domenica 31 dicembre 2023

Il mese di gennaio e Giano

Oggi inizia il nuovo anno, con il suo primo mese, gennaio, che anticamente era dedicato al dio Giano

Gennaio era il primo mese dopo il solstizio d’inverno e quindi quello che iniziava con il ciclo di ascesa del sole. A dedicare al dio il mese di gennaio fu Numa Pompilio, mentre con la riforma giuliana del 46 a.C. gennaio passò a essere il primo dell'anno.

Giano viene rappresentato e definito come Giano bifronte, ossia con due facce, spesso diverse tra loro, che si contrappongono unite per la nuca e che guardano al passato e al futuro. Giano è il custode di tutti i momenti di transito, di tutti i passaggi, di tutti gli inizi, di tutte le porte (che in latino si dice “ianua”).


Giano è una divinità esclusivamente romano-italica, la più antica tra gli dei maggiori italici, i Di indigetes, invocata spesso insieme a Iuppiter. Fu, insieme a Quirino, l'unico dio romano a non essere assimilato a divinità ellenistiche.

Il suo culto è probabilmente antichissimo e risale a un'epoca arcaica, in cui i culti dei popoli italici erano in gran parte ancora legati ai cicli naturali della raccolta e della semina, poi con il passare del tempo il suo mito divenne sempre più complesso. 

Quella di Giano è una figura che mi ha sempre affascinato tanto che a lui è intitolato il mio primo libro, "Lo specchio di Giano", un romanzo fantasy ispirato agli Etruschi. Questo popolo venerava Culsans, un dio simile a Giano nell’aspetto - era anch'egli bifronte - e probabilmente anche nella sfera d’azione. 

Entrambe le divinità prendono il nome dalla porta, detta culs in etrusco e ianua in latino. L’aspetto di Culsans è noto da pochi reperti, tutti ritrovati presso porte civiche, considerate luoghi vulnerabili da proteggere.


domenica 24 dicembre 2023

Jacopone da Todi

 Oggi è Natale, e vorrei farvi gli auguri di Buone Feste ricordando una poesia di Jacopone da Todi, nato tra il 1230 e il 1236 circa e morto nel 1306 nel giorno di Natale.

Jacopo dei Benedetti è stato un religioso venerato come beato dalla Chiesa cattolica, considerato tra i più importanti poeti italiani del Medioevo, noto soprattutto per le sue laudi religiose e per il Pianto della Madonna.  

La religiosità di Jacopone si muove nel contesto del profondo conflitto tra francescanesimo spirituale e gerarchia ecclesiastica. Essa prende i toni di un rifiuto totale del mondo e delle sue vanità, dei suoi compromessi, delle sue trame, della sua sensualità. Le opere di Jacopone affermano la negatività del mondo tramite un dialetto umbro rivisitato e reso vivo e corposo.


Ecco l'inizio di una delle sue opere dedicate al Natale: 

AD l’amor ch’è uenuto       en carne a noi se dare,

     andiamo a laude fare       et canto con honore.

Honoral, da che uiene,       alma, per te saluare;

     uia, più non tardare       ad lui de peruenire!

     de sé non se retene       che non te uoglia dare

     parte, perché uol fare       te seco tutto unire;

     porrai donqua soffrire       a llui che non te rendi,

     et lui tutto non prendi       et abracci con amore?

Pensa quanto te dona       et a te que demanda,

     però che non comanda       più che non possi fare;

     lo ciel sì abandona       et per terra sì anda,

     et ante sé non manda       richeza per usare;

     en stalla sì uol stare,       palazo abandonato,

     seco non ha menato       alcun suo seruitore.

La sedia d’auro fino       de gemme resplendente,

     corona sì lucente,       or perché l’ai lassata?

     orden de cherubini,       seraphin tanto ardente,

     quella corte gaudente       co l’ai abandonata?

     corte tanto honorata       de tal semi & donzelli

     et per amor fratelli,       perché lassi, Signore?

