato tantissimo, nonostante non sia mai riuscita ad approfondire in maniera puntuale la loro conoscenza.
Un ultimo accenno a un fatto che mi ha portato alla redazione del volume (e che ha certamente ha contribuito alla sua lunghezza): ho ricevuto da mio padre e mia madre le memorie di entrambi i rami della mia famiglia e nel testo le ho riprodotte adattandole e tagliandole solo in minima parte. Quelle che mi ha lasciato mio padre, sono state redatte da lui sotto la dettatura di sua zia, rappresentata nel libro da Velia. Sarà lei a raccontarle ai nipoti, con una tipica cadenza toscana e un linguaggio popolare. Mia madre me le lasciò quando era molto malata e se ne sarebbe andata pochi mesi dopo. Lessi il manoscritto subito, tra fiumi di lacrime. In "Lo specchio di Giano", racconto quei momenti, con Steleth che a tratti legge il racconto della madre morente.
A breve vi parlerò degli dei!
Ecco, intanto, l'inizio del racconto di Velia, che nella storia reale, inizia prima della prima guerra mondiale:
“Abbiamo fatto una vita noi altri che non te lo puoi immaginare. Brutta, di stenti, di lavoro di tutto. Non abbiamo avuto tempo per l'intraprendenza: per gran parte della nostra vita siamo stati impegnati a cercare di sopravvivere.
Mia madre Irtma era piccina, avrà avuto 9-10 anni, quando è andata a servire nella grande Città del Giglio. Montetinus era un paese di montagna e non c'erano lavori di quel tipo. I signori di città prendevano le bimbe dai paesi e le abituavano come volevano loro. Un medico ha scritto al rector di Montetinus se gli trova una servetta e il rector gli ha mandato a dire che ce ne sarebbero due. Sono partite con un vestitino di un colore prestabilito e il fazzolettino in mano dicendo che le aspettassero al punto di posta. Da giovani se ne sono poi andate via dal medico perché non ci stavano bene. Irtma e l'altra serva avevano delle amiche che gli hanno segnalato una famiglia di orientali bravissimi. Qui la mia mamma faceva la cuoca e l'altra la serva. Aveva paura di non svegliarsi la mattina e allora dormiva in cucina sotto la tavola, su una coperta. Al mattino si alzava e preparava la colazione poi andava in camera della serva e se la mangiavano tutta poi ognuna faceva i suoi lavori. I padroni le vedevano volentieri tutti e due. Alla sera quando gli davano la libera uscita se ne andavano al teatro.
Mio papà Sabatino c'è andato a 20 anni in miniera. Io, che ero la figlia più grande, lo andavo a trovare. Mi metteva nei carretti e mi portava in galleria. Io ci andavo volentieri. Io e la mamma gli portavamo da mangiare quando eravamo a Montetinus.
Siamo andati via dal nostro Paese quando io avevo 3 o 4 anni. Andavo all'asilo che era dove stava la Demonessa, vicino al bosco dove Irtma prendeva la legna che poi vendeva. Il bosco era intorno a Montetinus poi l'hanno tagliato durante la Grande Guerra per il conflitto. I rami li prendevano le famiglie per i fuochi d'inverno. Il bosco era verso la miniera, sotto il vecchio borgo c'erano i campi coltivati.
Al bosco Irtma si era tagliata il braccio con la marrazza e l'avevano portata a Velathri all'ospedale. Ogni tanto Sabatino mi ci portava. Il dottore voleva tagliarle mezzo braccio perché andava in cancrena. Lei non voleva. Gli ha detto che aveva una famiglia e non poteva fare i lavori senza il braccio. Allora il dottore l'ha presa più in considerazione e le ha pulito tutto il braccio col coltello, gliela ha fasciata e curata e poi è guarita anche se non poteva chiudere le dita del tutto.
Sabatino dopo il turno in miniera andava all'ospedale a Velathri a piedi. Mi portava in camallina, qualche volta. Quando lui era a lavorare, io rimanevo con mia nonna, che al giorno mi metteva a dormire poi quando sapeva che mi svegliavo veniva a prendermi. Non mi trovava perché ero in piazza a giocare con gli altri bambini. “Brutta birbona, mi hai fatto prendere tanta paura che mi sei scappata dal letto”, mi diceva.
Nell'ospedale vicino alla Irtma c'era una bambina di 2-3 anni come me. La sua mamma ce l'aveva portata per farla curare e poi non era più andata a prendersela. Alla Irtma le aveva fatto tanta compassione che l'aveva adottata. Si chiamava Forestina. Io ero gelosa e Sabatino si lamentava perché mi vedeva piangere. Il dottore e la moglie siccome la nonna stava male mi tenevano a dormire da loro e mi mantenevano. Non avevano figli e mi volevano bene. La Forestina è stata adottata da due anziani senza figli che erano ricchi e avevano terreni. I giorni di festa tutti e tre andavano al tempio del paese e andavano a casa dalla Irtma. La bambina quando era in fondo al portone chiamava: “Mamma, mamma”. Irtma volava per le scale poi si abbracciavano e si tenevano strette.
Poi è venuta grande e si è sposata con un uomo cattivo che le ha rubato tutto e andava con tutte le donnacce. Le dava una cattiva vita e poi è morta giovane e senza figli. L'uomo si è dato ai vizi e poco dopo è morto anche lui.
La Forestina scriveva dalla sua casa alla città qui vicino in cui siamo trasferiti a un certo punto. Andavamo a trovare i suoi vecchi quando tornavamo a Montetinus e ci davano di tutto: frutta, vino, olio, carne ecc.
In casa non avevamo acqua e andavamo a lavare ai lavatoi. La mobilia era fatta di cassette. L'abbiamo lasciata lì quando siamo andati a Querceto. Abbiamo portato solo qualche pezzetto. Il trasloco è stato fatto con un asinello o un mulo che trainava un carretto".
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