mercoledì 31 gennaio 2024

Febbraio, la dea della febbre, Giunone e la Candelora

 Febbraio e febbre: queste due parole suonano simili e in effetti hanno un'origine comune. Derivano, infatti dal latino februus, "purificante", "che purifica". Gli antichi romani, infatti, vedevano nei sintomi della febbre un processo di purificazione all'interno del corpo e secondo il calendario romano, febbraio veniva dedicato a Febris, dea della febbre e versione latina del dio etrusco Februus.

In questo periodo, che nell'età più arcaica coincideva con l'inizio dell'anno, i romani svolgevano riti e funzioni religiose volti alla purificazione del corpo e dello spirito, celebrando dei come Febris, Giunone Februa o Lupercolo (qui vi parlo di Gennaio).

Febris, Febbre, nella mitologia romana, era associata alla guarigione dalla malaria. Si deve al re Numa Pompilio l'associazione del mese a questa divinità, a cui nella Urbe erano dedicati diversi templi. Il più importante era quello sul Palatino, lungo la Via Sacra e offriva cure medicinali e remedia, cioè amuleti o incantesimi. A lei i fedeli facevano offerte, per evitare la malaria o per ottenere la guarigione. 

Le celebrazioni in onore di Febris toccavano il loro culmine il giorno 14 del mese, con le Februalia, feste che coincidevano con i Lupercalia, ricorrenze di radice arcaica legate al ciclo di morte e rinascita della natura, alla sovversione delle regole e alla distruzione dell'ordine per permettere al mondo e alla società di purificarsi e rinascere, riti che sono "sopravvissuti" fino a noi con il Carnevale. Alcune pratiche arcaiche della fertilità prevedevano che le donne di Roma si sottoponessero ai colpi vibrati da gruppi di giovani uomini nudi, armati di fascine di rami strette da spaghi. Queste usanze  furono criticate già nel tardo Impero Romano, e furono definitivamente bandite dai cristiani. In particolare, sembra che fu il papa Gelasio I a istituire, al posto dei Lupercali, una festività dedicata all'amore, dedicando questo giorno al santo martire Valentino.



La candelora, Giunone e la presentazione al tempio di Gesù

Non solo San Valentino e il Carnevale sono feste con legami arcaici che "uniscono" Cristianesimo e riti pagani: un'altra ricorrenza di febbraio ha queste caratteristiche e questa volta non ha a che fare con Febris ma Giunone. 

Nel VII secolo d.C. la chiesa portò al 2 febbraio la festa della presentazione al tempio di Gesù. Questo evento si accompagnava alla celebrazione della purificazione della Vergine. Questo rituale doveva avvenire a quaranta giorni dal parto, quindi parlando di Maria venne fissato il 2 febbraio, a 40 giorni dal 25 dicembre, data a cui per convenzione è stata fissata la nascita di Cristo. 

Successivamente, la purificazione della Vergine acquistò maggiore importanza rispetto alla presentazione al tempio e divenne il giorno della Candelora. Si tratta anche in questo caso di una contaminazione con una celebrazione più antica e pagana: era, infatti, usanza dei romani percorrere la città con fiaccole accese durante i festeggiamenti del 2 febbraio a Giunone Purificata e Giunone Salvatrice. Gli epiteti Februa, Februlis, Februata o Februalis erano infatti epiteti di Giunone come Dea che purifica.

Per questa ricorrenza, nel VII secolo, a Roma dopo la processione notturna con ceri accesi, di svolgeva la benedizione delle candele, che venivano donate ai fedeli che le accendevano in caso di pericolo, per violenti temporali e in altri momenti difficili.

lunedì 22 gennaio 2024

Tommaso Grossi e I Lombardi alla prima crociata

 Di solito non mi spingo oltre il Settecento, ma oggi vorrei ricordare un autore romantico, nato a Bellano, il 23 gennaio 1790 e morto a Milano il 10 dicembre 1853. Si tratta di Tommaso Grossi, scrittore, poeta e notaio italiano, esponente del Romanticismo lombardo, amico di Carlo Porta e Alessandro Manzoni.