Per sedia tanto bella       presepe hai receuuto,

     et poco feno hauuto       doue fussi locato;

     per corona de stelle       en pancelli enuoluto,


     boue & aseno tenuto       ch’eri sì honorato;

     ora sè acompagnato       da Ioseph & Maria,

     ch’aueui en compagnìa       corte de tanto honore.

Ebrio par deuentato       o matto senza senno,

     lassando sì gran renno       et sì alte richeze;

     ma com’è ciò scontrato       de tal matteza segno?

     hauereste tu pegno       altre trouar alteze?

     uegio che son forteze       d’amor senza mesura,

     che muta tanta altura       en sì basso ualore.

Amor de cortesìa,       de cui sè namorato,

     che t’à sì uulnerato,       che pazo te fa gire?

     uegio che t’à en balìa,       sì forte t’à legato,

     che tutto te sè dato,       già non poi contradire;

     ben so che a morire       questo amor sì te mena,

     da poi che non allena       né cessa suo calore.

Già non fu mai ueduto       amor sì smesurato,

     ch’allora quando è nato       hagia tanta potenza;

     poi che s’è uenduto       emprima che sia nato,

     l’amor t’à comparato,       de te non fai retenza;

     et non reman sentenza,       se non che te occida

     l’amor et sì conquida       en croce con dolore.


mercoledì 20 dicembre 2023

Giovanni Boccaccio: la novella di Teodolinda, Agilulfo e il palafreniere

 Oggi ricorre l'anniversario della morte di Giovanni Boccaccio, avvenuta il 21 dicembre 1375. Ho letto il Decameron anni fa e devo dire che mi ha appassionato molto, soprattutto per quanto riguarda le novelle comiche. Per questo, oggi vi parlo della seconda novella della terza giornata, quella del palafreniere innamorato della regina di Teodolinda.

La novella è narrata da Pampinea ed ha per protagonista uno stalliere, uomo di umili origini, bello e cortese, che si innamora della stessa regina per la quale è a servizio, e decide di provare a soddisfare la sua passione amorosa.

Il tema dominante della storia è quello dell’amore che non conosce barriere sociali associato all'ingegno, che accomuna i re Agilulfo e lo stalliere, e alla beffa, su cui si strutturano tante novelle dell'autore.


Ecco il testo:

Agilulf, re de’ longobardi, sí come i suoi predecessori avevan fatto, in Pavia, cittá di Lombardia, fermò il solio del suo regno, avendo presa per moglie Teudelinga, rimasa vedova d’Auttari, re stato similmente de’ longobardi, la quale fu bellissima donna, savia ed onesta molto, ma male avventurata in amadore. Ed essendo alquanto per la vertú e per lo senno di questo re Agilulf le cose de’ longobardi prospere ed in quiete, addivenne che un pallafreniere della detta reina, uomo quanto a nazione di vilissima condizione, ma per altro da troppo piú che da cosí vil mestiere, e della persona bello e grande così come il re fosse, senza misura della reina s’innamorò: e per ciò che il suo basso stato non gli avea tolto che egli non conoscesse questo suo amore esser fuori d’ogni convenienza, sì come savio, a niuna persona il palesava né eziandio a lei con gli occhi ardiva di scoprirlo. E quantunque senza alcuna speranza vivesse di dover mai a lei piacere, pur seco si gloriava che in alta parte avesse allogati i suoi pensieri, e come colui che tutto ardeva in amoroso fuoco, studiosamente faceva, oltre ad ogni altro de’ suoi compagni, ogni cosa la qual credeva che alla reina dovesse piacere. Per che intervenia che la reina, dovendo cavalcare, piú volentieri il pallafreno da costui guardato cavalcava che alcuno altro; il che quando avveniva, costui in grandissima grazia sel reputava, e mai dalla staffa non le si partiva, beato tenendosi qualora pure i panni toccarle poteva. Ma come noi veggiamo assai sovente avvenire, quanto la speranza diventa minore, tanto l’amor maggior farsi, cosí in questo povero pallafreniere avvenia, intanto che gravissimo gli era il poter comportare il gran disio cosí nascoso come facea, non essendo da alcuna speranza aiutato; e piú volte seco, da questo amor non potendo disciogliersi, diliberò di morire. E pensando seco del modo, prese per partito di volere questa morte per cosa per la quale apparisse lui morire per l’amore che alla reina aveva portato e portava: e questa cosa propose di voler che tal fosse, che egli in essa tentasse la sua fortuna in potere o tutto o parte aver del suo disidèro. Né si fece a voler dir parole alla reina o a voler per lettere far sentire il suo amore, ché sapeva che invano o direbbe o scriverebbe, ma a voler provare se per ingegno con la reina giacer potesse: né altro ingegno né via c’era se non trovar modo come egli in persona del re, il quale sapea che del continuo con lei non giacea, potesse a lei pervenire e nella sua camera entrare. Per che, acciò che vedesse in che maniera ed in che abito il re, quando a lei andava, andasse, piú volte di notte in una gran sala del palagio del re, la quale in mezzo era tra la camera del re e quella della reina, si nascose: ed intra l’altre una notte vide il re uscire della sua camera inviluppato in un gran mantello ed aver dall’una mano un torchietto acceso e dall’altra una bacchetta, ed andare alla camera della reina e senza dire alcuna cosa percuotere una volta o due l’uscio della camera con quella bacchetta, ed incontanente essergli aperto e toltogli di mano il torchietto. La qual cosa veduta, e similmente vedutolo ritornare, pensò di cosí dover fare egli altressí: e trovato modo d’avere un mantello simile a quello che al re veduto avea ed un torchietto ed una mazzuola, e prima in una stufa lavatosi bene, acciò che non forse l’odor del letame la reina noiasse o la facesse accorgere dello ’nganno, con queste cose, come usato era, nella gran sala si nascose. E sentendo che giá per tutto si dormia, e tempo parendogli o di dovere al suo disidèro dare effetto o di far via con alta cagione alla bramata morte, fatto con la pietra e con l’acciaio che seco portato avea un poco di fuoco, il suo torchietto accese, e chiuso ed avviluppato nel mantello se n’andò all’uscio della camera e due volte il percosse con la bacchetta. La camera da una cameriera tutta sonnacchiosa fu aperta, ed il lume preso ed occultato; laonde egli, senza alcuna cosa dire, dentro alla cortina trapassato e posato il mantello, se n’entrò nel letto nel quale la reina dormiva. Egli disiderosamente in braccio recatalasi, mostrandosi turbato, per ciò che costume del re esser sapea che, quando turbato era, niuna cosa voleva udire, senza dire alcuna cosa o senza essere a lui detta, piú volte carnalmente la reina conobbe. E come che grave gli paresse il partire, pur temendo non la troppa stanza gli fosse cagione di volgere l’avuto diletto in tristizia, si levò, e ripreso il suo mantello ed il lume, senza alcuna cosa dire se n’andò, e come piú tosto potè si tornò al letto suo. Nel quale appena ancora esser poteva, quando il re, levatosi, alla camera andò della reina, di che ella si maravigliò forte: ed essendo egli nel letto entrato e lietamente salutatala, ella, dalla sua letizia preso ardire, disse: 

— O signor mio, questa che novitá è stanotte? Voi vi partite pur testé da me, ed oltre l’usato modo di me avete preso piacere: e cosí tosto da capo ritornate? Guardate ciò che voi fate. 

Il re, udendo queste parole, subitamente presunse, la reina da similitudine di costumi e di persona essere stata ingannata, ma come savio subitamente pensò, poi vide la reina accorta non se n’era, né alcuno altro, di non volernela fare accorgere; il che molti sciocchi non avrebbon fatto, ma avrebbon detto: 

— Io non ci fui io; chi fu colui che ci fu? come andò? chi ci venne? 

Di che molte cose nate sarebbono, per le quali egli avrebbe a torto contristata la donna e datale materia di disiderare altra volta quello che giá sentito avea; e quello che tacendo niuna vergogna gli poteva tornare, parlando sarebbe vitupèro recato. Risposele adunque il re, piú nella mente che nel viso o che nelle parole turbato: 

— Donna, non vi sembro io uomo da poterci altra volta essere stato, ed ancora appresso questa tornarci? 