Tra le sue opere principali troviamo la Prineide, un poemetto satirico in milanese e in sestine di endecasillabi, definito da Stendhal "la maggiore satira che la letteratura abbia prodotto nell'ultimo secolo", le novelle in versi La fuggitiva, in dialetto milanese e poi in italiano, e Ildegonda, in italiano, e il romanzo storico di ambientazione trecentesca Marco Visconti.

Inoltre scrisse il poema storico I Lombardi alla prima crociata, pubblicato nel 1826, in cui tentò di effettuare una sorta di "rivisitazione" più scorrevole e aggiornata, della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. L'opera che non ebbe il favore della critica, tuttavia, con le sue 3500 copie risultò l'opera letteraria con più alta tiratura del tempo. Alcuni decenni più tardi, il melodramma omonimo di Giuseppe Verdi. 

 Il poema è citato nel capitolo XI dei Promessi Sposi dell'amico Manzoni: 

"Leva il muso, odorando il vento infido,

se mai gli porti sentore d'uomo o di ferro, drizza gli orecchi acuti, e gira due occhi sanguigni da cui traluce insieme l'ardore della preda e il terrore della caccia. Del rimanente, quel bel verso, chi volesse saper donde venga, è tratto da una diavoleria inedita di crociate e di lombardi, che presto non sarà più inedita, e farà un bel romore; e io l'ho pigliato perché mi veniva a taglio, e donde l'ho tolto, lo dico per non farmi bello dell'altrui: che non pensasse taluno ch'ella sia una mia arte per far sapere che l'autore di quella diavoleria ed io siamo come fratelli, e ch'io frugo a mia voglia ne' suoi manoscritti".


Ecco un parte dell'incipit, dallo stile tipicamente ottocentesco, in cui viene descritto l'arrivo dei Lombardi in Terra Santa:

E per l’ardente, faticosa arena

Di larghi piani o d’affondate valli,

Ogni dì più fiaccavasi la lena

Delle bestie da soma e de’ cavalli

Che a fren guidati si reggeano a pena

Su per quei dubbi, svariati calli,

E dall’ arsura e dal travaglio spenti

Cadeano a frotte, ingombro ai sorvegnenti.


venerdì 19 gennaio 2024

Ottavio Rinuccini

 Ottavio Rinuccini, nato a Firenze il 20 gennaio 1562 da una famiglia di ricci banchieri e mercanti e morto sempre nel capoluogo toscano il 28 marzo 1621 è stato un librettista e poeta italiano, di cui vi ho recentemente parlato in merito alla nascita del melodramma (qui il post).

A lui infatti si devono i primi libretti della storia di questo genere che unisce poesia e musica: Dafne, del 1598, musicata da Jacopo Corsi e Jacopo Peri, Euridice, del 1600, musicata da Jacopo Peri e da Giulio Caccini, Arianna, musicata nel 1608 da Claudio Monteverdi e il Il ballo delle ingrate, musicata nel 1608 sempre da Monteverdi. La sua importanza per la storia della musica si deve proprio alle sperimentazioni condotte in ambito teatrale, creando testi drammatici destinati ad essere cantati

Oltre ai libretti, scrisse una raccolta di poesie, sull'esempio di Tasso, Guarini, Chiabrera e della lirica francese.

Esponente di spicco nella vita culturale e artistica fiorentina tra gli ultimi decenni del Cinquecento e i primi del Seicento, fu affiliato all’Accademia Fiorentina e all’Accademia degli Alterati, dove letterati, aristocratici e musicofili s’incontravano per discutere sulla funzione della poesia moderna, sul teatro, la musica e sulla necessità di riformare queste arti guardando al modello dell’antichità classica. 

L'autore, inoltre, soggiornò diverse volte in Francia a seguito di Maria de’ Medici, moglie di Enrico IV re di Francia, di cui si era guadagnato i favori con la scrittura dell’Euridice in occasione dei festeggiamenti fiorentini per le loro nozze. In merito a questo il Parnaso italiano, a cura di Andrea Rubbi, stampato da Antonio Zatta e figli, Venezia, 1785, riporta: «Fiorentino. Fiorì sul fine del secolo XVI e morì nel 1621 prima di vedere alla luce le sue opere. Visse gran tempo in Francia. Fu gentiluomo di camera del re Enrico IV. Dice l'Eritreo, che fu amante di Maria de' Medici, moglie del detto re. Bella avventura a un poeta, ma sempre pericolosa».

A Mantova collaborò con Claudio Monteverdi, maestro di cappella presso la corte dei Gonzaga. Negli ultimi anni, tornato a Firenze, lavorò per riportare il teatro al modello classico. 

Come vi ho già raccontato, si deve a Rinuccini la scrittura del libretto per quella che viene considerata la prima opera vera e propria, l’Euridice, su musiche di Peri e, in parte, di Caccini, rappresentata nel 1600 in occasione delle nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV re di Francia. 


Vi lascio come sua citazione una parte dell'ultimo discorso di Apollo nella Dafne:


Ninfa sdegnosa, e schiva,

che fuggendo l'amor d'un dio del cielo

cangiasti in verde lauro il tuo bel velo,

non sia però ch'io non onori ed ami,

ma sempre al mio crin d'oro

faran ghirlanda le tue fronde, e rami;

ma deh, s'in questa frond'odi il mio pianto,

senti la nobil cetra

quai doni a te del ciel cantando impetra.

Non curi la mia pianta, o fiamma, o gelo,

sian del vivo smeraldo eterni i pregi

né l'offenda già mai l'ira del cielo.

Non curi la mia pianta, o fiamma, o gelo,

sian del vivo smeraldo eterni i pregi

né l'offenda già mai l'ira del cielo.

I bei cigni di Dirce, e i sommi regi

di verdeggianti rami al crin famoso

portin segno d'onor ghirlande, e fregi

gregge mai né pastor sia che noioso

del verde manto suo la spogli, e prive;

alla grat'ombra il dì lieto, e gioioso

traggan dolce cantando, e ninfe, e dive.


lunedì 15 gennaio 2024

Tacito orror di solitaria selva di Vittorio Alfieri

 Vittorio Alfieri nacque ad Asti il 16 gennaio 1749. Si tratta di un autore che ho amato soprattutto all'epoca del liceo e dell'università e che ha continuato ad accompagnarmi anche in seguito. In particolare, mi ha sempre impressionato un suo sonetto: Tacito orror di solitaria selva, scritto nel 1786 e inserito nelle Rime


Tacito orror di solitaria selva

 di sì dolce tristezza il cor mi bea,

 che in essa al par di me non si ricrea

 tra’ figli suoi nessuna orrida belva.

E quanto addentro più il mio piè s’inselva,

tanto più calma e gioia in me si crea;

 onde membrando com’io là godea,

 spesso mia mente poscia si rinselva.

 Non ch’io gli uomini abborra, e che in me stesso

mende non vegga, e più che in altri assai;

 né ch’io mi creda al buon sentier più appresso:

 ma non mi piacque il vil mio secol mai,

 e dal pesante regal giogo oppresso,

 sol nei deserti tacciono i miei guai.


Alfieri in questa poesia, dal carattere autobiografico, come accade nel resto delle Rime, esprime il momentaneo sollievo che egli prova nell’addentrarsi in un bosco e isolarsi dal mondo, dominato da mediocrità, dispotismo e soppressione della libertà.

Il componimento è caratterizzato da un clima pre-romantico, con temi come la foresta solitaria, in cui il poeta si sente dolcemente triste, e la memoria. Un tratto che poi sarà tipicamente romantico è la corrispondenza tra l'io dell'autore e il paesaggio che lo circonda. 

La selva è cara al poeta non perché disprezza gli uomini ma perché gli consente di isolarsi dall'epoca in cui sta vivendo, in cui non ci si distingue per eroismo e virtù ma si rimane asservi ai despoti. Quello dell'Alfieri è un fiero isolamento rispetto alla mediocrità comune. 