A cui la donna rispose: — Signor mio, sì; ma tuttavia io vi priego che voi guardiate alla vostra salute. 

 Allora il re disse: — Ed egli mi piace di seguire il vostro consiglio, e questa volta senza darvi piú impaccio me ne vo’ tornare. 

Ed avendo l’animo giá pieno d’ira e di maltalento per quello che vedeva gli era stato fatto, ripreso il suo mantello, s’uscí della camera e pensò di voler chetamente trovare chi questo avesse fatto, imaginando lui della casa dovere essere, e qualunque si fosse, non esser potuto di quella uscire. Preso adunque un piccolissimo lume in una lanternetta, se n’andò in una lunghissima casa che nel suo palagio era sopra le stalle de’ cavalli, nella quale quasi tutta la sua famiglia in diversi letti dormiva: ed estimando che, qualunque fosse colui che ciò fatto avesse che la donna diceva, non gli fosse potuto ancora il polso ed il battimento del cuore per lo durato affanno riposare, tacitamente, cominciato dall’un de’ capi della casa, a tutti cominciò ad andar toccando il petto, per sapere se gli battesse. Come che ciascuno altro dormisse forte, colui che con la reina stato era non dormiva ancora; per la qual cosa, veggendo venire il re ed avvisandosi ciò che esso cercando andava, forte cominciò a temere, tanto che sopra il battimento della fatica avuta la paura n’aggiunse un maggiore: ed avvisossi fermamente che, se il re di ciò s’avvedesse, senza indugio il farebbe morire. E come che varie cose gli andasser per lo pensiero di doversi fare, pur veggendo il re senza alcuna arme diliberò di far vista di dormire e d’attender quello che il re far dovesse. Avendone adunque il re molti cerchi né alcun trovandone il quale giudicasse essere stato desso, pervenne a costui, e trovandogli batter forte il cuore, seco disse: 

— Questi è desso. 

Ma sí come colui che di ciò che fare intendeva niuna cosa voleva che si sentisse, niuna altra cosa gli fece se non che, con un paio di forficette le quali portate avea, gli tondé alquanto dall’una delle parti i capelli, li quali essi a quel tempo portavan lunghissimi, acciò che a quel segnale la mattina seguente il riconoscesse; e questo fatto, si dipartì e tornossi alla camera sua. Costui, che tutto ciò sentito avea, sí come colui che malizioso era, chiaramente s’avvisò perché cosí segnato era stato; laonde egli senza alcuno aspettar si levò, e trovato un paio di forficette, delle quali per avventura v’erano alcun paio per la stalla per lo servigio de’ cavalli, pianamente andando a quanti in quella casa ne giacevano, a tutti in simile maniera sopra l’orecchie tagliò i capelli, e ciò fatto, senza essere stato sentito, se ne tornò a dormire. Il re, levato la mattina, comandò che, avanti che le porti del palagio s’aprissono, tutta la sua famiglia gli venisse davanti; e cosí fu fatto. Li quali tutti, senza alcuna cosa in capo davanti standogli, esso cominciò a guardare per riconoscere il tonduto da lui: e veggendo la maggior parte di loro co’ capelli ad un medesimo modo tagliati, si maravigliò, e disse seco stesso: 

— Costui il quale io vo cercando, quantunque di bassa condizion sia, assai ben mostra d’essere d’alto senno. 

Poi, veggendo che senza romore non poteva avere quel che egli cercava, disposto a non volere per piccola vendetta acquistar gran vergogna, con una sola parola d’ammonirlo e di mostrargli che avveduto se ne fosse gli piacque; ed a tutti rivolto disse: 

— Chi il fece nol faccia mai piú, ed andatevi con Dio. 