Lo stile rispecchia la tensione contenutistica del sonetto. 



lunedì 8 gennaio 2024

Agonalia Iani

 Come abbiamo visto, il mese di gennaio nell'antica Roma era dedicato al dio Giano, che i romani invocavano prima di intraprendere qualsiasi attività che rivestiva una qualche importanza. In particolare il 9 del mese si tenevano le festività Agonalia o Agonia Iani. 

Le Agonalia venivano celebrate quattro volte all'anno ed ogni volta era festeggiata una diversa divinità: il 9 gennaio a Giano, appunto, il dio degli inizi, il 17 marzo a Marte, il dio della guerra, il 21 maggio a Veiove, un'antica divinità di cui si sa ancora poco, e l'11 dicembre al sole indigete, uno degli appellativi del dio Apollo. La celebrazione di gennaio era per l’inizio del nuovo anno, ed era in stretta connessione con i Carmentalia, in onore della ninfa Carmenta.

La celebrazione consisteva nel sacrificio di un ariete nero nella Regia da parte del Rex Sacrorum e questo ha fatto desumere che si trattasse di una festa molto antica, in quanto in origine è probabile che fosse celebrata dal re di Roma. Secondo la tradizione, infatti, l'istituzione di tali festività si doveva a Numa Pompilio, il secondo dei sette re della città.

Quella di Giano è una figura che mi ha sempre affascinato tanto che a lui è intitolato il mio primo libro, "Lo specchio di Giano", un romanzo fantasy ispirato agli Etruschi. Questo popolo venerava Culsans, un dio simile a Giano nell’aspetto - era anch'egli bifronte - e probabilmente anche nella sfera d’azione. 

Entrambe le divinità prendono il nome dalla porta, detta culs in etrusco e ianua in latino. L’aspetto di Culsans è noto da pochi reperti, tutti ritrovati presso porte civiche, considerate luoghi vulnerabili da proteggere.



martedì 2 gennaio 2024

Pietro Metastasio

 Oggi torno a parlarvi del melodramma e di uno dei suoi protagonisti, il librettista Pietro Metastasio, nato a Roma il 3 gennaio 1698 e morto a Vienna il 12 aprile 1782, che con i suoi lavori ha rinnovato profondamente l'opera lirica.

Pietro Trapassi, di umile famiglia, viene accolto dal nobiluomo Gian Vincenzo Gravina che lo avvia agli studi giuridici e letterari, inducendolo anche a mutare il suo cognome nella forma grecizzante di Metastasio. Il poeta cresce quindi seguendo l'educazione classicista fino al 1718, anno della morte del suo tutore. Da quel momento si apre anche ad altri tipi di letteratura, da quella barocca a quella manierista. 

Nel 1720 si trasferisce a Napoli, dove conosce la nobildonna Marianna Pignatelli, vicina all'Imperatrice, e la cantante Marianna Benti Bulgarelli, cui dedica la Didone abbandonata, suo primo melodramma e suo primo grandissimo successo. Così nel 1729, per intercessione della Pignatelli, viene chiamato a Vienna alla corte dell’imperatore Carlo VI, dove diventa poeta di corte sostituendo Apostolo Zeno, dove rimane fino alla morte. Da qui le sue opere si diffondono in tutta Europa. I suoi testi sono stati musicati da numerosi musicisti, come Mozart, Gluck e Handel, e hanno influenzato l'opera lirica del suo tempo.

La caratteristica principale della Didone abbandonata è l'attenzione che l'autore dedica alla descrizione psicologia dei protagonisti. Tra le altre numerosissime opere, citiamo l'Olimpiade, scritta nel 1733, che può essere indicata come modello del melodramma del Settecento. 

Tra i temi principali delle opere di Metastasio troviamo amore, virtù, onore e passione, dilemmi morali e complessità umane: le emozioni sono rappresentate in maniera profonda ed espressiva con i personaggi che spesso devono compiere scelte difficili per preservare la loro integrità morale.  

Nei lavori dell'autore spesso vengono riflesse le gerarchie sociali dell'epoca, con personaggi aristocratici e figure di ceto più basso. 

La scrittura di Metastasio si caratterizza per chiarezza, eleganza e musicalità.