Un altro gli avrebbe voluti far collare, martoriare, esaminare e domandare, e ciò faccendo avrebbe scoperto quello che ciascun dèe andar cercando di ricoprire: ed essendosi scoperto, ancora che intera vendetta n’avesse presa, non iscemata ma molto cresciuta n’avrebbe la sua vergogna e contaminata l’onestá della donna sua. Coloro che quella parola udirono si maravigliarono e lungamente tra sé esaminarono che avesse il re voluto per quella dire, ma niuno ve ne fu che la 'ntendesse, se non colui solo a cui toccava. Il quale, sí come savio, mai, vivente il re, non la scoperse, né piú la sua vita in sì fatto atto commise alla fortuna.

sabato 16 dicembre 2023

Prudenza Gabrielli

 Nata il 17 dicembre 1654, Prudenza Gabrielli fu una poetessa romana, appartenente all'Accademia dell'Arcardia con lo pseudonimo di Elettra Citeria

La sua produzione poetica è per lo più inclusa nel tomo terzo delle Rime degli Arcadi, con ispirazione collegata per lo più alla scomparsa del marito. 


Ecco uno dei suoi sonetti:

Di duolo in duolo e d’una in altra pena

     Vago del mio martir mi tragge Amore:

     E il grave incarco, ond’è sì oppresso il core

     È tal, che tempo, nè distanza affrena.



E di tai tempre ei mi formò catena,

     Che disper’io di trarre il piè mai fuore:

     Tanto può in me l’inusitato ardore,

     Ch’ormai me stesso io più ravviso appena.

Il rio timor, la gelosia m’attrista,

     10La falsa speme, il dispietato sdegno,

     La brevissima gioia al dolor mista.

Sol tra gli affanni arsi d’Amor nel regno:

     Che fia non so s’ei maggior forza acquista;

     So, che ad ogni suo stral son fatto segno.


domenica 10 dicembre 2023

Apostolo Zeno e la Griselda

 Apostolo Zeno, nato a Venezia l'11 dicembre 1668 e morto sempre a Venezia l'11 novembre 1750 è stato un poeta, librettista, giornalista e letterato italiano.

Nobile veneziano, entrò in contatto con la letteratura legata alla nascente Arcadia e figurò nel 1691 tra i fondatori dell'Accademia degli Animosi. Nel 1695 compose il primo libretto d'opera, Gl'inganni felici, che ottenne un grande successo rendendolo librettista alla moda. 

Fu fondatore nel 1710 insieme al fratello Pier Caterino Zeno, a Scipione Maffei e ad Antonio Vallisneri del Giornale de' letterati d'Italia, che in seguito ebbe collaboratori illustri come Ludovico Antonio Muratori, Giovanni Battista Morgagni, Giambattista Vico, Bernardino Ramazzini. Fu poeta cesareo presso la corte imperiale viennese di Carlo VI fino al 1729, quando gli subentrò Pietro Metastasio. 

Compose 36 libretti d'opera d'argomento storico e mitologico, fra i quali La Griselda, musicata da diversi autori, tra cui Alessandro Scarlatti,  Antonio Pollarolo, Antonio Maria Bononcini, Tommaso Albinoni, Giovanni Bononcini e Antonio Vivaldi. È tratto dall'episodio di Griselda dal Decameron di Boccaccio. 

Apostolo Zeno avviò una riforma del melodramma, rendendolo più sobrio, secondo i principi arcadici, sviluppati poi dal Metastasio; ispiratosi alla tragedia francese, rispettò, come quella, la regola dell'unità di tempo e di luogo, ridusse il numero dei personaggi e delle scene ed eliminò i ruoli buffi, costruendo le opere in modo che potessero essere rappresentate anche senza musica.


Dal primo atto della Griselda:

GUALTIERO

 Vago sei, volto amoroso;

ma ti afflige un non so che.

Dillo a me per tuo riposo;

quell’affanno e che cos’è?

COSTANZA

Sento anch’io nel mio contento

che mi afflige un non so che.

S’io nol so, che pur lo sento,

chi può dir che cosa egli è?


Lo specchio di Giano e gli dei

 Avendo deciso di scrivere un romanzo ispirato agli Etruschi e ai popoli antichi non ho potuto fare a meno, in Lo specchio di Giano , di da...