Nel suo lavoro di riforma del melodramma va ad affinare il processo avviato da Apostolo Zeno: riduce il numero di intrecci della trama a uno solo e i rapporti tra i vari personaggi vengono definiti dal susseguirsi delle varie scene. L'autore introduce l'alternanza tra recitativi e arie, affidando ai primi la funzione più strettamente narrativa, ed alle seconde quella lirica, fissandole in corrispondenza della fine della scena o dell'uscita di scena dei personaggi che descrivono il proprio stato d'animo o i propri pensieri.  

Metastasio auspicava un profondo cambiamento del teatro poetico, partendo dalla necessità di dover coniugare parole e musica in una chiave nuova rispetto a melodramma secentesco.  

Se i suoi versi più famosi sono quelli tratti dal Demetrio, "È la fede degli amanti | come l'Araba Fenice | che vi sia ciascun lo dice | ove sia nessun lo sa", e ci sono altre numerosissime citazioni degne di nota, segnalo una sua opera non appartenente al melodramma ma una canzone di stampo arcadico, la celebre Libertà, in cui il poeta racconta il suo stato d'animo dopo l'essersi liberato da una passione amorosa tossica.


La libertà

Grazie agl'inganni tuoi,

al fin respiro, o Nice,

al fin d'un infelice

ebber gli dei pietà:


sento da' lacci suoi,

sento che l'alma è sciolta;

non sogno questa volta,

non sogno libertà.


Mancò l'antico ardore,

e son tranquillo a segno,

che in me non trova sdegno

per mascherarsi amor.


Non cangio più colore

quando il tuo nome ascolto;

quando ti miro in volto

più non mi batte il cor.


Sogno, ma te non miro

sempre ne' sogni miei;

mi desto, e tu non sei

il primo mio pensier.


Lungi da te m'aggiro

senza bramarti mai;

son teco, e non mi fai

né pena, né piacer.


Di tua beltà ragiono,

né intenerir mi sento;

i torti miei rammento,

e non mi so sdegnar.


Confuso più non sono

quando mi vieni appresso;

col mio rivale istesso

posso di te parlar.


Volgimi il guardo altero,

parlami in volto umano;

il tuo disprezzo è vano,

è vano il tuo favor;


che più l'usato impero

quei labbri in me non hanno;

quegli occhi più non sanno

la via di questo cor.


Quel, che or m'alletta, o spiace.

se lieto o mesto or sono,

già non è più tuo dono,

già colpa tua non è:


che senza te mi piace

la selva, il colle, il prato;

ogni soggiorno ingrato

m'annoia ancor con te.


Odi, s'io son sincero;

ancor mi sembri bella,

ma non mi sembri quella,

che paragon non ha.


E (non t'offenda il vero)

nel tuo leggiadro aspetto

or vedo alcun difetto,

che mi parea beltà.


Quando lo stral spezzai,

(confesso il mio rossore)

spezzar m'intesi il core,

mi parve di morir.


Ma per uscir di guai,

per non vedersi oppresso,

per racquistar se stesso

tutto si può soffrir.


Nel visco, in cui s'avvenne

quell'augellin talora,

lascia le penne ancora,

ma torna in libertà:


poi le perdute penne

in pochi dì rinnova,

cauto divien per prova

né più tradir si fa.


So che non credi estinto

in me l'incendio antico,

perché sì spesso il dico,

perché tacer non so:


quel naturale istinto,

Nice, a parlar mi sprona,

per cui ciascun ragiona

de' rischi che passò.


Dopo il crudel cimento

narra i passati sdegni,

di sue ferite i segni

mostra il guerrier così.


Mostra così contento

schiavo, che uscì di pena,

la barbara catena,

che strascinava un dì.


Parlo, ma sol parlando

me soddisfar procuro;

parlo, ma nulla io curo

che tu mi presti fé


parlo, ma non dimando

se approvi i detti miei,

né se tranquilla sei

nel ragionar di me.


Io lascio un'incostante;

tu perdi un cor sincero;

non so di noi primiero

chi s'abbia a consolar.


So che un sì fido amante

non troverà più Nice;

che un'altra ingannatrice

è facile a trovar.


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